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dal libro "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino- Sellerio Ed. - Le pagine più interessanti. 3^ e 4^ PUBB.

Post n°170 pubblicato il 07 Novembre 2014 da loredanafina1964

TERZA  PUBBLICAZIONE

Frattanto la Rocca s'andava spegnendo, un rettangolo dopo l'altro; già erano buie le finestre del padiglione femminile, dopo l'urlo cerimoniale di suor Benedetta, mentre noi, per pura disobbedienza, tornavamo ad accendere ogni cinque minuti. Infine il sanatorio sprofondava nella tenebra come in una coltre di pace; vecchia tartana in disarmo sul dosso del monte, oscillava piano, in un sonno rotto da scoppi rauchi che da una corsia all'altra, da una branda all'altra, si rispondevano fraternamente: latrati di cani amici nella paura della campagna, marcia funebre di paese per tube del giudizio ingorgate da un escreato gigante.

Dormiva, la vecchia tartana, e pareva un'arca su un'altura, alla fine di un'inondazione; un'arca in secco, abbandonata dai vivi, con lo sterno corroso dal sale e malmenato dal vento, popolata solo di topi, come la cineclubica nave di Nosferatu. Da un grammofono, chissà dove, un disco d'antiche villeggiature ripeteva parole che per un secondo, non più riuscivano a stringermi il cuore.

Les vieux billets, chèrie, qui me rappellent les nuits à bord du Normandie si belles...

Altre notti per me, altro Normandie era il mio, coi suoi neri oblò come pupille cucite, con la sua merce di topi di Giaffa, stivata nelle cantine, venuto ad arenarsi sul poggio della Rocca.

Le parc au soir lorsque la cloche sonne, le vieux boudoir où ne vient plus personne...

Canticchiavo spogliandomi, prima di accoccolarmi nella mia muda di moribondo, a sognare una strada color cenere, una latomia in rovina, dove fra erbe e pietre confusamente crescevano alberi. Oh sì, furono giorni infelici, i più felici della mia vita.

______________________________________

QUARTA PUBBLICAZIONE

Ma chi potrà scordarsi dei compagni di prigionia, del fuoco che li spegneva, nelle prime ore dell'alba, in pigiama com'erano, a scendere in giardino per piangere finalmente da soli, con la guancia premuta contro la spalliera di una panchina; chi potrà levarsi dalla mente le loro facce malrasate, mentre le coglie e disorienta l'indorarsi fulmineo del mondo, al di là del muro di cinta?

Bastava talvolta, tra sonno e veglia, un fischio di treno addolcito dalla distanza, oppure il cigolìo dei carri di zolfo in fila per la collina, e si balzava col cuore in tumulto, seduti sul letto, a origliare le invidiate informazioni e leggende di quella stella infedele in cui s'era trasformata la terra. Che cosa racconta un treno, un carro che va, fra bivacchi e lune sull'aia, lungo profumi d'aranci e paesi, in una notte d'estate? Niente, eppure so di occhi sbarrati nel buio, che non avevano altra vacanza se non di sorprendere, al sèguito di quelle ruote, qualche guizzo di vita durante la via: un vecchio che prende il fresco, due teste che si parlano sotto il lume della cena... 

Si tornava dall'immobile viaggio più lieti, più tristi, chi può dirlo, e tuttavia non delusi del nostro bottino di nuvole, l'unico che la sorte non aveva facoltà di vietarci. Allo stesso modo il pellegrino, a cui accade di sostare sotto un davanzale straniero, sospende il passo se mai gli giungano, in una pausa di canto, svogliatezze e amorosi sussurri di donna, e se ne riparte racconsolato, stringendosi nel pugno quel bene, quel pane rubato, di cui cibarsi più tardi. 

E questo era bello: andarsene così a spasso con passi d'aria per montagne e pianure, clandestini senza biglietto, contrabbandieri di vita. Almeno finchè la babilonia della luce non fosse tornata a proclamare sui tetti, per chi se ne stava dimenticando, che un altro giorno ci aspettava dietro l'angolo, con la sua razione infallibile di dileggio e di pena. E sarebbe stato un giorno di meno, uno dei pochi rimasti.

