Creato da loredanafina1964 il 10/10/2011

loredanafina

scrivere scrivere scrivere!

 

 

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Post n°187 pubblicato il 12 Febbraio 2015 da loredanafina1964

Quelli sui due Buddha ammazzati a Bamiyan, e quelli sul mio Kon-dun. Il Dala Lama. Quelli sulle tre donne giustiziate a Kabul perchè andavano dal parrucchiere, e quelli sulle femministe che se ne fregano delle sorelle in Burkah e in shador. Quelli su Alì Butto costretto a sposarsi meno che tredicenne, e quelli su re Hussein cui racconto in che modo mi hanno trattato i palestinesi. Quelli sui comunisti italiani che per mezzo secolo m'hanno trattato peggio dei palestinesi, e quelli sul Cavaliere che ci governa. Quelli su mio padre e su mia madre, quelli sui molluschi d'oggi cioè sui giovani viziati dal benessere e dalla scuola e dai genitori. Quelli sui voltagabbana di ieri e di oggi e di domani...... Accantonai perfino i pezzetti sul pompiere Jimmy Grillo che non cede e su Bobby il bambino newyorkese crede nella bontà, nel coraggio. E nonostante ciò il testo rimane tremendamente lungo. Il direttore infiammato cercò di aiutarmi. Le due pagine intere che mi aveva riservate diventarono tre poi quattro poi quattro e un quarto. Misura mai raggiunta, credo, per un singolo articolo. Nella speranza che glielo dessi completo, suppongo, mi offrì perfino di pubblicarlo in due puntate. Due tempi. Cosa che rifiutai perchè un urlo non si può pubblicare in due tempi. A pubblicarlo in due tempi non avrei ottenuto lo scopo che mi proponevo cioè tentar d'aprire gli occhi a chi non vuol vedere, sturare le orecchie a chi non vuole udire, indurre a pensare chi non vuol pensare. Anzi, prima di darglielo, (lui non lo sa e non lo immagina neanche), tagliai ancora. Accantonai i paragrafi più violenti. Sveltii i  passaggi più complicati. Sintetizzai alcuni brani, cancellai molte righe connesse alle parti tolte. Tanto nella cartella rossa custodivo quei metri e metri di fogli intatti: il testo completo, il piccolo libro. Bè, le pagine che seguono questa premessa sono il piccolo libro. Il testo completo che scrissi nelle due settimane durante le quali non mangiavo, non dormivo mi tenevo sveglia a caffè e sigarette, e le parole sgorgavano come una cascata d'acqual.

Di correzioni ve ne sono poche. (V'è ad esempio quella delle quindicimilaseicentosettanta lire con cui mi congedarono dall'Esercizio Italiano e che nel giornale avevo erroneamente indicato con la cirfra quattordicimilacinquecentoquaranta). Di tagli, stavolta, non contiene che qualche frase ormai superflua. Ad esempio quella indirizzata a chi non mi rivolgo più.

Sic transit gloria mundi.

                                                  *      *      *

E' quello, sì, e a pubblicarlo mi par d'essere Salvemini che il 7 maggio 1933 parla all'Irving Plaza su Hitler e su Mussolini. 

Sgolandosi dinnanzi a un pubblico che non lo capisce ma lo capirà il il 7 dicembre 1941 cioè il giorno in cui i giapponesi alleati di Hitler e Mussolini bombarderanno Pearl Harbor, sbraita: "Se restate inerti, se non ci date una mano, prima o poi attaccheranno anche voi!".  Però v'è una differenza tra il mio piccolo libro e l'antifascist-meeting dell'Irving Plaza. Di Hitler e Mussolini, allora, gli americani sapevano poco. Potevan permettersi il lusso di non creder troppo a quel fuoriuscito che illuminato dall'amore per la libertà vaticinava disgrazie. Del fondamentalismo islamico oggi sappiamo tutto. Neanche due mesi dopo la catastrofe  di New York lo stesso Bin Laden dimostrò che non sbagliò a sbraitare. "Non capite, non volete capire, che è in atto una crociata alla Rovescia. Una guerra di religione che essi chiamano Jihad, Guerra Santa. Non capite, non volete capire, che per loro l'Occidente è un mondo da conquistare castigare piegare l'Islam". Lo dimostrò durante il proclama televisivo nel quale sfoggiava all'anulare destro una pietra nera come la Pietra Nera che si venera alla Mecca. Il proclama attraverso il quale minacciò perfino l'Onu e definì il Segretario Generale dell'Onu, il buon Kofi Annan, un "criminale". Il proclama con cui incluse gli italiani nella lista dei nemici da castigare. Quel proclama al quale mancava solo la voce isterica di Hitler o la voce sgangherata di Mussolini, il balcone di palazzo Venezia o lo scenario di Alexanderplaz. 

