Creato da loredanafina1964 il 10/10/2011

loredanafina

scrivere scrivere scrivere!

 

 

DAL LIBRO: "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino - Sellerio Ed. - Le pagine più interessanti 6^ Pubblicazione

Post n°172 pubblicato il 23 Novembre 2014 da loredanafina1964

6^ PUBBLICAZIONE

Fra la Rocca e la città c'erano solo pochi chilometri, quanti non so, non era facile contarli, mentre si scendeva in tram per l'inflessibile via Calatafimi, così in fretta, quasi ad ogni isolato, si seguivano le fermate. La più comoda era qualche metro più giù dall'ingresso grande, sotto una tettoia di eternit che ci ospitava in attesa, imbottiti di maglie o scamiciati, col mutare delle stagioni, ma impazienti sempre di imbarcarci per la nostra salutaria Citera. Si scostavano un poco, senza farlo parere, i viaggiatori abituali, all'apparire del nostro drappello di lazzaroni cupidi e ossuti. Noi portavamo con un impaccio visibile - dopo tanto grigioverde di giubbe - gl'indumenti della vita borghese, su cui avevamo provato poc'anzi, dubbiosamente, le liturgie scordate della vestizione, scoppiando a piangere all'improvviso nell'atto di accomodare attorno alle fosse del collo una cravatta d'altri tempi, una bianca sciarpa da ballo.

Non era da tutti, peraltro, ottenere il lasciapassare da esibire al custode. E il più delle volte ci facevano difetto le forze. Allora, fra una spedizione e l'altra, ci acconciavamo a distrarre i sensi in qualche maniera, col pericolo, magari, di aizzarli ancora di più. 

Si cercavano intrallazzi col reparto delle donne, attraverso lo steccato d'edere e pali che divideva il parco a metà e che, per la sua inettitudine, chiamavamo la Maginot. Ci s'intendeva prima a segni, durante la messa; si trovava poi un modo, da una gronda della terrazza, di lasciare penzolare, attaccato a una funicella, un biglietto davanti a una finestra amica, nella fiducia che una mano raccogliesse l'invito. Oppure un giavellotto di malacca, da ragazzi, viaggiava nell'aria fino alla loro veranda e portava inastata, mediante un elastico o altra fettuccia, addirittura una rosa.

________________________

Andare fra la gente, giù in città, portarsi addosso il cencio del corpo, questa somma insufficiente di lena e di sangue, in mezzo ai sani della strada, atletici, puliti immortali..... Osservare le mostre dei negozi, specchiarvi fino all'ultimo spigolo le scarnificate figure, e sentire con gratitudine che nessuno se n'accorge, nessuno si volta. Eccomi nell'accampamento nemico, travestito da vivo, invulnerabile come chiunque. Le ragazze passano a frotte, tenendosi allacciate con ritornelli di risa.  Hanno tacchi alti, gambe di rame nudo, un pettine fra i capelli o una spadina d'argento. Come mi guardano senza vedermi, come ciascuna apre e chiude il ventaglio del grembo a ogni passo! In piedi, nella fiumana di folla, è bello sceglierne una mentre si allontana, e battezzarla per poterla chiamare quando non c'è e fare coppia con lei nella fantasia, seduti sulla spalletta di un fiume, Trasinaro o Livenza.... Io accarezzo la curva della sua gota, le dico "D'accordo, domani", le dico "Domani alle sette. Davanti al Caffè dei Portici, davanti al cinema Odeon", le dico "Ciao Sesta", "Ciao Silvia". Lei giunge fra tintinni di similori, con un passo di streghina, di gitanella. Lentigginosa da intenerire. Ha una bocca troppo dipinta, un berretto di paggio inclinato da un lato, la borsetta ad armacollo. Le piacciono i segreti che si sussurrano all'orecchio, gli oracoli, le stizze, le bugie. Non vuole in me che questo: un affiliato di cospirazioni e allegrezze. Si rammenta gli anniversari più futili, le cantafavole improvvisate una volta e lasciate a metà. M'incolpa di colpe inesistenti per potermele perdonare dopo un istante. Mi regala un garofano avvolto nella stagnola, un pacchetto di Tre Stelle, uno stupido Toi et moi. E' la mia ragazza, guardatela, sta per attraversare la strada col semaforo rosso....

