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Post N° 166

Post n°166 pubblicato il 08 Settembre 2007 da magicfantacalcio
 

Stasera valevole per le qualificazioni europei 2008 l'ennesima sfida Italia- Francia (bleah!). Ecco il "mitico" articolo di Francesco Merlo su Repubblica.it.

Da Bartali a Domenech
l'eterno derby italo-francese

di FRANCESCO MERLO
È vero che loro hanno Sarkozy e noi siamo ancora alla coppia Prodi-Berlusconi, ma è anche vero che noi abbiamo la Coppa e che dunque, come canta il solo chansonnier che ci invidiano, "le balle ancora gli girano". Soffrono infatti dell'antichissimo "complesso di Vercingetorige", che le buscò da gallo già gollista.

E forse aveva l'aria del testone da combattimento di Zidane piuttosto che quella del professore della Sorbonne che ha l'astioso Domenech, il quale ci ha insultati con gli stereotipi del finto intellettuale e con l'aspetto del finto allenatore. Di sicuro ai francesi "le balle ancora gli girano" dal 1938, quando Bartali, "il naso triste come una salita, la faccia allegra da italiano in gita", si aggiudicò il Tour; e quando gli azzurri proprio a Parigi vinsero per la seconda volta consecutiva il campionato del mondo di calcio, con lo scudo sabuado e il fascio littorio (ehm ehm) sul petto.

Già nella partita d'esordio a Marsiglia, gli azzurri furono accolti - raccontò il mitico allenatore Vittorio Pozzo - "con una bordata solenne e assordante di fischi, di insulti e di improperi" alla quale, per ordine di Mussolini, risposero scendendo in campo, proprio a Parigi contro la Francia, con un completo nero, e fu l'unica partita giocata in divisa fascista. Il Popolo d'Italia parlò di "una vittoria (tre a uno) in terra straniera, anzi in territorio ostile". Ma Vittorio Pozzo scrisse sulla Gazzetta: "Non sapeva, quella brava gente che ci fischiava, che noi facevamo dello sport e non della politica".


Consapevole o no, Vittorio Pozzo mentiva. Tra Italia e Francia non si può fare sport senza fare politica o, meglio, senza simulare uno scontro di civiltà. Al punto che persino Bartali, l'onesto Bartali, fu aggredito a calci e a schiaffi. Era il 1950 e il trentaseienne Bartali, già vincitore di due Tour, era di nuovo in testa con Magni. Ebbene, come benissimo ha raccontato ieri Gianni Mura, quando Bartali arrivò sul Col d'Auspin i precursori di Zidane e dello squalificato Domenech a bordo di una "due cavalli" gli tesero l'agguato al grido - pensate! - di imbroglione: non potevano tollerare che in Francia vincessero ancora gli italiani.

Non ci si meravigli dunque se è sempre una rivincita tra noi, che siamo una piccola Francia meridionale, un decentramento parigino sud orientale, e loro che sono la nostra Italia settentrionale, una protesi romana nord occidentale. È sempre rivincita perché siamo gemelli monovulari, noi e loro, bandiere diverse e nature uguali, come Zidane appunto, che è il gaglioffo francese di talento ("il a frappé, la France a adoré"), e Materazzi, che è il prototipo del mascalzone italiano: "Difensore, provocatore, cannoniere provvidenziale, tatuato, oleato, impomatato. E per giunta originario della Puglia...". E più che di Materazzi questa sembra la descrizione di Fabrizio Corona.

Siamo simili anche nella maniera di premiare i nostri gaglioffi e di litigare a colpi di stereotipi che sono sempre gli stessi: noi abbiamo Dante, Leonardo, la Ferrari, Armani e Renzo Piano che ha regalato alla Francia il Beaubourg, ma loro hanno un seggio permanente all'Onu, hanno insegnato al mondo le buone maniere e hanno avuto De Gaulle, e prima ancora Luigi XIV e anche Luigi XVI, e Richelieu e Mazzarino, e Carlo Magno, Pipino e la battaglia di Roncisvalle, la durlindana e i Paladini, e poi Voltaire, Montesquieu, Sartre, Camus e Brigitte Bardot.

Ma è vero che nessuno come i francesi sa sopravvalutare la vittoria, con quell'Arco di Trionfo sotto il quale fanno sfilare tutti i campioni vincitori, veri e falsi, Wehrmacht (ehm ehm) compresa. E difatti, il 14 giugno del 1940 i nazisti entrarono a "Parigi città aperta" con quell'ufficiale Hans Günther barone von Dincklage che fece perdutamente innamorare, nientemeno, Coco Chanel, raffinatissima antisemita e mito nazionale (ehm ehm).