"Nella sua essenza questa è una guerra di religione, e chi lo nega, mente" disse. "Tutti gli arabi e tutti i mussulmani devono schierarsi, se restano neutrali rinnegano l'Islam" disse. "Coloro che si riferiscono alla legittimità delle istituzioni internazionali rinunciano all'unica e autentica legittimità, la legittimità che viene dal Corano". E poi, "La gran maggioranza dei mussulmani, nel mondo, sono stati contenti degli attacchi alle Torri Gemelle. Risulta dai sondaggi".

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SEGUE AI LETTORI 3

Post n°186 pubblicato il 11 Febbraio 2015 da loredanafina1964

Di nuovo trascurando il bambino che privo di latte e di mamma dormiva sotto quegli appunti, tornai alla macchina da scrivere dove l'irrefrenabile pianto si trasformò in un urlo di rabbia e d'orgloglio. Un J'accuse. Una requisitoria agli italiani che gettandomi qualche fiore, forse, e certo molte uova marce, m'avrebbero ascoltato dalla platea e dai palchi e dal loggione di quel giornale. Senza fermarmi cioè senza mangiare e senza dormire. Non sentivo neanche la fame e il sonno. Mi tenevo su a sigarette, caffè, e basta. E qui devo fare una messa a punto. Devo dire che scrivere è una cosa molto seria per me. Non è un divertimento o uno svago o uno sfogo. Non lo è perchè non dimentico mai che le cose scritte possono fare un gran bene ma anche un gran male, guarire oppure uccidere. Studia la Storia e vedrai che dietro ogni evento di Bene o di Male c'è uno scritto. Un libro, un articolo, un manifesto, una poesia, una preghiera, una canzone. (Un Inno di Mameli. Una Marsigliese. Uno Yankee Doodle Dandy. O peggio: una Bibbia, una Torah, un Corano, un Das Kapital). Così non scrivo mai alla svelta, cioè di getto. Sono uno scrittore lento, uno scrittore cauto. Sono anche uno scrittore incontentabile. Non assomiglio davvero a quelli che si compiacciono sempre del loro prodotto, manco urinassero ambrosia. In più ho molte manie. Tengo alla metrica, al ritrmo della frase, alla cadenza della pagina, al suono delle parole. E guai alle assonanze, alle rime, alle ripetizioni non volute. La forma mi preme quanto la sostanza. Penso che la forma sia un recipiente dentro il quale la sostanza di adagia come un vino dentro un bicchiere, e gestire questa simbiosi a volte mi blocca. Ora, invece non mi bloccava per niente. Scrivevo alla svelta, di getto, senza curarmi delle assonanze, delle rime, delle ripetizioni perchè la metrica cioè il ritmo fioriva da sè, e come non mai ricordando che le cose scritte possono guarire o uccidere. (Può giungere a tanto la passione?). Il guaio è che quando mi fermai e fui pronta a spedire il testo, m'accorsi che anzichè un articolo avevo partorito un piccolo libro. Per darlo al giornale dovevo taglgliarlo, ridurlo a una lunghezza accettabile.

Lo ridussi quasi a metà. Il rimanente lo chiusi in una cartella rossa, lo misi a dormire con il bambino. Metri e metri di fogli su cui avevo rovesciato il cuore.

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SEGUE AI LETTORI 2

Post n°185 pubblicato il 09 Febbraio 2015 da loredanafina1964

Quell'11 Settembre pensavo al mio bambino (il suo cancro che le avevano da poco diagnosticato) , dunque, e superato il trauma mi dissi:"Devo dimenticare ciò che è successo e succede" Devo occuparmi di lui e basta. Sennò lo abortisco". Così, stringendo i denti, sedetti alla scrivania. Ripresi in mano la pagina del giorno prima, cercai di riporportare la mente ai miei personaggi. Creature d'un mondo lontano, di un'epoca in cui gli aerei e i grattacieli non esistevan davvero. Ma durò poco. Il puzzo della morte entrava dalle finestre, dalle strade deserte giungeva il suono ossessivo delle abmulanze, il televisore lasciato acceso per l'angoscia e lo smarrimento lampeggiava ripetendo le immagini che volevo dimenticare. E d'un tratto uscii di casa. Cercai un taxi, non lo trovai, a piedi mi diressi ver le Torri che non c'erano più, e.....

