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« Messaggio #350 | Filippa Filippazzi » |
Il cielo era talmente azzurro che rischiarava le ombre.
C’era la luminosità cristallina di un altro luogo che non era questo di piatta pianura e di campi e di file di pioppi, di fossi malsani e di angoli stretti, di grigi, di aria pesante piombigna d’umidità.
Un altro luogo dove le nuvole erano talmente alte da essere solo una sfumatura più lucida e nulla c’era di ostacolo tra i miei occhi e il profondo del cielo.
C’era come un accento dimenticato e le frasi prendevano un altro significato all’interno della mia ombra.
Non c’era più l’ombra dietro il mio sguardo che stupiva della facilità delle parole e dell’immaginazione che correva selvaggia e spettinata a cercare ipotesi dimenticate.
Storie che sapevo di avere e sogni che non osavo sperare stretti insieme, un campo di papaveri, un mazzo di fiori di campo, colorati di tutti i colori più semplici, i rossi, i blu, i gialli, i bianchi ed il verde, senza sfumature, grasso e scintillante, lavato dalla pioggia e asciugato dal sole.
Il sole caldo sulla pelle ed ero a faccia aperta per sentirlo entrare dentro di me con il vento teso e freddo.
Capivo il contrasto e mi sembrava normalmente banale e non c’era stranezza nel caldo del sole e nel freddo del vento.
Come il brivido di dolore al culmine del piacere.
C’era sensualità in ogni piccolo istante.
Erano i piccoli gesti prima dell’amore fatti con i polpastrelli, con leggerezza e come per caso, quelli che anche senza vedere mi fanno sapere le vibrazioni sincrone del nostro volere.
C’era sensualità nell’appoggiare il pensiero sulla raffica più forte che spazzava improvvisa le foglie e entrava dalla finestra spalancata per toccarmi tra l’orecchio e il collo.
Era la voglia improvvisa di alzarmi e correre a ricorrere quell’assurda voglia di essere il pulviscolo d’oro nella scia della luce e tu dov’eri, mentre guardavo nel vuoto dell’improvvisa serenità.
Dov’eri, che la tua voce era con me con la dolcezza sonora degli anni facili.
Non c’erano nemmeno punti di domande da mettere dopo l’ultima parola, non chiedevo, mi parlavo dentro.
Nitida in una giornata di pensieri puliti sono arrivata alla notte e nel profumo estenuato del gelsomino ritrovo la meraviglia di quello che è stato e di quello che sarà.
Ferma in questo giorno che vorrei rallentasse il tempo per essere ancora oggi e non avere ieri e non ipotizzare domani.
Felice di un attimo durato un giorno intero esattamente come fosse un giorno intero durato un attimo.
È chiara stanotte la mia ombra e leggera, senza peso e senza legami, mi lascia essere tutto quello che voglio e il buio opalescente nasconde i graffi grigi del passato e del futuro.
È tutto, adesso.
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DA LEGGERE
Antonio Gramsci "La Città Futura" (1917)
" Odio gli indifferenti: credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. ".......
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