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Che anche nella più delirante delle fantasie il bianco su cui scrivo sia la mia verità.

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Post N° 424

Post n°424 pubblicato il 27 Gennaio 2008 da liberante

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liberante
liberante il 27/01/08 alle 00:28 via WEB
... c’è come una barriera tra me e le parole. Uso alibi. La stanchezza è un dato di fatto, soprattutto quando il lavoro è talmente attenzione da consumare qualsiasi voglia di mettere attenzione su altro che non sia il nulla assoluto. Ed allora ci sono le serate di divano e televisione che diventano solo sonno, di quello piombino, e di risveglio che non so se è mattino notte o pomeriggio e poi perdo tempo leggendo libri di cui non mi frega un cazzo per tirare le tre di notte e dormire un altro pezzo di sonno che mi resta appiccicato addosso fino al secondo caffè. E sono in progressione, chè più resto lontana da questa tastiera più mi allontano. Ho un piccolo senso di colpa nascosto dietro la voglia di benessere e pace come una mancanza per non lasciare uscire il nero e il colore che m’ingombrano l’anima. Ho una piccola paura dietro il piccolo senso di colpa, quella di non sapere più scrivere. E mi interrogo dove e quando lo scrivere sia diventato un’esigenza primaria, simile per molti versi alla passione. Ho una memoria di me bambina che scrivevo. Verona, e forse non più di undici, dodici anni. La scrivania era quasi in mezzo alla stanza e di fronte c’era una porta finestra che si affacciava sul balcone. Alla mia sinistra il pianoforte, alla mia destra uno scaffale con i libri e dietro di me il mio letto, quello che à stato nella casa di Castoglio fino a pochi anni fa, ma questa è un’altra storia. Seduta alla scrivania, un quaderno aperto ed io che scrivevo. Doveva essere primavera perché c’era il sole che illuminava dalla finestra aperta. Mamma entra nella stanza ed io chiudo di scatto il quaderno ed apro un libro. Quel gesto di nascondere, di non voler far vedere che scrivevo credo sia stato uno dei miei primi approcci allo scrivere, per me, di me, di storie, d’invenzioni e fantasticherie. Poi c’è una voragine in cui ci sono solo brandelli di ricordi banali e normali di un pezzo della mia vita che non era né banale né normale. La morte di mamma e subito dopo di mia zia erano eventi terrificanti e la mente ha cancellato assieme al dolore anche tutto il resto. Dai sedici anni in poi ho scritto prevalentemente diari. Quelli che tuttora chiamo i “quadernacci”. Erano e sono anche adesso un miscuglio di elencazioni di fatti e persone, e di meditazioni, se così si possono chiamare, su me stessa ed i miei sentimenti ed umori. C’è stato un buco di un po’ di anni che ha coinciso con la rovina del mio matrimonio in cui non solo non scrivevo più, ma nemmeno vivevo. Accanto ai diari c’erano le storie che inventavo ed in cui mi immergevo come in una vita parallela a quella reale. Perché, oltre a scriverne, le vivevo in una dimensione della mia mente che era tanto reale quanto la quotidianità. Ho scritto anche poesie, aforismi, inizi di romanzi che dovevano raccontare saghe familiari. Di tutto quello che ho scritto negli anni passati non ho più nulla, tranne un quadernaccio del 1980. Sintomatico era il fatto di nascondere che scrivessi, che è una caratteristica che mi ha accompagnata fino a quando ho aperto il primo blog su Splinder, ed ancora adesso non tutto quello che scrivo lo metto qui. Una specie di pudore. Ci sono delle parole che posso dire solo a me stessa, che devo dire solo a me stessa, sono i pensieri “tinti”, ed il fatto di riuscire a farlo con nere lettere su un foglio bianco mi aiuta a venir fuori dai vortici inconsulti del mio farmi del male. Quindi ho sempre scritto senza farmi troppe domande e senza aspettative di nessun tipo che non fosse il mero piacere. Anche quando mi fa male. Anche quando mi lacero con pugnali appuntiti di verità. Anche quando scavo dentro di me alla ricerca del tumefatto dolore che so nascondere così bene. Ecco. Dopo tutte queste parole non so perché scrivo. Lo faccio e mi piace farlo. Quello che mi rammarica di questo pezzo della mia vita è che ho tante storie e parole dentro e non ho il tempo per farle uscire. Perché, e di questo sono certa, scrivere non è questo rubare mezz’ora alla notte in tahoma12, ma avere tutto il tempo che voglio e dilatarlo e farlo diventare la stessa cosa di quello che sto scrivendo. Per fare questo dovrei fare solo questo. Scrivere e basta. Che è un altro dei miei tanti sogni.
 
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Antonio Gramsci "La Città Futura" (1917)   

 

" Odio gli indifferenti: credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. ".......

..... continua qui  

 

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