Vera o finta che sia la vittoria, non esiste festeggiamento più sontuoso di quello che si mette in scena per le strade di Parigi. E nessuno come i francesi sa fingere di avere vinto. Anche quando perdono, specie se arrivano secondi, si ritengono comunque i vincitori morali, e inventano sempre qualcosa: un Materazzi, un'accusa di corruzione, un ripiego, un surrogato, una naumachia, che, sempre benedetta con autorità e saggezza dal Presidente, chiunque egli sia, permette loro di rifare Trafalgar e di togliere la vittoria a Nelson.

E anche adesso si sono preparati alla probabile sconfitta di stasera a San Siro, non solo con gli insulti dell'allenatore, che ci ha degradato da furbi a corruttori, e dunque ci ha messo fuori dal calcio, dove la furbizia è ancora gioco, è dribbling, mentre la corruzione è trucco, è infamia. I francesi stanno raccontando "les petites misères" italiane che "lavorano ai fianchi", dispetti che i blu avrebbero subito, dalla scelta del campo all'erba dello stadio, agli alberghi. I giornali alludono, ammiccano, giustificano il loro Domenech. Ieri il "Figaro" ha intervistato Materazzi e gli ha chiesto se è mai venuto in Francia dopo "il fattaccio" e si è meravigliato perché l'hanno fatto liberamente circolare. "Le Monde" di oggi titola: "Italie-France, l'art de la provocation". Il primato italiano, anche secondo Diarra, è fondato "un po' sulla provocazione e un po' sull'imbroglio".

C'è tuttavia un vero primato che è solo nostro e che nessuno, neppure i francesi che tanto ci somigliano, riusciranno mai a scalfire. Il punto è che se i francesi mostrano tutta la loro grandezza nelle finte vittorie, noi mostriamo tutta la nostra grandezza nelle vere sconfitte. Ci parve eroico il 4-1 che subimmo dal Brasile dopo l'epico scontro con la Germania nel 1968. E c'è nel nostro stemma nobiliare il pianto di Baresi sulla spalla di Arrigo Sacchi dopo avere sbagliato il rigore nella finale del '94, ancora contro il Brasile. E negli storici almanacchi del nostro calcio ancora celebriamo la grandiosa sconfitta che subimmo dagli inglesi nel 1936 - tre a due - con doppietta di Meazza, e uno dei nostri in campo con la testa sanguinante. Non solo gli inglesi erano allora imbattuti (e imbattibili), ma erano così snobisticamente sprezzanti da non partecipare neppure ai campionati del mondo. Perdemmo certo, ma quanti deliziosi sospiri per quel tre a due!

E quanto avevano pianto gli italiani per quel Dorando Pietri, pasticciere di Reggio Emilia, atleta tutto nervi alto un metro e cinquattotto, che alle Olimpiadi di Londra del 1908 tagliò per primo il traguardo della maratona, ma con l'aiuto pietoso, e alla fine non determinante, dei giudici di gara che lo avevano visto arrivare barcollante. Fu squalificato, ma la strepitosa sconfitta piacque molto più di una vittoria. In Italia lo chiamarono "il meraviglioso Pietri". La regina gli consegnò una coppa speciale "per non avere vinto". Lo scrittore Conan Doyle (l'autore di Sherlock Holmes) scrisse sul "Daily Mail": "La grande impresa dell'Italiano non potrà mai essere cancellata dagli archivi dello sport". Il musicista Irving compose per lui la struggente "Dorando". Chiamato in America, divenne un divo e riuscì persino ad arricchirsi, benissimo rappresentando tutti noi italiani che siamo una variazione dei latini: non ci illanguidisce "pro patria mori", morire per la patria, ma "pro patria vinci", per la patria essere vinti.

Questa è la differenza: noi siamo davvero orgogliosi di avere perso la seconda guerra mondiale che i francesi fanno vinta di avere vinto. Ci piace che Roma si sia fatta eroicamente saccheggiare da Brenno, le nostre guerre di Indipendenza sono tutte sonore batoste, amiamo gli eroi perdenti come quel matto di Enrico Toti che lancia le stampelle, cantiamo il vecchio frack, naufraghiamo dolcemente con Leopardi, gorgheggiamo con la Tosca "l'ora è fuggita e io muoio disperato", i nostri modelli sono i martiri cristiani, preferiamo Ettore ad Achille, e diventiamo sommi quando siamo in esilio come Dante, o quando decadiamo come il Gattopardo. Per noi la sconfitta è la porta bassa attraverso la quale devono passare i minori francescani per arrivare sino a Dio.

Ecco perché stasera a San Siro, italiani o francesi, vincitori o vinti, tutti ne usciremo bene. Entrambi infatti sappiamo benissimo rovesciare la frittata, utilizzando due modi opposti e complementari. Con un piccolo vantaggio a nostro favore che neppure Sarkozy riuscirà ad annettersi come ha fatto con Mario Monti e con Franco Bassanini: la coppa, comunque vada, non potranno più togliercela. Dunque, vedrete: le balle ancora gli gireranno.

(8 settembre 2007)

 
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