Creato da loredanafina1964 il 10/10/2011

loredanafina

scrivere scrivere scrivere!

 

 

Dal libro: "Diceria dell'Untore" di Gesualdo Bufalino- Sellerio Ed. Le pagine più interessanti. 11^ PUBB.

Post n°177 pubblicato il 14 Gennaio 2015 da loredanafina1964

11^  PUBBLICAZIONE

Dire, chioccando le dita: Go, Stop, quando un ascensore sta per partire o fermarsi, e io sono solo nella cabina; dirigere con entrambe le braccia un attacco d'orchestra invisibile che s'ascolta davanti alla radio....sono debolezze che ho dall'infanzia, m'è sempre piaciuto, per scherzo o rivalsa, fingere di condurre chi mi trascina. E invece ora, rientrato alla Rocca, che sentimento m'aveva invaso, di delega totale che si veniva via via rinfrescando, un bisogno di addolcire in qualche maniera le ustioni a cui avevo esposto senza pensarci mente e sensi nelle ultime settimane. Certo ora mi attraeva qualunque specola da cui si potesse passivamente osservare il guazzabuglio del mondo e riderne e piangerne con misura, come si conviene quando si fa eco alle risa e alle lacrime degli altri. Nemmeno al futuro pensavo più; nè a governare i maneggi nella fantasia. Oppure esso era sul mio capo un cielo chiuso da una cerniera lampo inceppata; un disco che s'incanta e sotto la puntina replica la stessa inerte risposta. In quanto a Marta, era abbastanza saperla a due passi, se ne sarebbe riparlato domani, secondo gli sbalzi della mia terzana d'amore. Più bello era per ora starsene a riposo dietro la ringhiera della veranda, nella sedia a dondolo che avevo ereditato dal frate, mirando in giardino le opere del giardiniere, o i giochi che i fanciulli malati improvvisavano sotto una pianta.

Amavano essi giocare sopratutto nelle ore vietate, quelle che secondo la legislazione del luogo i dovrebbero dedicare all'ozio in corsia.

I fanciulli, da parte loro, da quando s'erano confusamente accorti di vivere sul rovescio della vita, e di possedere nel corposolo un servo mancino e infedele, avevano provato a inventare un gioco in cui importasse correre poco e senza furore, una sorta di sfilata e gavottina d'angeli, che ballavano tenendosi per mano, quasi da fermi, attorno a tronchi di pini a ombrella. Pure, anche così, qualcuno si stancava presto, si slacciava dalle mani degli altri, si andava a sdraiare in disparte. Infine si arrendevano tutti, e insieme, sottovoce, discorrevano di misteri.

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.

 
 
 

DAL LIBRO: "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino - Sellerio Editore - Le pagine più interessanti 10^ PUBB.

Post n°176 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da loredanafina1964

10^ PUBBLICAZIONE

Ogni serpe era al suo posto, e mi piacque riaffondarci la mano. Ripresi a vivere nella casa, quasi sempre a letto, come in balia di un vapore della mente che mi proibiva di alzarmi. Non guardavo che quelle panchine, dal mio letto, e non leggevo, non parlavo quasi, fumavo solo moltissimo, di nuovo, senza riguardo. C'era fumo dentro la stanza, fumo, lamette usate, capelli fra i denti del pettine. E un'incandescenza che non cambiava, come in un lago di sale. Ma non ci badavo,  troppo preso ero in un pensiero. Mi distraeva solo talvolta, dalla strada, una sconsolata voce di donna che chiamava un acquaiolo, un arrotino. Oh, avrei voluto che veramente tutto attorno a me franasse in un tracollo di polvere, ore creature parole: ogni istante era un affilato coltello di luce a cui offrivo pazientemente le mani. Un tempo era quasi la mia terra, sapevo le trovature dei tesori, le profezie delle erbe, parlavo a una capra dalle mammelle nere. Ora non oso andarmene a testa nuda fra tente muraglie avverse; attraversare senza una vertigine gli spopolati sagrati dove è avvenuto un miracolo o ammazzeranno qualcuno. Rimango dentro e non faccio nulla, mi lavo solo moltissimo, ma non serve, il corpo mi s'insudicia lo stesso, immediatamente, mi sento lungo la pelle aderire una patina di morchia e impastarmi i capelli, dietro la semiluna pallida dell'unghia un nero cresce di minuto in minuto, senza motivo. Com'è difficile stare morti fra i vivi: un astruso gioco d'infanzia è diventato, vivere, e mi tocca impararlo da grande.