Oppure si finiva ne quartiere del porto, a cercarsene una qualunque, ma di carne, vera. Bisognava pure ogni tanto, era anche il consiglio del Gran Magro. Bastavano già quei pochi scalini a stremarmi, e l'anchilosi del braccio attorno alla vita di lei. Chi riusciva poi a muoversi come si deve,  con la magra dote d'ossigeno che mi restava. E allora, ti pago un extra, fa' tu.... Sentivo il suo corpo ricciuto e pieno di nei ingigantirmisi addosso, penetravo in lei col suo aiuto, accompagnando con avari sussulti i suoi, misericordiosi ed esatti, finchè si sciogliesse in pioggia di fuoco e di miele in fondo al suo ventre la nube cieca che mi gonfiava le tempie.

Più tardi, sopra la coperta militare distesa a riparo della dubbia lindura del letto, mentre lei si lavava senza dolcezza in un angolo, e una tardiva goccia di seme mi correva stancamente per l'inguine, mi piaceva giacere ancora un poco, dissanguato e deserto come un ucciso, con gli occhi fissi al soffitto, a decifrarvi, in una screpolatura o salnitro dell'intonaco, le imposcate future della mia sorte.

Al mio ritorno avrei raccontato tutto ai miei compagni, seduti a mucchio sopra la stessa branda, avrei risposto ridendo alle loro domande da studenti, mentito anche un poco, forse. Avrei detto: "Era bellissima, ha gridato, non fingeva, vi dico; che donna; adateci , amici...".

_____________________________

PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.

 
 
 

DAL LIBRO: "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino - Sellerio Edit. - Le pagine più interessanti. 5^ PUBBLICAZ.

Post n°171 pubblicato il 19 Novembre 2014 da loredanafina1964

5^  PUBBLICAZIONE

Angelo diceva che la morte è un paravento di fumo fra i vivi e gli altri. Basta affondarci la mano per passare dall'altra parte e trovare le  solidali dita di chi ci ama. Purchè si lascino pèste, uste, minuzie che conservano il notro odore. Fu forse questo pensiero che lo spinse ad affidare a una suora una filza di lettere con date fittizie, da spedire una alla volta due volte l'anno. In esse narrava il romanzo futuro di sè, vantava paternità, impieghi, successi; annunziava indisposizioni da nulla che nella puntata dopo erano già guarite e remote. Sua madre - ci spiegava - sarebbe vissuta più a lungo, aspettando a ogni scadenza il posticcio messaggio in cui si prolungava indefinitamente l'eco della cara voce scomparsa. Sarebbe stato per lei come avere un figlio oltremare, a San Paolo, a Little Italy. Lei morì subito dopo di lui, tuttavia, e suor Tarcisia, se non l'ha saputo, continua certo ancora oggi a impostare queste inferie di un morto a una morta, che nessun postino potrà mai restituire al mittente (ma fra noi vivi che ci scriviamo, le parole servono forse di più? Ed è poi sicuro che sia suono la vita e silenzio la morte, e non invece il contrario?)

Sebastiano si uccise senza lasciare un rigo, fracellandosi nella tromba delle scale, e m'aveva detto inspiegabilmente un mattino, con un riso senza luce: "Quando mi rubano tutto, voglio pure regalare qualcosa". E' la sua, nel mio albo di croci, quella che tuttora fa male. Mentre mi suscita un moto di buon umore crudele, anche se tanto tempo è passato, il paradosso del sottotenente Giovanni, un perito agrario di Cefalù. Era stato alla Rocca, floridissimo a guardarlo, ma con quegli scavi caseosi nel petto, la vecchia cicatrice ancora in succhio, come quando un pollone s'incaponisce a rigemmare su un tronco che pareva ormai quieto. Lui tuttavia - il male ha queste malizie - ingrassava sempre di più, a forza di lecitine e di zabaioni, persuadendosi ormai, non senza vanità, d'essere salvo. Lo vedo ancora il sabato mattina, quando era il suo turno di salire sulla bilancia per il controllo, volgere attorno sguardi sornioni e vispi, prima di imporre il piede sulla piastra come sul cippo terminale d'un podere ereditato.

