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DAL LIBRO: "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino - Sellerio Edit. - Le pagine più interessanti. 5^ PUBBLICAZ.

Post n°171 pubblicato il 19 Novembre 2014 da loredanafina1964

5^  PUBBLICAZIONE

Angelo diceva che la morte è un paravento di fumo fra i vivi e gli altri. Basta affondarci la mano per passare dall'altra parte e trovare le  solidali dita di chi ci ama. Purchè si lascino pèste, uste, minuzie che conservano il notro odore. Fu forse questo pensiero che lo spinse ad affidare a una suora una filza di lettere con date fittizie, da spedire una alla volta due volte l'anno. In esse narrava il romanzo futuro di sè, vantava paternità, impieghi, successi; annunziava indisposizioni da nulla che nella puntata dopo erano già guarite e remote. Sua madre - ci spiegava - sarebbe vissuta più a lungo, aspettando a ogni scadenza il posticcio messaggio in cui si prolungava indefinitamente l'eco della cara voce scomparsa. Sarebbe stato per lei come avere un figlio oltremare, a San Paolo, a Little Italy. Lei morì subito dopo di lui, tuttavia, e suor Tarcisia, se non l'ha saputo, continua certo ancora oggi a impostare queste inferie di un morto a una morta, che nessun postino potrà mai restituire al mittente (ma fra noi vivi che ci scriviamo, le parole servono forse di più? Ed è poi sicuro che sia suono la vita e silenzio la morte, e non invece il contrario?)

Sebastiano si uccise senza lasciare un rigo, fracellandosi nella tromba delle scale, e m'aveva detto inspiegabilmente un mattino, con un riso senza luce: "Quando mi rubano tutto, voglio pure regalare qualcosa". E' la sua, nel mio albo di croci, quella che tuttora fa male. Mentre mi suscita un moto di buon umore crudele, anche se tanto tempo è passato, il paradosso del sottotenente Giovanni, un perito agrario di Cefalù. Era stato alla Rocca, floridissimo a guardarlo, ma con quegli scavi caseosi nel petto, la vecchia cicatrice ancora in succhio, come quando un pollone s'incaponisce a rigemmare su un tronco che pareva ormai quieto. Lui tuttavia - il male ha queste malizie - ingrassava sempre di più, a forza di lecitine e di zabaioni, persuadendosi ormai, non senza vanità, d'essere salvo. Lo vedo ancora il sabato mattina, quando era il suo turno di salire sulla bilancia per il controllo, volgere attorno sguardi sornioni e vispi, prima di imporre il piede sulla piastra come sul cippo terminale d'un podere ereditato.

Udendo poi gridare il peso dall'infermiere, ed era sempre più alto, non sorrideva nemmeno ma con mani riconoscenti provava un movimento di carezza lungo i fianchi di sposa. Ignaro che qualcuno nel suo arcano regime l'aveva privilegiato su tutti, e che sarebbe stato il primo a morire. 

Un altro ricordo è un vecchio dell'astanteria, dagli occhi belli, celesti, che si medica da sè la fronte, specchiandosi nel vetro di una finestra, dopo essere stato picchiato da un compagno, senza motivo, per solo furore. 

E Marta..... Marta ha contato più di tutti, ne parlerò più avanti, quando non ne potrò fare a meno.

Così, chi da poco chi da pochissimo, vivevamo alla Rocca, insieme ad altri che non nomino, io che vi parlo, e il colonnello, Sebastiano, Luigi, Luigi, Giovanni, Angelo: cascami della storia, uno sfrido umano. Tutti già soldati, per mestiere o per forza; ora intorno, da un reticolato, noi e nessun altro in Europa, ormai. Ed eravamo qui giunti a frotta, sotto stracciate mantelline d'eroi, da mille posti diversi.

Agli eterni protocolli e controlli davanti a un corpo di guardia ci eravamo una volta di più con disciplina piegati. Arrancando per scale senza fine, contando ogni pianerottolo col respiro sempre meno capace, avevamo preso posto su quest'ultimo spalto che ci era stato sortito, e qui rimesso a mani asettiche e svelte il nostro gruzzolo d'ossa, dove la febbricola quotidiana metteva dapprincipio una sorta di svigorito calore, ma sul tardi - lo stesso càpita quando si beve - un esubero di parole, un gusto di cantarsi e compiangersi, di cui io per primo (ve n'accorgerete) non ho saputo guarire mai più...

Che dietro i suoi cavalli di Frisia, spinati come Cristi in croce, avesse accolto moribondi diversi dai soliti, il Magno lo capì subito: "La vostra è una generazione senza paragone" diceva, con un sussiego nell'inflessione, come se fosse merito suo. "Mai, da quando sto qui alla Rocca, m'era avvenuto di vedere tanti libri in giro e mutrie adorne d'occhiali. E' il raccolto della guerra. Un tempo erano solo i pezzenti della Kalsa a cascarci. Ora anche i signorini s'ammalano, col loro petto senza peli, l'acqua di colonia, le ironie in italiano".

Il Gran Magro, giudicava i malati per annate, come un intenditore di vini o un maestro in pensione. 

Lo assecondavano essi, resistendo raramente alla Rocca per più di quattro stagioni. La durata media era quella, da un ottobre all'altro, il tempo di aggregarsi e imparare un linguaggio, consuetudini, un decalogo che valesse per tutti. Ciascuno, infine, quasi pretendendo alla nobiltà di una staffetta di lampade, appena si sentiva vicino a cadere, affidava a un successore il suo povero testimone: un cimelio, un trucco, un nomignolo. Così da vent'anni il Gran Magro continuava a esser chiamato il Gran Magro, dopo ch'erano morti in venti, insegnandoselo prima di morire.

Ma io - a tal punto m'avvilivano questi scambi di consegne e l'attesa supina del colpo - non so quante volte al giorno mi sentivo tentato di salvarmene con una inadempienza o bravata. Certo, fossi stato sicuro di non lasciarmi dietro a ogni passo le mie lumacature e polluzioni d'untore, non sarei rimasto a covare nel pagliericcio la febbre come una cimice, ma seri sceso a consumarmi fra la gente, in fretta ero troppo vigliacco per morire a rate. Questo nei primi mesi, poi alla esistenza smozzicata degli altri finii con l'assuefarmi, e dal loro consorzio non volli più disertare. Con essi ho spartito, all'ombra della stessa bandiera gialla, ogni elemosina dell'ora, tutti gli inganni e i disinganni delle loro carriere, benchè non la fine repentina che le concluse. Ma se di tanti io solo, premio o pena che sia, sono scampato e respiro ancora, è maggiore il rimorso che non il sollievo, d'aver tradito a loro insaputa il silenzioso patto di non sopravviverci.

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Il verso della lepre o il raglio dell'asino invece non...
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