Mi stanarono gli amici, finalmente, che avevano saputo del mio ritorno. Parlammo, mi disprezzarono presto. Disprezzarono la mia voce, le evasioni dei miei occhi, i ricordi delle mie mani: mani che venivano dalla morte, superbe mani, ricche d'un capitale che, senza invidiarlo, non sapevano perdonarmi. Certe volte mi accusavano: "Che hai fatto con queste mani, perchè resti chiuso tutto il giorno, come sei cambiato". Oppure "Perchè non rispondi quando ti parliamo, perchè non vieni alla sezione stasera, perchè non vieni a serenate stanotte?".

Smisi di vederli, li barattai con una banda di giovani ladri, con un dolcissimo ubbriaco, con loro mi piacque sedermi sui gradini del lungomare, al riparo delle pompe che innaffiavano inutilmente ogni due ore le basole della piazza.  Furono queste le mie compagnie nel paese, specialmente la sera, ma non potevo parlare sempre a me solo, nella mia stanza. Inoltre mi mancava la donna, una da dormirci, mormorandole cose fra i grappoli delle ciocche.

Uscivo all'alba a cercarmela, stanco della notte come di una bottiglia combattuta per niente. Mi avviavo per le strade a passi lunghi, sentendo con un rifiuto di stomaco nascere nei forni ancora illuminati l'afrore del pane caldo, riconoscendo ad ogni cantone, dal suo latrato di cane fedele, dall'assafetida del suo sudore, il mio vecchio spavento che mi diceva buongiorno. Finivo nel quartiere di Santa Venera, in chiassuoli senza uscita, dove, sbucando da un bosco di biancheria, la mia faccia di sconosciuto incuriosiva qui una soglia, lì un'altra, diventava la festa della giornata.

Ma un mattino rimasi dentro, aspettai Cristina, la serva di quarant'anni, brutta, che aiutava in casa e mi puliva la camera. Aspettai con un brivido che non sapevo reprimere il suo passo dietro la porta, le stetti goffamente vicino mentre rifaceva il letto, la toccavo con una scusa. Lei mi guardava meravigliata e contenta, senza parlare. D'improvviso le dissi di andarsene: "Và via, và via" le gridavo mentre fuggiva. "Lèvati dai piedi, vattene via". Lei fuggiva, piangendo, e non capiva, non riuscì ad aprire, rimase davanti all'uscio con la mano turbata sul chiavistello, e le spalle strette e secche che tremavano, finchè le fui dietro, la sforzai a voltarsi, ad accovacciarsi sul pavimento, le rovesciai sulla faccia il grembiule come un bavaglio.

Più tardi mi affacciai a respirare il cielo di fuori, guardavo nella striscia fra le cimase passare uccelli di mare, bastò il loro grido a precipizio su di me a farmi fiorire nel cuore un singhiozzo di bufera abortita, irragionevole gemito di bambino che si rigira nel sonno.

Era come in un turno di sentinella, fra siepi di nemici che aspettano, quando gli occhi si fanno pesanti, ma uno sa che se li chiude è la fine, benchè la luna gli si sciolga intorno in cipria di luce, in una mobile nebbia dove il corpo vorrebbe amorosamente affondare. 

"Basta, basta" dissi ad alta voce. "Devo tornare alla Rocca, il mio posto non è qui".

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.

 
 
 

DAL LIBRO: "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino - Sellerio Editore - le pagine più interessanti. 9^ PUBBLICAZ.

Post n°175 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da loredanafina1964

NONA PUBBLICAZIONE

Non era vero. O almeno non lo era più. Da quando quella ragazza m'aveva annunziato l'esistere, di occupare un irrisorio incavo d'aria in mezzo a noi, a pochi metri dalle mie braccia. Lei con le fossette del riso, e la tosse, e le valve segrete del sesso sotto la buccia della veste fanciullina. Un'esclusa, un'anima persa: giusto la socia che mi serviva. Una socia, sì. Perchè contro ogni creanza e verità io m'ostinavo a presumere d'avere tacitamente stretto patto con lei, e di possederne caparra nella radiografia trafugata che tenevo sotto il cuscino. Questa, mi bastava accarezzarla con un dito, la sera, e ne ricavavo un raggricciarsi agrodolce dei nervi, quale dà a taluno la setagloria di un parapioggia, se gli sfiora per caso i capelli. Al punto che quell'esile celluloide, contro cui s'era premuto con forza il suo petto, piuttosto che continuare a sembrarmi, come all'inizio, la tela filata da una tarantola scura, s'era venuta mutando, non meno che guato o stivaletto, in una sorta di inaudito feticcio amoroso....