Udendo poi gridare il peso dall'infermiere, ed era sempre più alto, non sorrideva nemmeno ma con mani riconoscenti provava un movimento di carezza lungo i fianchi di sposa. Ignaro che qualcuno nel suo arcano regime l'aveva privilegiato su tutti, e che sarebbe stato il primo a morire. 

Un altro ricordo è un vecchio dell'astanteria, dagli occhi belli, celesti, che si medica da sè la fronte, specchiandosi nel vetro di una finestra, dopo essere stato picchiato da un compagno, senza motivo, per solo furore. 

E Marta..... Marta ha contato più di tutti, ne parlerò più avanti, quando non ne potrò fare a meno.

Così, chi da poco chi da pochissimo, vivevamo alla Rocca, insieme ad altri che non nomino, io che vi parlo, e il colonnello, Sebastiano, Luigi, Luigi, Giovanni, Angelo: cascami della storia, uno sfrido umano. Tutti già soldati, per mestiere o per forza; ora intorno, da un reticolato, noi e nessun altro in Europa, ormai. Ed eravamo qui giunti a frotta, sotto stracciate mantelline d'eroi, da mille posti diversi.

Agli eterni protocolli e controlli davanti a un corpo di guardia ci eravamo una volta di più con disciplina piegati. Arrancando per scale senza fine, contando ogni pianerottolo col respiro sempre meno capace, avevamo preso posto su quest'ultimo spalto che ci era stato sortito, e qui rimesso a mani asettiche e svelte il nostro gruzzolo d'ossa, dove la febbricola quotidiana metteva dapprincipio una sorta di svigorito calore, ma sul tardi - lo stesso càpita quando si beve - un esubero di parole, un gusto di cantarsi e compiangersi, di cui io per primo (ve n'accorgerete) non ho saputo guarire mai più...

Che dietro i suoi cavalli di Frisia, spinati come Cristi in croce, avesse accolto moribondi diversi dai soliti, il Magno lo capì subito: "La vostra è una generazione senza paragone" diceva, con un sussiego nell'inflessione, come se fosse merito suo. "Mai, da quando sto qui alla Rocca, m'era avvenuto di vedere tanti libri in giro e mutrie adorne d'occhiali. E' il raccolto della guerra. Un tempo erano solo i pezzenti della Kalsa a cascarci. Ora anche i signorini s'ammalano, col loro petto senza peli, l'acqua di colonia, le ironie in italiano".

Il Gran Magro, giudicava i malati per annate, come un intenditore di vini o un maestro in pensione. 

Lo assecondavano essi, resistendo raramente alla Rocca per più di quattro stagioni. La durata media era quella, da un ottobre all'altro, il tempo di aggregarsi e imparare un linguaggio, consuetudini, un decalogo che valesse per tutti. Ciascuno, infine, quasi pretendendo alla nobiltà di una staffetta di lampade, appena si sentiva vicino a cadere, affidava a un successore il suo povero testimone: un cimelio, un trucco, un nomignolo. Così da vent'anni il Gran Magro continuava a esser chiamato il Gran Magro, dopo ch'erano morti in venti, insegnandoselo prima di morire.

Ma io - a tal punto m'avvilivano questi scambi di consegne e l'attesa supina del colpo - non so quante volte al giorno mi sentivo tentato di salvarmene con una inadempienza o bravata. Certo, fossi stato sicuro di non lasciarmi dietro a ogni passo le mie lumacature e polluzioni d'untore, non sarei rimasto a covare nel pagliericcio la febbre come una cimice, ma seri sceso a consumarmi fra la gente, in fretta ero troppo vigliacco per morire a rate. Questo nei primi mesi, poi alla esistenza smozzicata degli altri finii con l'assuefarmi, e dal loro consorzio non volli più disertare. Con essi ho spartito, all'ombra della stessa bandiera gialla, ogni elemosina dell'ora, tutti gli inganni e i disinganni delle loro carriere, benchè non la fine repentina che le concluse. Ma se di tanti io solo, premio o pena che sia, sono scampato e respiro ancora, è maggiore il rimorso che non il sollievo, d'aver tradito a loro insaputa il silenzioso patto di non sopravviverci.

_____________________________

PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU'  PRESTO!


 
 
 

dal libro "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino- Sellerio Ed. - Le pagine più interessanti. 3^ e 4^ PUBB.