Dopo non sapevo che fare. In che modo rendermi utile, servire a qualcosa. E proprio mentre mi chiedevo che-faccio, che-faccio, la Tv mi mostrò i palinsesti che pazzi di gioia inneggiavano alla strage. Berciavano Vittoria-Vittoria. Poi qualcuno mi raccontò che in Italia non pochi li imitavano sghignazzando bene-agli-americani-gli-sta-bene e allora, con l'impeto d'un soldato che si lancia contro il nemico, mi buttai sulla macchina da scrivere. Mi misi a fare la sola cosa che potevo fare. Scrivere. Appunti convulsi, spesso disordinati, che prendevo per me stessa cioè rivolgendomi a me stessa. Idee,  ragionamenti, ricordi, invettive che dall'America volavano in Italia, dall'Italia saltavano nei paesi mussulmani, dai paesi mussulmani rimbalzavano in America. Concetti che per anni avevo imprigionato dentro al cuore e dentro al cervello dicendomi tanto-la-gente-è-sorda, non- ascolta, non-vuole-ascoltare. Sgorgavano come una cascata d'acqua ora. Ruzzolavano sulla carta come un irrefrenabile pianto. Perchè vedi: con le lacrime io non piango. Anche se un violento dolore fisico mi trafigge, anche se una pena lancinante mi strazia, dai miei sacchi lacrimali non esce nulla. Si tratta d'una disfunzione neurologica, anzi d'una mutilazione fisiologica, che mi porto dentro da oltre mezzo secolo. Cioè dal 25 settembre 1943, il sabato in cui gli Alleati bombardarono per la prima volta Firenze e commisero un mucchio di errori. Anzichè centrar l'obbiettivo cioè la ferrovia che i tedeschi usavano per il trasporto delle armi e delle truppe, colpirono il quartiere attiguo e l'antico cimitero di piazza Donatello. Il Cimitero degli inglesi, quello dove è sepolta Elizabeth Barrett Browning. Io ero col babbo presso la Chiesa della Santissima Annunziata che da piazza Donatello dista appena trecento metri, quando le bombe incominciarono a cadere. Per sfuggirvi ci rifugiammo lì, e chi lo conosceva l'orrore d'un bombardamento?  Ad ogni scarica le solide mura della Chiesa oscillavano come alberi investiti dalla bufera, le vetrate si spaccavano, l'impiantito sobbalzava, l'altare dondolava, il prete urlava:"Gesù! Aiutaci, Gesù!". D'un tratto presi a piangere. In maniera tacita, bada bene, composta. Niente gemiti, niente singhiozzi. Ma il babbo se ne accorse lo stesso e credendo di aiutarmi, povero babbo, fece una cosa sbagliata. Mi tirò uno schiaffo tremendo. Dio, che schiaffo. Peggio. Mi fissò negli occhi, mi sibilò: "Una ragazzina non piange". Così dal 25 settembre 1943 non piango più. Ringraziare il cielo se all'occorrenza mi si inumidiscono gli occhi, mi si chiude la gola. Però dentro piango più di chi piange con le lacrime, e ciò che scrissi in quei giorni era davvero un irrefrenabile pianto. Sui vivi, sui morti. Su quelli che sembrano vivi ma in realtà sono morti come gli italiani che non hanno le palle per cambiare, diventare un popolo da trattar con rispetto. Ed anche su me stessa che, giunta all'ultima fase della mia vita devo spiegare perchè in America ci sto in esilio e perchè in Italia ci vengo di soppiatto.

Poi, piangevo da una settimana, il direttore del giornale venne a New York. Ci venne per convincermi a rompere il silenzio che avevo già rotto, e glielo dissi. Gli mostrai addirittura gli appunti convulsi, disordinati e lui s'infiammò come se avesse visto Greta Garbo che tolti gli occhiali neri si esibisce alla Sala in licenziosi strip-teese. o come se avesse visto il pubblico già in fila a comprare il giornale, pardon, per accedere alla platea e ai palchi e al loggione. Infiammato mi chiese di continuare, cucire tutto con gli asterischi, farne una specie di lettera rivolta a lui, mandargliela appena pronta. E pungolata dal dovere civile, dalla sfida morale, dall'imperativo categorico, accettai.

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SEGUE AI LETTORI 1

Post n°184 pubblicato il 07 Febbraio 2015 da loredanafina1964

L'esilio richiede disciplina e coerenza. Virtù nelle quali sono stata educata da due genitori coi fiocchi: un babbo che aveva la forza d'un Muzio Scevola, una mamma che sembrava la Madre de' Gracchi, e ai cui occhi la severità era un antibiotico contro la cialtroneria. E per disciplina, per coerenza, in questi anni son rimasta zitta come un lupo sdegnoso.

Un vecchio lupo che si consuma del desiderio d'azzannare le pecore, sbrabare u cinigli, eppure riesce a controllarsi. Ma vi sono momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre. 