Non durò molto così, le mie difese naturali si svegliarono; e al timore dell'irrisione, e ai rovi d'ogni genere che mi ributtavano dalla donna, s'aggiunse e vinse, il timore di come avrebbe fatto presto a spezzarsi un  vincolo che ai due capi tenessero due mani di così monca  e debole presa. Ripensai a un film di tanti anni prima, al sorridevole piagnisteo del suo titolo: Amanti senza domani. Rividi i due su un ponte di transatlantico: William Powell, lui, un losco galente che la sedia elettrica attende alla fine della traversata, e a cui gli sbirri di scorta consentono benevolmente di passeggiare senza manette; Kay Francis, lei, spacciata dai medici, che ogni sera, per scordarsene, indossa una pelliccia più bella. S'incontrano, e ognuno sa della condanna dell'altro, ma finge di non saperlo. E ballano insieme in un grande salone deserto, e si dicono parole sotto la luna.....

Facili lacrime mie di ragazzo, altera tenera Key! Chi avrebbe mai pensato che dovesse toccarmia mia volta, all'ombra degli stessi umidi salici, di danzare una stessa tresca d'amore e di morte, su un motivo di fiacca pianola?

In un soprassalto di ragione volli strapparmi a quel miele, chiesi di tornarmene a casa per qualche giorno. Non stavo peggio del solito, non tossivo, mi fu concesso.

Partii col primo treno del mattino ed ero contento. Avrei rivisto i miei, ritrovato la mia stanza, i miei libri, i viavai con gli amici, da mezzanotte alle due. Basta meno, talora, per togliersi dalla mente una donna.

Il mio paese: chi se ne ricordava più, o me n'era rimasto uno schiocco di tende strepitose come vele, e asini in amore, e in una figura di quadriglia una ragazza bruna, con una rosa.

Fu invece un luogo senza remissione, a cominciare dal plotone d'alberi rigidi sul viale della stazione, simili a fucilieri in attesa di un passeggero bendato, fino agli ossi di case sullo strapiombo marino, dove batteva la tramontana. "Non dovevo tornarci, ho sbagliato" mi resi conto, non appena dal finestrino ne scorsi fra due traori lo scorporato profilo.

Solo mi ritrovai sul marciapiedi, quando fui sceso dal convoglio in sosta, e solo m'incamminai verso casa, sempre più certo a mano a mano che, se anche arrivavo senza preavviso e dal mio espatrio tanto tempo era trascorso, mille nemici vi erano, scaltri, svegli, feroci, che mi aspettavano al varco. 

Sicuro, mille e mille ricordi mi facevano la posta, in veste di mendicanti o sicari, nè c'era verso di liberarsene. Davanti all'uscio dal noto colore, mentre la mia mano esitava, tenendo a mezz'aria un picchio di ferro imbrunito dal tempo, eccoli, prima l'uno, poi l'altro, poi tutti insieme: strabocchevole ciurma, le cui voci, insultando, supplicando, mi si rincorrevano nelle orecchie, sperando in una risposta che non sapevo trovare. 

Poi fra me e mio padre tutto quell'alterco da piangere: io che non voglio abbracciarlo, sfiorarlo con le mie labbra nocive: lui che insiste, mentre il mento gli s'infossa e nell'iride balena e si rintana un allarme di preda sorpresa.  Ma chi è ora quest'uomo canuto, nimuto, con una lisa maglietta appiccicata agli uncini delle scapole? Dov'è sepolto, con chi me lo hanno scambiato, il mio fuligginoso ciclope dalle risa di tuono? E' un vecchio che trema, costui, e ripete il mio nome, e mi spinge senza forza verso la mia stanza di studente. "Tutto è come prima" mormora. "Non abbiamo toccato nulla".