Post n°170 pubblicato il 07 Novembre 2014 da loredanafina1964

TERZA  PUBBLICAZIONE

Frattanto la Rocca s'andava spegnendo, un rettangolo dopo l'altro; già erano buie le finestre del padiglione femminile, dopo l'urlo cerimoniale di suor Benedetta, mentre noi, per pura disobbedienza, tornavamo ad accendere ogni cinque minuti. Infine il sanatorio sprofondava nella tenebra come in una coltre di pace; vecchia tartana in disarmo sul dosso del monte, oscillava piano, in un sonno rotto da scoppi rauchi che da una corsia all'altra, da una branda all'altra, si rispondevano fraternamente: latrati di cani amici nella paura della campagna, marcia funebre di paese per tube del giudizio ingorgate da un escreato gigante.

Dormiva, la vecchia tartana, e pareva un'arca su un'altura, alla fine di un'inondazione; un'arca in secco, abbandonata dai vivi, con lo sterno corroso dal sale e malmenato dal vento, popolata solo di topi, come la cineclubica nave di Nosferatu. Da un grammofono, chissà dove, un disco d'antiche villeggiature ripeteva parole che per un secondo, non più riuscivano a stringermi il cuore.

Les vieux billets, chèrie, qui me rappellent les nuits à bord du Normandie si belles...

Altre notti per me, altro Normandie era il mio, coi suoi neri oblò come pupille cucite, con la sua merce di topi di Giaffa, stivata nelle cantine, venuto ad arenarsi sul poggio della Rocca.

Le parc au soir lorsque la cloche sonne, le vieux boudoir où ne vient plus personne...

Canticchiavo spogliandomi, prima di accoccolarmi nella mia muda di moribondo, a sognare una strada color cenere, una latomia in rovina, dove fra erbe e pietre confusamente crescevano alberi. Oh sì, furono giorni infelici, i più felici della mia vita.

______________________________________

QUARTA PUBBLICAZIONE

Ma chi potrà scordarsi dei compagni di prigionia, del fuoco che li spegneva, nelle prime ore dell'alba, in pigiama com'erano, a scendere in giardino per piangere finalmente da soli, con la guancia premuta contro la spalliera di una panchina; chi potrà levarsi dalla mente le loro facce malrasate, mentre le coglie e disorienta l'indorarsi fulmineo del mondo, al di là del muro di cinta?

Bastava talvolta, tra sonno e veglia, un fischio di treno addolcito dalla distanza, oppure il cigolìo dei carri di zolfo in fila per la collina, e si balzava col cuore in tumulto, seduti sul letto, a origliare le invidiate informazioni e leggende di quella stella infedele in cui s'era trasformata la terra. Che cosa racconta un treno, un carro che va, fra bivacchi e lune sull'aia, lungo profumi d'aranci e paesi, in una notte d'estate? Niente, eppure so di occhi sbarrati nel buio, che non avevano altra vacanza se non di sorprendere, al sèguito di quelle ruote, qualche guizzo di vita durante la via: un vecchio che prende il fresco, due teste che si parlano sotto il lume della cena... 

Si tornava dall'immobile viaggio più lieti, più tristi, chi può dirlo, e tuttavia non delusi del nostro bottino di nuvole, l'unico che la sorte non aveva facoltà di vietarci. Allo stesso modo il pellegrino, a cui accade di sostare sotto un davanzale straniero, sospende il passo se mai gli giungano, in una pausa di canto, svogliatezze e amorosi sussurri di donna, e se ne riparte racconsolato, stringendosi nel pugno quel bene, quel pane rubato, di cui cibarsi più tardi. 

E questo era bello: andarsene così a spasso con passi d'aria per montagne e pianure, clandestini senza biglietto, contrabbandieri di vita. Almeno finchè la babilonia della luce non fosse tornata a proclamare sui tetti, per chi se ne stava dimenticando, che un altro giorno ci aspettava dietro l'angolo, con la sua razione infallibile di dileggio e di pena. E sarebbe stato un giorno di meno, uno dei pochi rimasti.

La stessa cosa, più grigiamente, dicevano i rumori del risveglio, tutta una prammatica senza deroghe che, forzando lo spessore del sonno, tornava a celebrarsi ogni ventiquattr'ore accanto al nostro cuscino: era lo scorrere su e giù della spranga nell'anello della porta carraia; era la frenata del furgone del latte sulla ghiaia del viale; l'incespicare del carrello con le siringhe contro l'antica sporgenza dell'ammattonato, davanti all'infermeria.....E ciascuno di questi avvisi, così inaspettato com'era, sembrava scandire i tempi di uno sfratto senz'appello e ribadire lo stigma per colpa del quale eravamo in esilio. 

