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Filippa Filippazzi

Post n°428 pubblicato il 11 Febbraio 2008 da liberante
 

“Una cameriera negra, Filippa, a chi vuoi che importi, era peggio fosse morto un italiano, ti pare?”

.

.

In quel momento finì il mio amore per Mario.
Avrei voluto strozzarlo e picchiarlo e lo feci a pugni e calci, scaricandogli addosso la smisurata rabbia che mi era montata dentro. Gli urlai tutto il mio disgusto per lui e per me stessa. Come poteva pensare che la morte di una negra fosse qualcosa di diverso da una qualsiasi altra morte. Non potevo essere complice di una simile infamia.
Era finita, finita e basta.
Per me lui non esisteva più.
Lo scacciai da casa mia gridando di non farsi rivedere mai più.
Ero fuori di me, ma finalmente lucida e sicura di quello che stavo facendo.
Mi cercò piangendo e mettendo il mondo ai miei piedi.
Fui granitica. Una pietra al posto del cuore e nemmeno una lacrima.
Tutto l’amore che avevo provato per lui era diventato un rancore spietato.
Gli resi tutti i regali dicendo che non sapevo che farmene di roba rubata. Misi in scatoloni, che gli feci recapitare, tutte le cose sue che erano a casa mia e delle mie cose a casa sua non volli sapere nulla e gli dissi di farne un falò.
Fui una roccia e il gelo era ormai talmente penetrato in me che ripresi i miei vestiti grigi ed opachi, la mia vita da zitella e la solitudine come miglior compagnia.
Smise di tormentarmi quando gli dissi che se non la smetteva lo denunciavo ai carabinieri e testimoniavo contro di lui e lo volevo vedere in galera per tutta la vita, pur sapendo che mi avrebbero considerato complice.
Semplicemente sparì.
Da un giorno all’altro.
Chiuse casa, la mise in vendita e se andò.
Non ne seppi più nulla.
A distanza di anni il solo ricordare mi trafigge come un pugnale.
Dopo quasi quindici anni non sono riuscita a dimenticare, né tanto meno a perdonare.
Non gli perdonerò mai di averlo amato.
Ero davvero innamorata di lui?
È una domanda che negli anni è ritornata spesso nelle mattine di caffè amaro, seduta di fronte alla mia solitudine.
Ancora oggi non so dare una risposta certa.
Ma d’altra parte non sono nemmeno certa di che cosa veramente sia amore.
Se in me la voglia che ho di amare e di essere amata non mi faccia vedere quello che non è.
Eppure stavo bene posseduta da quel demone che mi faceva vedere il mondo attraverso vetri colorati.
Essere innamorati è una droga. Dà assuefazione.
È troppo bello svegliarsi al mattino con il palpito dell’attesa e nell’attesa, già essere felici. Tutta la giornata diventa una crescita esponenziale di desiderio fino al climax. L’apoteosi dell’abbraccio o della telefonata o di qualunque altra cosa mi potesse mettere in contatto con lui.
Lui diventa una cosa sola con me stessa e mi sembra di non essere senza di lui.
Ma sono sfigata.
Sono nata sfigata.
Nei primi giorni dell’estate del ’95 quando la lacerazione della disillusione era ancora talmente sanguinante e profonda da non sentirne nemmeno il dolore, ma soltanto la rabbia, mi sembrava che tutta la storia con Mario fosse stata una mia invenzione. Una fantasmagorica recita per ingannare la mia solitudine e la mia fame d’amore.
Mi dissi
"Cazzo Filippa non sia mai che una merda di uomo come Mario o Sabatino o come cavolo si chiamasse riesca a farti soffrire e tu non devi soffrire. Ti riprendi la tua vita, che hai una vita e te ne fotti di tutte queste panzane di amore e cuore e fiore e angioletti e compagnia bella. Se il tuo destino è restar zitella, sarai zitella e se vorrai farti una scopata troverai ben qualcuno che non ti impegni il cuore che fa rima con fiore, amore e dolore!"

.

.

.

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DA LEGGERE

 

Antonio Gramsci "La Città Futura" (1917)   

 

" Odio gli indifferenti: credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. ".......

..... continua qui  

 

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