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Un blog creato da CarloBajaGuarienti il 04/05/2008

Il Libro di Sabbia

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FRASI SPARSE.

«Per sopravvivere agli assalti degli atei come dei veri credenti mi sono tenuto nascosto nelle biblioteche, tra pile di volumi pieni di polvere, per nutrirmi di miti e cimiteriali leggende. Ho fatto festini di panico e terrore di cavalli imbizzarriti, di cani latranti, di gatti impazziti... briciole scosse da lapidi tombali. Col passare degli anni, i miei compatrioti del mondo invisibile svanirono uno a uno, mentre i castelli crollavano o i nobili affittavano i loro giardini visitati dagli spiriti a club femminili o a tenutari di tavole calde con alloggio. Privati delle nostre dimore, noi, spettrali errabondi dell'universo, siamo sprofondati nel catrame, nelle latrine, in sfere di incredulità, di dubbio, di mortificazione, o di assoluta derisione.»

Ray Bradbury, Sull'Orient, direzione nord.

 

FRASI SPARSE

«… nella carrozza entrò un uomo che cominciò a suonare un violino che sembrava fatto con una vecchia scatola di lucido da scarpe e, nonostante io non abbia proprio senso musicale, quei suoni mi colmarono delle più strane emozioni. Mi pareva di udire una voce di lamento provenire dall’Età dell’Oro. Mi diceva che noi siamo imperfetti, incompleti, non più simili ad una bella tela intessuta, ma piuttosto come un fascio di corde annodate insieme e gettate in un angolo. Diceva che il mondo era un tempo interamente perfetto e generoso e che quel mondo perfetto e generoso esisteva ancora, ma sepolto come un cumulo di rose sotto tante palate di terra. Gli esseri fatati e i più innocenti tra gli spiriti vi avevano dimora e si dolevano del nostro mondo caduto nel lamento delle canne mosse dal vento, nel canto degli uccelli, nel gemito delle onde e nel soave pianto del violino. Diceva che presso di noi i belli non hanno senno e gli assennati non sono belli e che i nostri momenti migliori sono offuscati da qualche volgarità, o dalla trafittura di un triste ricordo, e che il violino deve rinnovarne sempre il lamento. Diceva che soltanto se coloro che vivono nell’Età dell’Oro potessero morire per noi sarebbe possibile essere felici perché quelle voci tristi si acquieterebbero, ma loro debbono cantare e noi lacrimare finché le porte eterne non si spalancheranno.»

William Butler Yeats, Il crepuscolo celtico.

 

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Mircea Eliade, il sacro nel profondo dell’uomo.

Post n°8 pubblicato il 10 Maggio 2008 da CarloBajaGuarienti
 
Foto di CarloBajaGuarienti

Intervista a Natale Spineto.

Carlo Baja Guarienti

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C’è un filo sottile che unisce esperienze lontane, una linea nascosta che congiunge lo sciamanismo siberiano e la cosmologia babilonese passando per la filosofia rinascimentale italiana e la spiritualità indiana: è un dato comune, per quanto a volte nascosto, all’umanità, l’aspirazione a trascendere la condizione mortale per entrare in contatto con la sfera del divino.

Alla ricerca di questa scintilla ha dedicato la sua vita Mircea Eliade, nato un secolo fa a Bucarest: poliglotta, dotato di cultura vastissima e capace di conciliare produzione scientifica e vena narrativa, Eliade ha percorso il Novecento – età per eccellenza della secolarizzazione – costruendo un cammino di scoperta della religiosità, attributo sommo e irrinunciabile dell’uomo. Dalla formazione – compiuta fra Romania, Italia e India – alla maturità come docente in Francia e America, lo studioso romeno ha inseguito il sogno di risvegliare con la sua opera ermeneutica l’homo religiosus smarrito nei meandri della modernità.

Tuttavia l’immagine di Eliade, elogiato da Dumézil, Febvre, Pavese, Jung, Bataille e tanti altri, ha subito negli anni ’70 un duro colpo a causa di una macchia: l’adesione, a metà anni ’30, alla Guardia di Ferro, movimento nazionalista romeno che in seguito si sarebbe reso responsabile di violenze antisemite.

Chiediamo oggi un ritratto dello studioso a Natale Spineto, docente di Storia delle Religioni all’università di Torino, autore del recente Mircea Eliade storico delle religioni (Morcelliana).

Chi ricorderanno i posteri: Eliade ermeneuta, scrittore o ideologo?

Per Eliade lo studio dei fenomeni religiosi deve andare al di là della ricostruzione dei contesti storici e culturali, alla ricerca del messaggio che le pratiche e le idee religiose del passato e del presente possono dare all’uomo. Erede di una tradizione di analisi che affonda le sue radici nel XIX secolo rielaborata in modo originale, Eliade ha saputo proporre le sue idee al di fuori dei ristretti circoli accademici e presentare la storia delle religioni, ermeneuticamente orientata, come via per uscire dalla crisi nella quale, a suo avviso, si trova l’uomo contemporaneo desacralizzato. Per quanto il dibattito intorno alla sua personalità verta soprattutto sui suoi trascorsi politici nella Romania degli anni ’30 e l’opera di riedizione e traduzione dei suoi lavori letterari sia sempre più intensa, credo che continuerà a essere questa ermeneutica del sacro a occupare il primo posto fra gli interessi dei lettori di Eliade, al di là delle critiche che le si possono rivolgere e delle difficoltà che presenta, per il suo tentativo di rispondere alla domanda di senso degli uomini di oggi.

Che significato ha oggi, in tempo di attriti religiosi, studiare la storia delle religioni  in un’ottica di comparazione?

La comparazione rimane il nodo fondamentale della storia delle religioni: è ciò che la caratterizza come disciplina, ma è anche al centro di dispute e dibattiti da parte degli studiosi. Se è vero che è spesso servita e serve a mettere in luce modelli comuni (e questo è particolarmente evidente nell’opera di Eliade), è anche vero che soltanto confrontando è possibile cogliere le differenze fra culture (come precisano altri studiosi, in special modo appartenenti alla tradizione accademica italiana). Sicché la comparazione risulta da un lato uno strumento indispensabile per far risaltare l’originalità delle religioni – sempre, però, sullo sfondo di analogie – e, dall’altro, è necessaria se si vogliono mettere in luce modelli antropologici comuni, ma sempre nel rispetto delle peculiarità della storia. Credo che il ruolo della storia delle religioni possa essere importante, nella situazione di “attrito” di cui lei parla, proprio per questa sua capacità di far giocare unità e differenze all’interno di un discorso scientifico. Perché i problemi di convivenza religiosa non possono essere affrontati efficacemente in prospettiva teologica, giuridica o politica, se si prescinde dal piano della conoscenza storicamente e criticamente consapevole, che è appunto quello della storia comparata delle religioni.

(Gazzetta di Parma, 13 marzo 2007)

 
 
 
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