Una setta di sbanditi eravamo, e incapaci di amarci fra noi, o così ci pareva, benchè chi si è salvato abbia capito anni dopo ch'era vero il contrario, e che era già amore la passione con cui s'imparava la morte degli altri come se fosse la propria. Dunque come dimenticarsene, dei compagni d'allora, se in ognuno mi riconosco e mi chiamo, se è mio ogni petto entro cui uno spettro di foglia solennemente si oscura? 

Mi basta rimormorare i nomi in forma di filastrocca, da De Felice a Sciiumè, e uno alla vota ritornano a fumare di frodo nella mia stanza, riaprono a caso per consultarlo, come un mazzo di arcani tarocchim il Montale sul comodino. Luigi il Pensieroso conia, guardando in fondo a una sputacchiera di carta gli esiti della sua tosse, una freddura che mi commuove: "Rosso di sera, bel tempo si spera"; l'altro Luigi, l'Allegro, sale su una sedia a glorificare, con grandi manate nell'aria, le panacee recenti d'America che ci salveranno in extremis: "Arrivano i nostri" ride, imitando con le labbra i tatatà della mitraglia, "e addio, poveri cocchi!".

Chiama così i bacilli di Koch, familiarmente, da militare di carriera che s'affeziona ai nemici della trincea dirimpetto e ai loro passatempi e risaputi marchingegni di guerra. "Fanno massa all'apice" dice "ma è solo una diversione; è al lobo inferiore che mirano. Tu, lascia che arrivi la penicellina...".

Il colonnello conserva le distanze (la nostra ala, di molte camere uguali, è tutta di reduci e rimpatriati, e lui si sente ancora il comandante della guarnigione, anche se la guerra è finita da un anno e ormai la nostra divisa è il pigiama); aspetta che ci alziamo quando fa l'ingresso in veranda, ligneo, cinereo, con un foulard di seta legato al pomo d'Adamo, e la manica vuota lungo il fianco destro, che pende; pronunzia poche parole, rotte rpesto da una furia di tosse: "Scusate, signori ufficiali" dice, e se ne va.

Dirò ancora del bambino Adelmo, il nostro giocattolo, figlio e portafortuna, che scendeva dal piano di sopra a chiederci racconti e dolciumi, nel suo dialetto difficile, tendendo fuori del rimbocco d'una camicia troppo grande una mano d'un biancore di gesso. Lo rivedo per i vialetti, che si sforza, allungando il passo, di stare a paro con noi; e gli mancano le forze nel bel mezzo di una favola. E ripenso come si stupisce e ride, mentre m'ascolta improvvisargli, sulle stelle che mi chiede, risposte con numeri a caso e nomi da scioglilingua, Erebo, Eros, Erine, noi due soli sulla terrazza della Rocca, come su un'arce lambita appena dai frngenti dell'esistere. Passavano in corsa le Orse sopra la nostra testa, battistrada di oscuri disastri. Lui cercava, col soccorso del mio dito, una filante d'oro là in alto, che lo guidasse in salvo dal malanno sino alla sua casa di Filicudi, lo scoglio dov'era nato.

Lo delusi solo alla fine. Credeva, per averlo sentito da suo padre una notte nella lampara, che il chinino guarisse ogn'incomodo, e prima di morire, a bassa voce, supplicava e supplicava, finchè per contenerlo gli demmo una compressa purchessia. Se ne accorse, non volle più parlare, si limitò a buttarmi, prima di girarsi dall'altra parte, un'occhiata di debole astio...

___________________________________________

LA PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO. 


 
 
 

DAL LIBRO: "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino - Sellerio Ed. - Le frasi e le pagine più interessanti. 2^ PUBB.

