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Un Racconto

Post n°165 pubblicato il 07 Febbraio 2010 da maiden.casoria
 

Era vecchia, molto vecchia. Non saprei dire quanto, forse lo sembrava anche più di quanto lo fosse. Me ne ricordo il viso rugoso come una ragnatela ed i capelli raccolti a crocchia, su quel corpo tarchiato e abbondante e i passi piccoli piccoli su quelle gambe gracili sempre aiutate da un bastone di legno scuro, consumato e forse un tempo lucido. Era zitella: quindi non aveva figli, non aveva parenti, non aveva nessuno. Aveva avuto un solo fratello ma era già morto da anni. Lui era stato un sacerdote ed era stato quello che si dice un luminare, un topo da biblioteca piuttosto che un pescatore di anime e, a proposito di biblioteche nel tempo aveva accumulato volumi su volumi, alcuni molto pregiati, facendosene una sua, ragguardevole e abbastanza invidiata. Quando lui passò ad altra vita tutti quei libri non lo seguirono. Erano l’unica cosa che aveva avuto e l’unica cosa che lasciava su questa terra. Soprattutto erano tutto ciò che lasciò a quella sorella sola e che avanzava rassegnata verso la vecchiezza.

Di lei mi ricordo gli occhi chiari, vivi grigi (poi seppi della cataratta) e più di tutto la voce. Essa contrastava con tutto quel corpo: era una voce musicale, acuta, come strappata ad una donna giovane ed ansiosa dei giorni a venire. Eppure era del tutto curioso per una che non doveva parlare poi molto, destinata com’era a passare tutto il giorno con se stessa.

Come tutte le vecchie aveva molte storie da raccontare. Ne raccontava ogni volta ai bambini che passavano a trovarla. Ma con gli adulti stava zitta e di tutte quelle avventure taceva. Di quelle storie a me e agli altri bambini del quartiere ne aveva da raccontare molte. Essendo morte entrambe le mie nonne, che non andavo a trovare spesso, mi convinsi che un po’ lei doveva essere come erano state loro. Agli occhi dei bambini le vecchie sono tutte uguali. Presi ad andare a farle visita di frequente al pomeriggio. La trovavo sempre con le sue tazze di the fumante, con il filtro appena fuori dall’orlo e le fette di limone tagliate tutte uguali attorno, e i biscotti al burro che aveva fatto lei. Erano buoni i biscotti al burro: ancora oggi se li mangio mi ricordano la mia infanzia. Ho imparato a prepararli, adesso li faccio ai miei bambini. La trovavo sempre immersa in qualche lettura e circondata da tutti quei libri che dovevano essere stati una cospicua e soddisfacente eredità, evidentemente.

Però ce ne era uno, uno che stava sempre appoggiato sulla sua poltrona, una poltrona verde opaco sformata dal suo corpo. Erano poesie: “Ossi di seppia”. Tutto quello che sapevo io, invece, era che le poesie erano per Natale, che le seppie si mangiano e che non hanno gli ossi come le bistecche. Guardavo sempre quel titolo di soppiatto ma non lo dicevo mai che non sapevo proprio cosa fossero gli ossi di seppia. Forse lei dovette scovare i miei pensieri una volta o l’altra perché un certo giorno mi spiegò cos’erano ed io tornai a casa raccontando al mio papà che avevo imparato una cosa nuova che lui non mi aveva spiegato mai.

Tutte quelle storie, pensavo che fossero vere, che le avesse vissute davvero mentre gli adulti continuavano a dire a tutti i bambini che se le inventava perché erano decenni che non metteva piede fuori dalla porta.

Mi feci più grande, non più una bambinetta, e tutte quelle storie imparai a ritrovarle nei libri che leggevo io. A volte me li prestava lei.

Se ne è andata un giorno qualunque: la trovai io morta stecchita sulla sua poltrona verde opaco con gli occhiali spessi tra le dita, le mani poggiate sul grembo e la testa reclinata su di un lato. Al suo funerale piansi lacrimosi caldi e salati e mi vergognai in principio un po’ perché al funerale delle mie nonne non avevo pianto per niente: ero troppo intenta a stupirmi degli adulti che mi sembravano così a disagio con quella loro commozione scenografica. Da quel giorno non ci furono più storie per i bambini del quartiere.

Sono andata al cimitero qualche giorno fa, certo sono passati anni, con i miei bambini. Portavo un libro: “Ossi di seppia”. Lì lessi qualche poesia ad alta voce, con i miei piccoli che ascoltavano senza capire. Lasciai il libro adagiato accanto alla lapide: avevo pensato che doveva esserle mancato. Sulla strada per casa, una voce che sembrava me molto tempo prima: “Mamma, cosa sono gli ossi di seppia?”

Mariantonietta Milano

 
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