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Il disegno criminale degli Illuminati (2)

Post n°44 pubblicato il 02 Maggio 2014 da myfriend.mi
 

24 aprile 2013: in Bangladesh crolla il Rana Plaza


La catastrofe del Rana Plaza (più di 1.100 morti e oltre 1000 feriti) ha risollevato le polemiche sull’industria dell’abbigliamento del Bangladesh che esporta in tutto il mondo grazie alla produzione low-cost. Il crollo del Rana Plaza, l’edificio di otto piani venuto giù come un castello di sabbia, dopo giorni di scricchiolii, crepe che si aprivano nei muri e ispezioni mal fatte, ha indignato il mondo intero.

I MARCHI COINVOLTI - Nel Rana Plaza si producevano, tra gli altri marchi, vestiti per Mango, per l’inglese Primark, per l’italiana Yes-Zee. Sul loro sito web le aziende che producono abiti 24 ore su 24, elencano tra i propri clienti noti brand tra cui Wal Mart, C&A, Kik (già noti per l’incendio nella fabbrica Tazreen, dove sono morti in novembre 2012 112 lavoratori; e, per quanto riguarda la tedesca KIK, per l’incendio della pakistana Ali Enterprises, dove quasi 300 lavoratori sono morti lo scorso settembre), oltre a Gap e l’italiana Benetton, che però ha negato il proprio coinvolgimento con un comunicato stampa ufficiale. I marchi della moda che portano la produzione in paesi, dove il costo del lavoro è infinitamente inferiore, la tassazione favorevole, i governi compiacenti, si trovano con le spalle al muro.

La lista dei marchi internazionali che si rifornivano direttamente o tramite agenti al Rana Plaza e alla Tazreen è lunga e comprende pezzi da novanta come Walmart, Mango, Benetton, C&A, El Corte Ingles, Kik, Walt Disney, oltre alle altre italiane Piazza Italia, Manifattura Corona e Yes Zee. Segno di una industria dinamica e in crescita che deve oggi la sua fortuna principalmente alle commesse estere e alla compressione dei costi, anche quelli della sicurezza. Ma la tragedia del Rana Plaza, l’ultima di una lunga serie in Bangladesh, è stata troppo grande per essere rapidamente cancellata.

Le vittime del Rana Plaza e della Tazreen attendono ancora un giusto risarcimento per la perdita dei propri cari, la sofferenza e il dolore vissuti, la perdita di reddito e lavoro. Per questo i sindacati internazionali hanno convocato un incontro a Ginevra lo scorso 11 e 12 settembre, alla presenza dell’ILO, ove discutere con le imprese coinvolte, la definizione di un meccanismo equo e trasparente per il risarcimento effettivo di tutte le vittime, senza alcuna distinzione. Si tratta di 54 milioni di euro per il dramma del Rana Plaza e di 4,3 milioni di euro per la Tazreen. Ad oggi nessuna delle imprese italiane coinvolte ha espresso la volontà di partecipare e contribuire al fondo negoziato e trasparente messo a punto a livello internazionale.

8 marzo, 25 aprile, 1 maggio: davvero tutte queste celebrazioni fanno parte del passato e sono, ormai, anacronistiche? Non siamo, forse, davanti a dei nuovi nazifascisti? A dei nuovi Lager o Gulag? Davvero questi bastardi vorrebbero farci credere che la soluzione alla crisi sta nello loro riforme?


Parliamo, dunque, di questi nuovi fascisti, che producono il cosiddetto “made in italy”. Che tolgono il lavoro alle famiglie italiane e che lo comprano a prezzi stracciati dal Bangladesh, dove comprano non solo il lavoro, ma anche la vita dei nuovi schiavi.
Mentre loro, i fascisti, vanno in giro col 4×4, hanno la barca che sfoggiano d’estate al club con gli amici, e vivono in ville-bunker perchè hanno paura di mostrare al mondo la loro faccia di merda.

United colors of Benetton

«L’industria paga i salari più bassi al mondo, ma non ha la decenza di assicurare la sicurezza di chi lavora per vestire mezzo mondo”, ha detto Brad Adams, direttore per la sezione asiatica dell’organizzazione Human Rights Watch. La paga mensile di un operaio è di circa 30 euro e l’industria tessile impiega 3 milioni di persone, in maggioranza donne. L’organizzazione accusa il ministero del Lavoro di Dacca di non fare controlli nelle fabbriche. «Non possiamo continuare ad assistere a un tale sacrificio di vite umane dovuto alla totale irresponsabilità di un sistema produttivo basato sulla competizione al ribasso» – afferma Deborah Lucchetti, referente della Campagna Abiti Puliti (la sezione italiana della Clean Clothes Campaign).

Queste cose avvengono all’estero. Ma gli imprenditori che manovrano i fili sono anche imprenditori italiani. Quegli imprenditori che delocalizzano la produzione in paesi in cui non ci sono diritti per i lavoratori e i lavoratori vengono usati come schiavi.
E non ci sono solo imprenditori. C’è tutto un sistema produttivo in Italia, fatto di impiegati e di catene di negozi, che prospera sullo sfruttamento degli schiavi.
E poi magari questi signori vanno in piazza l’8 marzo a omaggiare le donne. 

 

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