Post n°169 pubblicato il 02 Novembre 2014 da loredanafina1964

SECONDA PUBBLICAZIONE

_____________________________

 

Mariano Grifeo Cardona di Canicarao: così, senza economizzare una sillaba, usava firmarsi il dottore, prolungando il primo nel successivo cognome, non tanto forse per diritto di nascita, bensì fedele a quel pregiudizio mediterraneo (o quantomeno suo e mio), secondo cui l'interiezione e la pletora aggiungono alle parole - e ai climi, alle mimiche, ai cibi - non solo opulenza ma credito, come in un abbigliamento magico, dove maschere e piume, più ridondano, meglio si esaltano e si danno forza a vicenda.

Nessuno di tanti titoli gli era poi utile a nulla, per una furberia delle cose, essendo che, a memoria d'uomo, lo avevano sempre chiamato il Gran Magro, nè v'era portantino o suora o malato che, scorgendone le lunghissime gambe sopravvenire per la corsia, non sentisse il bisogno di propagare l'avvenimento con un bisbiglio, il Gran Magro, il Gran Magro, la cui musica sempre uguale doveva certo, in tanti anni, essere arrivata almeno una volta sino alla conca pelosa del suo orecchio. Che poi un'impresa gentilizia - un nido d'api, col vocabolo Uberius al centro - pompeggiasse in cima al suo biglietto da visita, nessuno di noi smise mai di considerarlo un abuso, a dispetto delle commendatizie che si affannava a fornirgli la quercia dipinta, dalle radici come murene, appesa in alto dietro al suo scrittoio. Singolare pianta, davvero! Non protetta da vetro, ma da giustapposte lastre d'archivio, preventivamente nettate con acqua tiepida dalle macule e magagne di qualche ignoto defunto; e si levava dal suolo con tale energia e abbondanza di chiome da far temere che presto sarebbe evasa dall'effratta cornice per espandere liberamente i suoi cartigli nell'aria. Uno de quali in effetti, ove l'avessimo preso per buono, testimoniava dall'estremità di una fronda che una goccia almeno di blu, spremuta da marchionali ispanici lombi, era scorsa fino a lui lungo i secoli, per deporgli nelle vene un lampeggio d'antica grandigia, seppure ormai malinconica e torva, come s'addice a un uomo di libri.

Bene, il falso o vero nobiluomo Gran Magro era il solo fra i medici della Rocca, all'infuori di quell'altro a cui toccava il turno di guardia, che restasse a dormire ogni notte con noi (dalla moglie s'era diviso anni prima: una siracusana di spaventosa bellezza, sulla cui foto sputava, dicevano, tutte le mattine, prima di lavarsi). Spesso, dopo cena, quando fummo diventati amici, me lo vedevo apparire al capezzale, senza camice, in piedi, chiuse sul pomo del bastone due mani di perfida esiguità. Alzavo gli occhi, ne investigavo da capo a fondo l'immagine, dalle spesse lenti verdacee ai borzacchini di capretto nero che gli coprivano quasi gli stinchi. Un vero e proprio dagherrotipo d'epoca: Herr Virchow fra colleghi e studenti nel giubileo della prima lezione; Monsieur Charcot in posa, sulla soglia della Salpetrière, con le fedine spettinate dal vento...

Mi chiedo tuttora cosa cercasse nella mia compagnia, se gli servisse solo un ascoltatore acquiscente per le sue empiaggini d'ogni sera, oppure obbedisse alla professionale curiosità di censire da vicino i progressi del male dentro di me, le crepe neonate, i capisaldi persi, ripresi, ripersi; e tutto questo non su una di quelle gocciolanti pellicole che detestava, bensì attraverso più sottili spionaggi: una veemenza nella tosse che prima non c'era; una nota che la voce avesse improvvisamente fallito o riacciuffato a fatica sull'orlo; un'unghia spaccata, una roseola sul labbro, un lampo di febbre nell'iride. A meno che non venisse per bere, bere gli piaceva, gli dava la parlantina. E dunque io mi levavo dal letto, cavavo dall'armadio di ferro una bottiglia di porto e la mia caraffa privata (lui, a scanso di contagi, il suo bicchiere da tasca da una tasca della vestaglia, guardandomi di sbieco e scusandosi della percauzione con una sfacciataggine delle labbra). Uscivamo a bere sulla veranda, io anima, lui condottiero e arcidiavolo, fra sedie a sdraio nere di corpi distesi e sussurranti, dinanzi alla pineta che non stormiva, quasi, e nascondeva la lama di mare, laggiù.

