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Leggendo Bukowski – parte seconda

Post n°175 pubblicato il 19 Aprile 2010 da maiden.casoria
 

Gli anni passarono e la sera c’erano i bar dove ci trovavamo tutti. Avevamo cominciato a bere e a fumare e a parlare di donne in modo diverso, più concreto. C’era una ragazza molto diversa dalle altre del paese, abituata a stare a contatto con i maschi e isolata un po’ dalle coetanee alle quali faceva un certo disagio. Era la figlia del proprietario del bar, l’unica figlia, spesso lo aiutava lì la sera. Era alta, ossuta, non portava il reggiseno sotto la maglietta, fumava e beveva pure, aveva i capelli e gli occhi  nerissimi, vivi. Fantasticavano tutti molto e dicevano anche di più, ma l’avevo osservata bene e non si può dire che l’avessi mai trovata in atteggiamenti equivoci con qualcuno. Solo che alle battute volgari rispondeva con battute ancora più volgari, facendo smettere i polli di fare i polli e distogliendoli da seccanti ed indesiderate proposte. Una sera mi servì una birra che non avevo ordinato, disse che era perché voleva essere gentile con chi era gentile con lei. Iniziammo una relazione, provai emozioni nuove, perdemmo la verginità insieme. Stavamo bene, ma non facevamo progetti. Dopo un po’ tutto riprese regolare e fu allora che mi ricordai del libro di Bukowski e del fatto di non avere progetti per il futuro, di essere insoddisfatto del presente, dei bar, della strada e di tutto il resto. Capii allora il senso della dedica. Decisi di andare via, la mamma piangeva ma sorrideva mentre mi scortava alla porta: non voleva che suo figlio finisse come tanti altri ragazzi ingabbiati nei ruoli che altri gli avevano scelto. Era una donna intelligente, voleva che facessi la cosa giusta per me.

Non tornai per molti anni, inviavo a casa lettere e di tento in tanto telefonavo. Abitavo in una città lontana, facevo lo scrittore. Mi sposai, ebbi dei bambini: ero sereno finalmente, mi prendevo cura di loro, amavo mia moglie. Tornai per far visita a mia madre, perché potessero conoscerla. Trovai che tutto era rimasto pressoché immutato e appena mettevo il piede fuori da quella che era stata casa mia per tanti anni mi veniva una gran tristezza, quasi una stizza. Avevo spesso il magone senza apparente motivo. Seppi della ragazza della mia prima volta, della brutta fine che aveva fatto. Seppi della sua disperazione, di tutti gli uomini che l’avevano delusa, di tutti quelli che non avevano saputo essere gentili.  Mi diceva sempre che avrebbe sposato un uomo gentile, invece non si era sposata, non aveva avuto figli, forse non aveva mai trovato qualcuno da amare davvero e non era mai stata davvero ricambiata. Niente uomini gentili per lei. Era morta a ventotto anni.

Tornai in città e ripresi la mia vita: ma tornavo sempre con la mente a quegli anni, alla scuola e a quella professoressa di letteratura, a mia mamma che aveva saputo fare la mamma, a quella ragazza che era morta come un fiore sciupato. Mi misi a scrivere un libro: decisi di raccontare di lei, di dedicarglielo. Forse avrebbe trovato una cosa del genere gentile: in fondo le dovevo ancora una birra. Dissero tutti che fu il mio capolavoro.

Mariantonietta Milano

 
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