La stessa cosa, più grigiamente, dicevano i rumori del risveglio, tutta una prammatica senza deroghe che, forzando lo spessore del sonno, tornava a celebrarsi ogni ventiquattr'ore accanto al nostro cuscino: era lo scorrere su e giù della spranga nell'anello della porta carraia; era la frenata del furgone del latte sulla ghiaia del viale; l'incespicare del carrello con le siringhe contro l'antica sporgenza dell'ammattonato, davanti all'infermeria.....E ciascuno di questi avvisi, così inaspettato com'era, sembrava scandire i tempi di uno sfratto senz'appello e ribadire lo stigma per colpa del quale eravamo in esilio. 

Una setta di sbanditi eravamo, e incapaci di amarci fra noi, o così ci pareva, benchè chi si è salvato abbia capito anni dopo ch'era vero il contrario, e che era già amore la passione con cui s'imparava la morte degli altri come se fosse la propria. Dunque come dimenticarsene, dei compagni d'allora, se in ognuno mi riconosco e mi chiamo, se è mio ogni petto entro cui uno spettro di foglia solennemente si oscura? 

Mi basta rimormorare i nomi in forma di filastrocca, da De Felice a Sciiumè, e uno alla vota ritornano a fumare di frodo nella mia stanza, riaprono a caso per consultarlo, come un mazzo di arcani tarocchim il Montale sul comodino. Luigi il Pensieroso conia, guardando in fondo a una sputacchiera di carta gli esiti della sua tosse, una freddura che mi commuove: "Rosso di sera, bel tempo si spera"; l'altro Luigi, l'Allegro, sale su una sedia a glorificare, con grandi manate nell'aria, le panacee recenti d'America che ci salveranno in extremis: "Arrivano i nostri" ride, imitando con le labbra i tatatà della mitraglia, "e addio, poveri cocchi!".

Chiama così i bacilli di Koch, familiarmente, da militare di carriera che s'affeziona ai nemici della trincea dirimpetto e ai loro passatempi e risaputi marchingegni di guerra. "Fanno massa all'apice" dice "ma è solo una diversione; è al lobo inferiore che mirano. Tu, lascia che arrivi la penicellina...".

Il colonnello conserva le distanze (la nostra ala, di molte camere uguali, è tutta di reduci e rimpatriati, e lui si sente ancora il comandante della guarnigione, anche se la guerra è finita da un anno e ormai la nostra divisa è il pigiama); aspetta che ci alziamo quando fa l'ingresso in veranda, ligneo, cinereo, con un foulard di seta legato al pomo d'Adamo, e la manica vuota lungo il fianco destro, che pende; pronunzia poche parole, rotte rpesto da una furia di tosse: "Scusate, signori ufficiali" dice, e se ne va.

Dirò ancora del bambino Adelmo, il nostro giocattolo, figlio e portafortuna, che scendeva dal piano di sopra a chiederci racconti e dolciumi, nel suo dialetto difficile, tendendo fuori del rimbocco d'una camicia troppo grande una mano d'un biancore di gesso. Lo rivedo per i vialetti, che si sforza, allungando il passo, di stare a paro con noi; e gli mancano le forze nel bel mezzo di una favola. E ripenso come si stupisce e ride, mentre m'ascolta improvvisargli, sulle stelle che mi chiede, risposte con numeri a caso e nomi da scioglilingua, Erebo, Eros, Erine, noi due soli sulla terrazza della Rocca, come su un'arce lambita appena dai frngenti dell'esistere. Passavano in corsa le Orse sopra la nostra testa, battistrada di oscuri disastri. Lui cercava, col soccorso del mio dito, una filante d'oro là in alto, che lo guidasse in salvo dal malanno sino alla sua casa di Filicudi, lo scoglio dov'era nato.

Lo delusi solo alla fine. Credeva, per averlo sentito da suo padre una notte nella lampara, che il chinino guarisse ogn'incomodo, e prima di morire, a bassa voce, supplicava e supplicava, finchè per contenerlo gli demmo una compressa purchessia. Se ne accorse, non volle più parlare, si limitò a buttarmi, prima di girarsi dall'altra parte, un'occhiata di debole astio...

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LA PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO. 


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Ciao, bel post, complimenti. Ti auguro una dolce notte....
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:)
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Il verso della lepre o il raglio dell'asino invece non...
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