Che giorni, che serate. Forse i soli giorni ricchi di un'esperienza che non ha avuto altre iperboli, dopo, e s'è fatta inaspettatamente interminabile. Mentre allora, a furia di contare e ricontare i miei spiccioli anni come scampoli di meccano o catturati pedoni disposti ai lati di una scacchiera, m'ero abituato a vedere nel tempo a venire nient'altro che l'imminentissimo explicit d'una partita già perduta dentro la mente; non poema di cavalieri dove si celassero mirabilie e salvataggi sino alla penultima pagina; ma sonetto veloce a cui mancava solo un verso, il sigillo di una rima che non era consentito cambiare.

__________________________________________

PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.

 
 
 

DAL LIBRO: "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino - Sellerio Editore - Le frasi e le pagine più interessanti.

Post n°168 pubblicato il 21 Ottobre 2014 da loredanafina1964

                                 P R I M A         P U B B L I C A Z I O N E 

DICERIA: discorso per lo più non breve, detto di viva voce; poi anche scritto e stampato....

               Di qualsiasi lungo dire, sia con troppo artifizio, sia con troppo poca arte....

               Il troppo discorrere intorno a persona o cosa.

                                                                                 TOMMASEO BELLINI

 

UNTORE: Dispensatore et fabbricatore delli onti pestiferi, sparsi per questa Città, ad estinzione 

               del popolo....

                                                                                (Carte del processo, 1630)

 

_____________________________________________

a chi lo sa

 

O quando tutte le notti - per pigrizia, per avarizia - ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui spogendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l'estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi....da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l'impazienza di svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità, sempre più ritratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient'altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell'imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi e le forme).

Ai piedi della scarpata, di fronte al viottolo che ne partiva, col suo rigo chiaro rassicurarmi così del repentaglio che m'ero lasciato alle spalle come dell'orridezza nuova dell'aria, esitavo un momento, in attesa che mi si calmasse nella gola il batticuore dell'avventura, e gli occhi prendessero confidenza con le visioni del sottobosco e la loro bambinesca mobilità. Caduto il vento, la cui mano m'aveva a più riprese, con la mano di un complice, trattenuto o sospinto nella discesa, il silenzio era pieno; i miei passi, quelli di un'ombra. Non restava che procedere un poco, ed ecco, al posto di sempre, purgatorialmente seduti a ridosso l'uno dell'altro, uomini vestiti d'impermeabili bianchi, e si scambiavano frantumi di suono, una poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili. M'avvicinavo a loro con un turbamento che l'abitudine non rendeva minore. Essi levavano mestamente la fronte, tutt'insieme accennavano un divieto, mi gridavano con spente orbite: vattene via. Non mi riusciva di obbedire, ma in ginocchio a qualche metro di distanza, torcendomi le dita dietro la schiena, aspettavo che uno si muovesse, il più smunto, il più vecchio, una serpaia di rughe fra due lembi di bavero, e semplicemente curvandosi a raccattare una pietra, rilevasse dietro di se, sulla soglia di un sottosuolo finora invisibile, botola di suggeritore o fenditura flegrea, la dissepolta e rapida nuca di lei, Euridice, Sesta Arduini, o come diavolo si chiamava.

"Fermati," gridavo "madre mia, ragazza, colomba", mentre sentivo il tozzo polpastrello del sonno che mi suggellava le palpebre bruscamente detumefarsi, dissiparsi in bolla di schiuma, in vischioso collirio di luce. Soltanto in quell'istante, riaprendo gli occhi, capivo d'avere ancora una volta dimenticato, o sbagliato apposta, la parola d'ordine che mi serviva.

 

Era veramente divenuto un gioco, alla Rocca, volere o disvolere morire, in quell'estate del quarantasei, nella camera sette bis, dove ero giunto da molto lontano, con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo, dopo essermi trascinato dietro, di stazione in stazione, con le dita aggranchite sul ferro della maniglia, una cassetta militare, minuscola bara d'abete per i miei vent'anni dai garretti recisi. Non avevo altro bagaglio, nè vi era dentro gran che: un pugno di ricordi secchi, e una rivoltella scarica fra due libri, e le lettere di una donna che ormai divorava la calce, fra Bismantova e il Cusna, sotto un cespuglio di fiori che avevo sentito chiamare aquilegie.

