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DAL LIBRO: "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino - Sellerio Editore - Le pagine più interessanti 10^ PUBB.

Post n°176 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da loredanafina1964

10^ PUBBLICAZIONE

Ogni serpe era al suo posto, e mi piacque riaffondarci la mano. Ripresi a vivere nella casa, quasi sempre a letto, come in balia di un vapore della mente che mi proibiva di alzarmi. Non guardavo che quelle panchine, dal mio letto, e non leggevo, non parlavo quasi, fumavo solo moltissimo, di nuovo, senza riguardo. C'era fumo dentro la stanza, fumo, lamette usate, capelli fra i denti del pettine. E un'incandescenza che non cambiava, come in un lago di sale. Ma non ci badavo,  troppo preso ero in un pensiero. Mi distraeva solo talvolta, dalla strada, una sconsolata voce di donna che chiamava un acquaiolo, un arrotino. Oh, avrei voluto che veramente tutto attorno a me franasse in un tracollo di polvere, ore creature parole: ogni istante era un affilato coltello di luce a cui offrivo pazientemente le mani. Un tempo era quasi la mia terra, sapevo le trovature dei tesori, le profezie delle erbe, parlavo a una capra dalle mammelle nere. Ora non oso andarmene a testa nuda fra tente muraglie avverse; attraversare senza una vertigine gli spopolati sagrati dove è avvenuto un miracolo o ammazzeranno qualcuno. Rimango dentro e non faccio nulla, mi lavo solo moltissimo, ma non serve, il corpo mi s'insudicia lo stesso, immediatamente, mi sento lungo la pelle aderire una patina di morchia e impastarmi i capelli, dietro la semiluna pallida dell'unghia un nero cresce di minuto in minuto, senza motivo. Com'è difficile stare morti fra i vivi: un astruso gioco d'infanzia è diventato, vivere, e mi tocca impararlo da grande.

Mi stanarono gli amici, finalmente, che avevano saputo del mio ritorno. Parlammo, mi disprezzarono presto. Disprezzarono la mia voce, le evasioni dei miei occhi, i ricordi delle mie mani: mani che venivano dalla morte, superbe mani, ricche d'un capitale che, senza invidiarlo, non sapevano perdonarmi. Certe volte mi accusavano: "Che hai fatto con queste mani, perchè resti chiuso tutto il giorno, come sei cambiato". Oppure "Perchè non rispondi quando ti parliamo, perchè non vieni alla sezione stasera, perchè non vieni a serenate stanotte?".

Smisi di vederli, li barattai con una banda di giovani ladri, con un dolcissimo ubbriaco, con loro mi piacque sedermi sui gradini del lungomare, al riparo delle pompe che innaffiavano inutilmente ogni due ore le basole della piazza.  Furono queste le mie compagnie nel paese, specialmente la sera, ma non potevo parlare sempre a me solo, nella mia stanza. Inoltre mi mancava la donna, una da dormirci, mormorandole cose fra i grappoli delle ciocche.

Uscivo all'alba a cercarmela, stanco della notte come di una bottiglia combattuta per niente. Mi avviavo per le strade a passi lunghi, sentendo con un rifiuto di stomaco nascere nei forni ancora illuminati l'afrore del pane caldo, riconoscendo ad ogni cantone, dal suo latrato di cane fedele, dall'assafetida del suo sudore, il mio vecchio spavento che mi diceva buongiorno. Finivo nel quartiere di Santa Venera, in chiassuoli senza uscita, dove, sbucando da un bosco di biancheria, la mia faccia di sconosciuto incuriosiva qui una soglia, lì un'altra, diventava la festa della giornata.

Ma un mattino rimasi dentro, aspettai Cristina, la serva di quarant'anni, brutta, che aiutava in casa e mi puliva la camera. Aspettai con un brivido che non sapevo reprimere il suo passo dietro la porta, le stetti goffamente vicino mentre rifaceva il letto, la toccavo con una scusa. Lei mi guardava meravigliata e contenta, senza parlare. D'improvviso le dissi di andarsene: "Và via, và via" le gridavo mentre fuggiva. "Lèvati dai piedi, vattene via". Lei fuggiva, piangendo, e non capiva, non riuscì ad aprire, rimase davanti all'uscio con la mano turbata sul chiavistello, e le spalle strette e secche che tremavano, finchè le fui dietro, la sforzai a voltarsi, ad accovacciarsi sul pavimento, le rovesciai sulla faccia il grembiule come un bavaglio.

Più tardi mi affacciai a respirare il cielo di fuori, guardavo nella striscia fra le cimase passare uccelli di mare, bastò il loro grido a precipizio su di me a farmi fiorire nel cuore un singhiozzo di bufera abortita, irragionevole gemito di bambino che si rigira nel sonno.

Era come in un turno di sentinella, fra siepi di nemici che aspettano, quando gli occhi si fanno pesanti, ma uno sa che se li chiude è la fine, benchè la luna gli si sciolga intorno in cipria di luce, in una mobile nebbia dove il corpo vorrebbe amorosamente affondare. 

"Basta, basta" dissi ad alta voce. "Devo tornare alla Rocca, il mio posto non è qui".

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.

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Ciao, bel post, complimenti. Ti auguro una dolce notte....
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Il verso della lepre o il raglio dell'asino invece non...
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