Certo, certo, tutto era come prima, non avevano toccato nulla: un nido di serpi, un pozzo di raccapriccio. Con ogni serpe al suo posto. C'è il calendario di allora, la chitarra, il letto di ferro. I tre sassi di calcare, scolpiti dall'aria, sulla scrivania che non ha smesso di gemere. In fondo a un cassetto, sempre quello, riempiti sino all'orlo d'un inflessibile inchiostro, senza guardare riconosco al tatto i miei sublimi quaderni di cadetto di Brienne. Quanto a lungo ho creduto in me, e quanto a torto, davanti a questo scrittoio di finta pelle, accanto a questa porta-finestra da cui si vede ancora la stessa piazzetta da niente, un fazzoletto di sole disabitato e fermo. Non c'è più l'alberello di acacia che vi cresceva, ma sempre le contrapposte panchine, lunghe quanto un corpo d'adolescente sdraiato.

Qui ogni sera due sorelle gemelle tornavano ridendo a scoprire in uno spacco di corteccia l'occhio di una civetta. Affacciandomi mettevo in rotta senza scampo le loro vesti di mussola rosa. Gli dissi parole d'amore, una volta. Dove sono ora, che turbine se l'è portate via?

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DAL LIBRO: "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino - Sellerio Ed.- le pagine più interessanti. 8^ PUBBLICAZ.

Post n°174 pubblicato il 30 Novembre 2014 da loredanafina1964

8^  PUBBLICAZIONE

I giorni dopo la morte del frate furono di fuoco. Ed io, sebbene per molti versi ci somigliamo, non riesco ad amare l'estate. E' un tempo di ulcere e sfregi, collerico, tracotante; il tempo che nuoce di più a chi sente avvicinarsi la fine e vorrebbe muoversi nella penombra di decenti omertà, con un ordine nei suoi pensieri, e il sangue in pace, finalmente. Mentre il mio sangue, quell'estate, non c'era briglia che lo tenesse, e me lo sentivo battere nelle vene secondo un tempo scorretto, ora furioso ora languido, allo stesso modo di quando si diventa ragazzi e piace spiarne, con un dito sulla carotide, le misteriose maree. Una nuova pubertà, più difficile della prima, m'aveva dunque sorpreso, o che altro volevano dire quei rintocchi di tamburo da cui si spargeva su ogni mio risveglio un familiare lezzo di finimondo? Scorrevano sul quadrante le ore, grani di lenta insostenibile luce. Inutilmente sperai un inciampo nel cammino delle stelle. Troppo netto si staccava l'azzurro sui doccioni della Rocca, con un solo falchetto lassù, e nessuno scudo di nuvola che stornasse l'avvento del giorno di Dio. Poichè c'è un giorno, uno solo, di luglio, nell'isola, che si snatura dagli altri e non si dimentica più. Gli altri erano soltanto estate, il belvedere color kaki di cui discorrono le cartoline. Ma questo, è l'esempio di una stagione che non esiste.

Comincia coi primi chiari dell'alba e si sentono attraverso il sonno i cani lamentarsi negli uliveti. Poi il sole sbocca dai tetti, grondante tuorlo, orrido mestruo del cielo. Il soffio che ne nasce non fa nemmeno sudare, ma stringe dentro un pugno il cuore, scaglia le rondini a rompersi contro la sciara, dovunque fa luminello, e le illude, un inesistente pulpito d'acqua. Ecco l'una, le due. Ora gorgoglia piano e si spegne la coda di vento che s'era levata dal mare, seminando sabbia africana in ogni piega della pelle e del suolo; accanto ai pozzi sono vuoti i secchi dove s'imbuca la vipera, sulle soglie i poveri dormono, e sembrano morti, con una pezza scura posata sopra le palpebre.

Alla Rocca non fu diverso, naturalmente. E il sindaco di Caccamo, che da un giornale invocava aiuto per un arrivo di cavallette, fece presto a parerci un faraone atterrito. Ma: "E' Ghibli di Tunisia" minimizzarono le suore, coraggiose nei soggoli di lana, passando fra letto e letto a deporre un fazzoletto bagnato sopra le tempie dei più sofferenti. "Si calmerà, vedrete. Domani staremo meglio". 