A me meno frigide ghirlande erano promesse, appena la franchigia fosse scaduta e mi fossi stancato di raccogliere in difesa, come un quadrato di veterani, i sentimenti superstiti che mi facevano vivo. Non mancava molto ormai: già erano scomparse l'incredulità e la vergogna dei primi tempi, quando ogni fibra è persuasa ancora d'essere immortale e si rifiuta di disimpararlo. Ma sopravviveva il rancore, anche se sotto la specie di una loquace pietà di me stesso. Un re forestiero m'era venuto ad abitare sotto le costole, un innominabile minotauro, a cui dovevo giorno per giorno in tributo una libbra della mia vita. E inutilmente il cuore, il quale possiede non meno che la vista, un suo prezioso potere d'accomodo, s'affannava a ripetermi ch'ero stato io a sceglierlo, quel male, per pulire superbamente col mio sangue il sangue che sporcava le cose, e guarire immolandomi in cambio di tutti, il disordine del mondo. Non serviva. Non serve mai, solo al fine di consolarsene, nobilitare un destino che ci è giocoforza patire. E quindi, benchè della mia creistiana assunzione di colpa io mi vantassi volentieri in versi su un quaderno di carta da macero, non cessavo, in una piega della mente, di considerarmi un ostaggio provvisorio in mano al sinedrio, spiavo di soppiatto le risorse di scampo che mi restavano, alzavo le braccia solo per finta. 

Sarebbero presto venuti a darmi di lancia, sotto il patibolo, fantaccini sudati, perchè dovevano. Ma era bello, nel frattempo, consentire all'evidenza del giorno, all'ingiunzione d'esistere che intonavano a gara ogni mattina i centomila galli della Conca d'Oro con quelle loro fanfare. Ogni differimento, del resto serviva a rendere sempre più cavillosa e tenera : l'intimità con la prossima fine, tanto da farla rassomigliare un poco a una scherma d'amore: gli stessi allettamenti e ripulse e astuzie d'occhi e fiacchezze di fanciulla, prima della decisiva capitolazione nel buio.

Così non c'era giorno o notte, alla Rocca, che la morte non m'alitasse accanto la sua versatile ubiqua presenza; ch'io non ne intravvedessi, in una striscia di luce o in un mucchietto di polvere, le imbellettate fattezze, ora d'angela ora di sgherra. Lei era la meridiana che disegnava sul soffitto delle mie insonnie le pantomime del desiderio; lei, la tagliuola che mi mordeva il calcagno; il mare di foglie che il sole tramuta in brulichìo di marenghi; lei, la buca d'obice, l'in pace, le quattro mura di ventre dove nessuno mi cerca.

In una condizione così teatrale, in bilico fra vanagloria e spavento, trascorsi una settimana dopo l'altra, senza imparare quasi nè un luogo nè una persona, non vedendo altro che una faccia, la stessa, davanti a me: come chi cammina in un corridoio, e ha dietro un lume, e in fondo c'è uno specchio. Fossi riuscito a resistere così fino alla fine, avessi evitato di colluttare, oltre che con la mia, con la dannazione e salvezza degli altri tutti: del dottore, del frate, della ragazza!

_______________________________________

 

LA SECONDA PUBBLICAZIONE: AL PIU' PRESTO.

 

 

 

 
 
 

AREA PERSONALE

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Luglio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 1
 

ULTIME VISITE AL BLOG

caterina.restaguido.cabreleoioioioiolauraruozziforco1sil.morettimgtrasp.sollevamentiwallace981lorenzabcengelbethtononcelli.silviapery78dyerkessconcetta61dgl0piccola.memole
 

ULTIMI COMMENTI

Grazie per averlo condiviso ! NMRK :)
Inviato da: Laranichinyo
il 31/01/2015 alle 19:15
 
Ciao, bel post, complimenti. Ti auguro una dolce notte....
Inviato da: leggenda2009
il 23/01/2015 alle 23:28
 
:)
Inviato da: loredanafina1964
il 15/01/2014 alle 22:53
 
Il verso della lepre o il raglio dell'asino invece non...
Inviato da: dakota_07
il 13/01/2014 alle 22:58
 
grazie :) NMHRK
Inviato da: loredanafina1964
il 13/01/2014 alle 21:58
 
 

CHI PUò SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963