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« L’AvvelenataDonne e violenze »

Coi tacchi un po' insicuri sulla ghiaia

Post n°196 pubblicato il 04 Luglio 2010 da maiden.casoria
 

Pochi chilometri ancora. Pochi chilometri ancora e sarò lì, dove ho passato gli anni che dovrebbero esser stati i migliori, lì davanti a quel collegio che non sono mai riuscita a dimenticare e che si è incastrato dentro così tanto da avermi tolto tutto quello che la vita non mi aveva ancora sottratto, neanche il dado tirato in sorte per me non fosse stato già troppo basso. Ero una ragazzina che non mi somiglia: la donna che sono diventata è una sconosciuta che certo non ha il coraggio di prendere la penna tra le dita e fare i conti con il passato imprimendo l'inchiostro sulle pagine e che forse di fronte a quella ragazzina già vinta e mortificata non sarebbe capace di pietà se non sapesse che ha i suoi stessi occhi, solo accerchiati dai solchi impietosi scavati dalle rughe. Si, non proverebbe commiserazione o compassione se non sapesse che ha le stesse mani e lo stesso ventre e lo stesso naso e gli stessi fianchi e le stesse gambe e il seno che le è cresciuto allora. Solo che adesso ci sono tutti i vestiti costosi e i foulard griffati, i profumi eleganti e la biancheria di seta.

Questo viaggio da Roma fin qui è un impietoso scagliarsi di lame dritte nella pancia: la memoria non perdona e il gioco di soffocarla non mi riesce adesso, non mi può riuscire qui. Non ci sarà modo di far rischiarare il sereno con tutta questa nebbia che ha preso casa dentro. Eppure. Eppure c'è qualcosa di dolce. C'è qualche brandello di cielo che mi spinge fino a qui. Le dita che tamburellano nervose sul volante mi stanno dicendo che non ci andrò davanti al collegio. Quel posto non voglio vederlo mai più, non mi occorre arrivare fin lì. Terrò solo il bello, terrò solo qualcosa per me. E sarà il ricordo delle altre ragazze, loro che come me facevano la passeggiata sul lungomare la domenica con la speranza che fossero proprio loro che i ragazzi sui muretti stessero guardando. Non conta più che abbiano creduto che di tutte fossi io la spia, non conta più che mi abbiano talvolta tenuta in disparte per privilegi di sorta erroneamente supposti. Cosa ne sapevano loro che non c'erano lezioni di piano per me. Cosa ne sapevano loro che se ero sottratta allo studio era sempre per una faccenda. Che cosa ne sapevano loro dei sali da bagno e delle creme per le mani e delle mortificazioni che una come me quasi poteva scambiare per manifestazioni d'affetto. Cosa ne sanno loro che le orfane hanno sempre una ragione in più per un trattamento differenziato. Non bastava forse quel collegio, non bastava forse quella vecchia zia troppo egoista al posto di mamma e papà, non bastava forse che mia sorella cominciasse ad odiarmi allora?

Eccoci qui: tutte vecchiacce rispetto a quando ci siamo conosciute e abbiamo fatto un pezzo di vita insieme. Ma resteremo sempre le ragazze di allora, quelle che sono rimaste una nella memoria dell'altra, quelle che fumavano insieme di nascosto e poi complici si coprivano omertose le piccole disobbedienze. Eccomi qui: coi tacchi che sono un po' insicuri sulla ghiaia. E cosa dire?

Che faccio la giornalista.

Che, si, guadagno un sacco di soldi.

Che ho fatto feste da capogiro.

Che adesso sono gli altri a servire me.

Che non c'è mai stato un uomo da cui mi sia dovuta far comprare un abito.

Che ne ho amati tanti ma che non ne ho sposato nessuno io che sono rimasta quella che non ha mai imparato che cosa vuol dire famiglia, che non ha mai neanche rischiato di dare tutto quello che poteva.

Che non dovrei compatirmi: anche così ho avuto molto, tutto ciò per cui ho sudato.

Che ho scritto tanto ma non ho ancora la forza di raccontare la mia storia.

Che non ho figli – come voi – che mi rendano orgogliosa e nipotine – come voi – che si chiamano come me. Che una casa non la compro perché non so a chi lasciarla. Che non ci sono cari nelle foto che ho da mostrarvi. Che ogni gratificazione professionale, per quanto grande, non colmerà mai il vuoto di questa maledetta solitudine. Sotto sotto invidierò sempre un po' ognuna di voi: avete tutto quello che ho sempre desiderato di più e avuto mai. Certe cose a volte proprio non sono fatte per noi. Dovevo capirlo in quel collegio di non dovermici affannare: certe spiagge non le avrei raggiunte mai.

No, Sara, non piangere per questa vecchia amica: la commiserazione non è che la più umiliante delle consolazioni. Sara, non piangere per quella ragazzina che ha avuto meno di ognuna di voi. Perché, vedi, sono anch'io qua che tiro su col naso pregando che tutti questi chilometri siano serviti almeno a gettare l'ancora in un porto sicuro, ad aspettare le stelle nella notte di San Lorenzo, ad alleggerire questa valigia dai fardelli inutili. Ad alzare bandiera bianca. Che la guerra col passato abbia fine. Che io sia finalmente in grado di accettare i miei tempi andati. Che riesca a leccare da sola le mie ferite.

Non piangere.

Tornerò a Roma e, forse, questa volta riuscirò a scrivere la storia che ho sempre voluto, una storia che mi somiglia. La storia di una ragazzina che impara da sola a muovere i suoi passi nel mondo senza che nessuno le abbia insegnato mai come si fa a diventar grande e a tenere i tacchi saldi, anche nella ghiaia.

Mariantonietta Milano

 
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