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Tra mezzora saremo a Pescara (2 di 3)
Dal buio della notte, dalla pioggia dritta e sottile, dall’ovattato microcosmo della macchina tiepido e raccolto allo sfolgorio rutilante di luce di uno spazio grande, la percezione delle cose cambia.
Come una chiazza di luce in una pozzanghera.
Parlano ridacchiando e scherzando.
Bevono il caffè e poi gironzolano tra gli espositori.
- Guarda Paola. C’è il libro di quel film che ci piace tanto. Lo prendiamo?
- “Fight Club”? Eccheccazzo lo prendiamo eccome.
Stanno bene nella luce e si sentono leggeri. L’oscura pesantezza del viaggio scivola dalle spalle e nella bocca il gusto buono del caffè scioglie la tensione.
Escono e si appoggiano alla macchina per fumare una sigaretta.
Fa freddo.
Non piove più.
Lì fuori è di nuovo buio.
Sembra che la lievità fosse nella luce artificiale di quella tregua nel deserto della notte.
Valerio si stringe nel cappotto e la guarda. Le accarezza una guancia.
Sa che ci sono parole che devono essere dette e non vorrebbe, chè ne ha paura.
Sa che c’è una Paola che lui non conosce e lo sgomenta.
Spengono le sigarette e risalgono in macchina.
Come prima.
In silenzio.
Un silenzio che deve essere rotto, pesa troppo.
Valerio le prende la mano e se l’appoggia sulla gamba.
- Sei sicura?
- No. Non sono sicura.
- E allora perché stiamo andando là?
- Credo sia per un perdono che non sono capace di dare.
Silenzio.
Valerio tace.
Capisce che deve aspettare, non chiedere, lasciare che sia lei a decidere le parole con cui raccontare quel nero, che le vede dietro lo sguardo, quando crede che lui non stia osservando, ma Valerio la osserva sempre.
- Credo sia perché non so più dire la parola mamma. Lei sta morendo e dopo ventitrè anni devo rivederla.
- Paola che ne dici se ci fumiamo una sigaretta, anche se in macchina avevamo deciso di non fumare?
Lei con gesti più lenti di quanto sia normale accende due sigarette e ne passa una a Valerio.
Apre un spiffero di finestrino e l’aria fredda e umida le arriva al naso con l’irruenza del ricordo. Il dolore antico ha quell’odore di inverno piovoso.
Parla con voce piatta, monotona, come stesse leggendo un articolo di giornale che non le interessa molto.
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DA LEGGERE
Antonio Gramsci "La Città Futura" (1917)
" Odio gli indifferenti: credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. ".......
Inviato da: magdalene57
il 25/07/2023 alle 20:20
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