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Filippa Filippazzi
In mezzo a tutto questo mi sentivo una merda.
Mario cercava di tacitare i miei dubbi dicendo che lui era una specie di Robin Hood.
Siccome erano tutti ricchi e i furti non facevano alcun danno e le assicurazioni pagavano e i ladri a cui vendeva le informazioni erano professionisti seri, persone perbene, con famiglia a carico ed era un lavoro come un altro e non c’era né violenza, né pericolo potevo stare tranquilla che non facevamo male a nessuno, semmai del bene.
Non mi convinceva troppo e quindi altalenavo momenti in cui tutto era, come al solito, perfetto ad altri in cui il solo pensiero di Mario mi dava la nausea e cosa che mai avevo fatto iniziai a fingere.
Brutta cosa la finzione.
Facevo finta con tutti, e cosa più grave con me stessa.
Fingevo che ero felice, soddisfatta, appagata, esattamente come prima, anzi ancora di più, perché non c’erano più segreti tra noi.
Brutta cosa davvero.
Mi sentivo sporca, come se una patina scura appannasse tutto quello che prima era brillante di eccitata felicità.
Non che gli altri se ne accorgessero.
Ero bravissima e mai avrei pensato di riuscire a nascondere quello che sentivo.
C’erano dei momenti in cui dovevo mordermi la lingua e contare fino a cento per non urlare a Mario lo schifo che mi facevo.
Ma c’erano anche i momenti belli, quelli in cui mi sentivo amata ed accudita, ed allora per quel benessere dimenticavo tutto il resto.
Comunque non stavo bene ed al mattino guardandomi allo specchio stentavo a riconoscere la mia faccia, chè mi sembrava estranea con quel sorriso stampato da cartolina di san valentino e gli occhi spenti senza quel brillio di verità e chiarezza. Anche la pelle, pallida, sempre più pallida ed opaca mi sembrava quella di un’altra persona, più vecchia e stanca, disillusa.
Finchè successe l’inevitabile.
Era passato quasi un anno dalla scoperta della scellerata attività di Mario.
Era una mattina di aprile, con un cielo alto e pulito, che mi rendeva allegra e serena.
Ero a scuola e chiacchieravo con una collega originaria di Avellino e lei mi raccontò che la notte prima a casa di sua madre era successa una cosa terribile. Dei ladri avevano ucciso la cameriera che, svegliata da rumori insoliti, era andata a vedere cosa succedeva. I suoi genitori erano andati a teatro e la povera donna aveva la serata libera, ma non era uscita perché raffreddata.
Rimasi di sasso, inorridita. E se fosse stato uno degli affari di Mario?
Ero terrorizzata, volevo sapere e nello stesso tempo avrei voluto sapere nulla.
Non ebbi il coraggio di chiedergli niente durante le solite telefonate ed anche se lui continuava domandarmi che cosa fosse successo chè mi sentiva strana, dicevo che non era niente, solo un po’ di malessere e stanchezza.
Aspettai al venerdì quando Mario tornava dai suoi giri e veniva a casa mia, tutto amore, moine e regali, per chiedergli se quella morte di Avellino ce l’aveva lui sulla pellaccia e tremavo mentre gli facevo la domanda, certa che se mi avesse risposto di sì, sarei impazzita.
Mi rispose di sì.
Ma non solo.
Con una risata che non dimenticherò finchè campo disse che erano incidenti che potevano capitare, ma lui non c’entrava per niente, non era mica lui che aveva premuto il grilletto e poi in questo caso era solo una negra,
"Una cameriera negra, Filippa, a chi vuoi che importi, era peggio fosse morto un italiano, ti pare?"
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Antonio Gramsci "La Città Futura" (1917)
" Odio gli indifferenti: credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. ".......
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