Così diciotto giorni dopo l'Apocalisse di New York, ruppi il silenzio col lunghissimo articolo che apparve su un giornale italiano poi su alcuni giornali stranieri. Ed ora interrompo (non rompo:interrompo) l'esilio con questo piccolo libro che raddoppia il testo dell'articolo. E' dunque necessario che spieghi perchè lo raddoppia, come lo raddoppia, e in quale modo il piccolo libro è nato.

E' nato all'improvviso. E' scoppiato come una bomba. Inaspettatamente come la catastrofe che il mattino dell'11 Settembre 2001 ha incenerito migliaia di persone e dissolto due degli edifici più belli della nostra epoca: le Torri del World Trade Center. La vigilia della catastrofe pensavo a ben altro: lavoravo al romanzo che chiamo il-mio-bambino. Un romanzo molto corposo e molto impegnativo che in questi anni non ho mai abbandonato, che al massimo ho lasciato dormire qualche mese per curarmi in ospedale o per condurre negli archivi e nelle biblioteche le ricerche su cui è costruito. Un bambino molto difficile, molto esigente, la dui gravidanza è durata gran parte della mia vita da adulta, il cui parto è incominciato grazie alla malattia che mi ucciderà, e il cui primo vagito si udrà non so quando.

Forse quando sarò morta. (Perchè no? Le opere postume hanno lo squisito vantaggio di risparmiarti le scemenze o le perfidie di coloro che senza saper scrivere e neanche concepire un romanzo pretendono di giudicare anzi bistrattare chi lo concepisce e lo lo scrive).

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Dal libro: "La Rabbia e l'Orgoglio" di Oriana Fallaci- Rizzoli ed.- Le pagine più interessanti- 3^ PUBB.

Post n°183 pubblicato il 07 Febbraio 2015 da loredanafina1964

         AI LETTORI

Io avevo scelto il silenzio. Avevo scelto l'esilio. Perchè in America, è giunta l'ora di gridarlo chiaro e tondo, io ci sto come un fuoriuscito. Ci vivo nell'auto-esilio politico che contemporaneamente a mio padre mi imposi molti anni fa.

Ossia quando entrambi ci accorgemmo che vivere gomito a gomito con un'Italia i cui ideali giacevano nella spazzatura era diventato troppo difficile, troppo doloroso, e delusi offesi feriti tagliammo i ponti con la gran maggioranza dei nostri connazionali. Lui, ritirandosi su una remota collina del Chianti dove la politica alla quale aveva dedicato la sua vita di uomo integerrimo non arrivava. Io, vagando per il mondo e poi fermandomi a New York dove tra me e la politica di quei connazionali c'era l'Oceano Atlantico. Tale parallelismo può apparire paradossale: lo so. Ma quando l'esilio alberga in un'anima delusa offesa ferita, credimi, la collocazione geografica non conta. 

Quando ami il tuo paese (e a causa del tuo paese soffri) non v'è alcuna differenza tra il fare il Cincinnato su una cremota collina del Chianti assieme ai tuoi cani, i tuoi gatti, i tuoi polli, e fare lo scrittore in una metropoli affollata da milioni di abitanti. La solitudine è identica. Il senso di sconfitta pure. 

Del resto New York è sempre stata il Refugium Peccatorum dei fuoriusciti, degli esiliati. Nel 1850, dopo la caduta della Repubblica Romana e la morte di Anita e la fuga dall'Italia, ci venne anche Garibaldi: ricordi? Arrivò il 30 Luglio da Liverpool così arrabbiato che sbarcando disse subito voglio-chiedere-la- cittadinanza-americana, e per due mesi abitò a Manhattan in casa del livornese Giuseppe Pastacaldi cioè al numero 26 di Irving Place. (Indirizzo che conosco bene perchè proprio lì, nel 1861, si sarebbe rifugiata la mia bisnonna Anastasia a sua volta fuggita dall'Italia). In ottobre si trasferì a Staten Island cioè in casa del fiorentino Antonio Meucci (il futuro inventore del telefono) e, per sbarcare il lunario, a Staten Island aprì una fabbrica di salsicce che non ebbe successo. Infatti la trasformò in una fabbrica di candele e nell'osteria di Manhattan dove ogni sabato sera andava a giocare a carten l'osteria Ventura in Fulto Street, una volta lasciò un biglietto che diceva: "Damn the sausages, bless the candels, God save Italy if he can. Maledette le salsicce, benedette le candele, Dio salvi l'Italia se può".

 

 
 
 

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Ciao, bel post, complimenti. Ti auguro una dolce notte....
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:)
Inviato da: loredanafina1964
il 15/01/2014 alle 22:53
 
Il verso della lepre o il raglio dell'asino invece non...
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il 13/01/2014 alle 22:58
 
grazie :) NMHRK
Inviato da: loredanafina1964
il 13/01/2014 alle 21:58
 
 

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