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Leggendo Bukowski – parte prima

Post n°169 pubblicato il 20 Febbraio 2010 da maiden.casoria
 

Lei insegnava letteratura nella mia scuola ed era giovane e piena di fascino e noi ragazzi non avevamo che quattordici anni e la paghetta del fine settimana in tasca e vivevamo tutti in quel paesino di campagna che contava più capre al pascolo che cristiani all’anagrafe ed ancora non avevamo proprio idea di quanto limitato fosse passare gli anni migliori in un posto così. Guardavamo solo i nostri padri, che avevano avuto vent’anni nel 1968 ma andavano da tutt’altra parte mentre tutti quelli della loro età andavano dietro alle canzoni dei Beatles, immaginandoci da adulti e sperando senza troppa convinzione di essere diversi da loro. Io mio padre non lo potevo neanche scrutare per biasimarlo e averlo a casa la sera per battibeccarci e ribellarmi alle sue regole. Caso strano in paese (al tempo fu uno scandalo che diede alla gente di che parlare per un pezzo), lui, un lunedì mattina di quando io ero molto piccolo, uscì presto per andare a lavoro e non era rincasato più. Avevo pochi ricordi confusi di quel momento, ma uno solo nitido: la mamma che piangeva rassegnata mentre metteva a posto le cose nell’armadio in camera sua e, trovando che alcuni indumenti di papà mancavano, quasi in silenzio sussurrava tra sé e sé: “Se n’è andato, se n’è andato”. Io gironzolavo attorno alla sua gonna. Perciò mio padre mancava ormai da molti anni, ma ogni volta che rientravo a casa e ritrovavo quella donna poco più che quarantenne che aveva già fatto i capelli bianchi, con il viso scavato quasi come quello di una vedova, gli occhi spenti e le mani callose, allora lo biasimavo comunque e montavo in collera con lui non perché aveva lasciato me che non potevo ricordarmi neanche di com’era quando c’era, ma perché aveva lasciato quella povera donna così: sperduta davanti alla avversità della vita. C’era mio fratello più grande che si impegnava a fare il padre con me e già portava i soldi a casa e io glielo lasciavo fare se aveva voglia di sentirsi responsabile. Aspettavo solo il giorno (sapendo che sarebbe arrivato) in cui si sarebbe accorto che invece non poteva continuare così e si sarebbe rimesso a fare il fratello, sia pur maggiore, ma sempre il fratello. Io andavo ancora a scuola e a scuola c’era lei. Aveva la stessa età della mamma ma si vedeva la vita diversa che aveva fatto, aveva gusto nel vestire, modi eleganti per noi inconsueti, gli occhi brillanti e tutta  quelle femminilità che alle ragazze faceva invidia e a noi ragazzi faceva girar la testa ogni volta che passava per il corridoio per andare da una classe all’altra. Era una di quelle a cui piaceva il suo mestiere, infatti non lo faceva per necessità: era sposata (aveva fatto quel che si dice un buon matrimonio) e non aveva figli a cui badare, non poteva averne, allora si dedicava ai suoi allievi. A me all’epoca non interessava molto la letteratura e in classe assumevo spesso un’espressione annoiata, ma me la cavavo. Alla fine di quell’anno, trovando che ben pochi di noi (per non dire nessuno) sapeva di letteratura un fico secco in più di quel che lei ci costringeva a studiare, regalò ad ognuno un libro diverso. A me toccò un romanzo di Bukowski di cui pareva entusiasta: all’interno aveva scritto qualche riga, firmata con le sue iniziali, in cui mi esortava un giorno ad aver dei sogni e scappare da lì. Mi sembrò un’allusione inopportuna e il libro a casa non lo tirai fuori, ma presi a leggerlo di nascosto e lo ebbi finito per l’inizio della scuola a settembre. Lo trovai appassionante, ma non mi convinse certo ad andarmene di casa: un altro uomo che lasciava la mamma non era proprio da mettere in programma. Nel mio futuro non c’era altro che quello che c’era stato per mio fratello, nient’altro che quello che c’era stato per tutti: finire la scuola, trovare lavoro e sistemarsi con una ragazza di lì. Diventare adulti.

Mariantonietta Milano

 
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