I malati annuivano, che potevano dire. Ma quelli che non avevano febbre scendevano in giardino, senza chiedere permesso a nessuno: stecchiti, a dorso nudo, per una disubbidienza o sgarro a chissà chi, avanzavano ansimando entro la ronzante caligine. Identici, certo, agli altri dell'anno prima e degli anni a venire: la stessa urgenza superflua dei gesti, le meraviglie di uno, stupido o giovane, e quelle bizze di circoscritti assediati in un fortino senza acqua, che si espongono sui merli e strillano, mentre il nemico dietro i palmizi se ne infischia, non spara nemmeno.

In quanto a me, che sarebbe servito imitarli? Meglio cercare di obbligarsi a uno stallo dei sentimenti, a una sorta di flemma o miopia, di fronte a tanta inimicizia del tempo, e all'oltranza di quelle morti che la calura disegnava in anticipo, smerigliando le sporgenze delle mandibole come sinopie di teschi. Dunque me ne restai sulla branda, quel giorno e quelli che seguirono, nudo sotto il lenzuolo, e ad occhi chiusi più spesso, ma a volte guardando le foto d'attori incollate alla parete di fronte e almanaccando fatti fra loro, una fandonia da piangere, implausibile come la mia. Poichè certo la mia storia era un'invenzione da c'era una volta, bastava addomentarsi per non crederci più e ristabilire l'equità della vita, al di qual del sipario. Sì, questo era il segreto: scappare dentro il sonno e allogarcisi dentro, farci nido dentro, come chi indossa un vecchio maglione. Fuori ne restassero gli altri, e la loro salute, le loro gengive rosse, i passi chè vanno non si sa dove e vogliono non si sa che. E smettesse una buona volta il cuore di suonare a martello, il metronomo della goccia di torturare nel lavandino la mosca cavallina a zampe in su, precipitata dalla cornice di porcellana. Insomma, che vogliono gli altri; la luce, che vuole? Io ho la mia parete, lì avanti, con una fandonia dipinta. E i miei sogni d'oro zecchino, prima di chiudere gli occhi. E il sonno, infine: sepolcro sprangato, placenta di madre antica, nave solare per andarmene come un re.

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.

 
 
 

dal libro "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino- Sellerio Ed. - Le pagine e le frasi più interessanti- 7^ PUBB.

Post n°173 pubblicato il 28 Novembre 2014 da loredanafina1964

La sera dopo, non seppi resistere, e chiesi al più giovane e sboccato dei miei compagni, a Luigi detto l'Allegro, o anche il Pascià di Patrasso, per via di una millantata sbornia d'amore in un postribolo greco, di lasciarmi scendere con lui di nascosto, dopo mezzanotte, in giardino. Aveva appuntamento, e non era la prima volta, con Adelina, una magretta già quasi salva, tribolata però da voglie che neanche il sono era capace di rabbonire. Si toccavano come potevano attraverso la grata di separazione, si dicevano frottole, indecenze, concertavano raggiri senza numero per incontrarsi fuori, la domenica. A costei volevo chiedere notizie di Marta, un'anagrafe quanto più meschina possibile, che la traesse dall'aria di miracolo di cui m'era parso naturale circondarla nel corso della mia imbambolata serata, e mediante qualche rivelazione di ticchi, calze smagliate e sudori me la facesse respirare accanto come una creatura di tutti i giorni. Poichè insomma, non s'accomodava con l'economia del mio tempo il prolungarsi di uno stato d'estasi e vitanuova, quando a me, al contrario, serviva solo un corpo da consumare subito, prima che il nostro vagone piombato si fermasse al deposito della stazione d'arrivo. E inoltre......inoltre io sono così fatto: rapidamente avvampo e rapidamente mi spengo. Spiando ogni volta con avidità nel ventre del fuoco il grigio nascosto della cenere futura. 

Così ora, riguardo a Marta. Mentre era appena alle prime battute il grande andante d'oro del mio innamoramento per lei, già dentro di me la desideravo refrattaria se non indegna, per prepararmi a disporre in anticipo i pretesti e gli svincoli della fuga di domani.

Ebbene, di quel che tacitamente speravo, l'Adelina, come se lo facesse apposta, mi diede soddisfazione sino alla feccia. 

"La Petacci, vuoi dire? Ma è una delle più fradicie" soffiò attraverso le borraccine e il fildiferro che di dividevano. "Non la curano quasi più, le lasciano fare quello che vuole, perfino ballare, l'hai visto".

"Di dov'è?" Chiesi. "Com'è finita alla Rocca? E perchè la chiamate così?"

"Non so bene," rispose " e lei parla a labbra strette, la principessa. Dicono ch'è una di su, e stava a Sondalo ma gli altri malati non ce l'hanno voluta. E che prima ballava alla Scala. A me pare una sciantosa. Del resto se ne dicono tante....".

La voce della giovane s'abbassò fino al sussurro, si tinse di un sorprendente pudore:

"Dicono di un capitano delle Esse Esse, di una villa sul lago. E cose peggiori. Certo i capelli le sono ricresciuti da poco sul capo rasato....".

Prosit, eccomi fin troppo servito. Due volte intoccabile, un record. Ero cascato bene a impressionarmene, io che per quelli dell'altra parte nutrivo fino a ieri, esclusivo come un amore, un livore da ragazzo, al di là di ogni condiscendenza, dubbio o perdono, al di là di ogni condiscendenza, dubbio o perdono. Non restava dunque che dire basta, passare la mano e via. E nondimeno, tanto si contraddice in me il garbuglio di sentimenti, proprio da quella sovrabbondanza di ragguagli ostili, in quel medesimo istante, quasi sotto l'irritazione di una frusta o di una brezza salata, cominciò a nascermi e a crescermi dentro una passione, non sembrandomi vero di aver trovato al posto di un elfo un uccello spennato e sozzo, e di poter mescolare alle indiscrezioni del desiderio un'oncia di incarognita pietà. E chi dunque avrebbe saputo ormai togliermi dalla mente, a dispetto d'ogni mio sotterfugio, quel luccichìo d'affralito sorriso, se sorriso era, mentre se n'andava?

Mi accomiatai, era tempo. Ma prima, e senza rimorso, acconsentii ai enocini dell'Allegro che con la mano e con lo sguardo m'indicava nella massicccia tenebra dell'Ala Sud un minuscolo ritaglio di finestra ancora illuminato, davanti a noi. Attraverso lo spioncino del fogliame, allargato a forza di braccia, non potei vedere gran cosa, un labile bagliore, non so se di carni o di vesti, ma abbastanza per risentire il solito mulino a vento del sangue e per dovermi appoggiare un momento al mio compagno che rideva. Poi lo lasciai con l'Adele, ai loro sfinimenti, rincasai attraverso un sèguito segreto di scale e usci di riserva, dalla lavanderia sino alla mia stanza, scivolando lungo le mezze luci dei corridoi, come nei libri si dice facciano i lestofanti d'albergo calzati con soprascarpe di feltro.

Da allora, divenne una favola, alla Rocca, il mio amore per Marta. Ne parlavo con tutti, chissà che m'aveva preso. Mi ridevano in faccia le ragazze in vestaglia che incrociavo sulla soglia del parlatorio, minacciandomi col dito; ci scherzava sopra il medico Vasquez, nell'atto di scribacchiarmi col lapis, come fiordalisi di Francia, i suoi circoli sul costato; una frase mi derse sul muro del cesso comune.......Solo il Gran Magro, mai una volta che tornasse a pronunziare quel nome. Però ora mi trattava da cliente, con burbanza e pedanteria; nè veniva più a trovarmi se non per la visita che mi doveva, come agli altri, nelle ore giuste; accompagnato da suore, assistenti, e guardandomi appena, con bulbi d'occhi gonfi come bubboni. Tutti segnali d'un ripicco e ingelosimento che in un uomo ironico non mi sapevo veramente spiegare. Non me ne turbai più che tanto, ma attribuii quel contegno agli scarti di un'indole zoppa, il cui fondo di funebre nevrastenia, sommosso dall'età, sobbolliva e sorgeva senza resistenza alla luce. D'altronde, dopo quell'incontro dietro le quinte, non avevo più rivisto la ballerina, contento abbastanza di pascere da solo, prima d'addormentarmi, uno svago della fantasia, in cui entrambi, guariti, ci baciavamo davanti a un mare. Non che mi trattenesse dal cercarla il pensiero del suo passato. Questo, me ne accorsi con meraviglia, non riusciva a ispirarmi che un blando orrore, profumato dalla lontananza. Come la notizia di un naufragio, in una vecchia bottiglia, a un solitario guardiano di faro. Che altro eravamo, del resto, alla Rocca, e non, ciascuno, un guardiano di faro scordato dagli uomini sopra uno scoglio di Mala Speranza?

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