Storia di Semret, ragazza eritrea di 17 anni fuggita dal suo
Paese e dal servizio di leva a vita con la traversata del
deserto del Sudan. Sognava l’Europa. Non ce l’ha fatta.
Semret era su uno dei barconi provenienti dalle coste africane,
intercettati il 7 maggio scorso dalla Guardia costiera italiana in
acque internazionali. È stata fatta salire sulla motovedetta e riportata
indietro, in ossequio ai "respingimenti" decretati dal ministro
dell’Interno Maroni. Ma che ne è stato dei respinti? Un volontario
italiano è riuscito a raggiungerla. E ha ascoltato la sua storia, una
di quelle che nessuno, da noi, vuole sentire. È l’avventura di una
piccola eritrea di 17 anni, cristiana, ultima di cinque figli.
I suoi fratelli maggiori sono stati costretti a prestare servizio militare
a tempo indeterminato. Non si fanno più sentire da anni e la famiglia
ha perso le speranze di rivederli. In Eritrea le cose funzionano così:
il Governo affigge un foglio nella piazza del paese con i nomi di
ragazzi e ragazze che devono presentarsi per la leva. Chi non lo fa
viene arrestato per renitenza. Molti giovani scappano appena leggono
il loro nome. Allora i soldati hanno preso l’abitudine di aspettarli
direttamente all’uscita di scuola.
Semret viene fatta salire su una jeep, ma salta giù insieme ad altri
studenti. Alcuni di loro si feriscono e vengono ripresi. Semret e due
amiche riescono a fuggire verso il Sudan. Lungo la strada una di loro
muore di stenti e la seppelliscono nella sabbia del deserto. Le due
superstiti raggiungono Khartoum dove lavorano come donne delle
pulizie, cercando di mettere da parte qualche soldo. La loro
speranza è l’Europa, di cui tutti parlano come della sola salvezza dai
mali dell’Africa. Nemmeno il Sudan, infatti, è un posto accogliente.
I profughi vivono in una zona della città dove è facile individuarli.
L’ambasciatore eritreo organizza retate per riportarli in patria, alla
guerra e alla morte. Appena Semret teme che scatti la trappola,
fugge su un container fino a Tripoli. Di quello che avviene nei campi
libici non vuole parlare, nemmeno con sé stessa. Dopo il dramma
dei campi, arriva il suo turno per salire su una carretta del mare.
Salpano dalla Libia, ma la notte incontrano le tre motovedette italiane
che li riportano indietro.
Nel porto di Tripoli, Semret viene avvicinata da un volontario italiano.
Non le era mai successo che qualcuno si interessasse alla sua
storia, alla sua vita. L’uomo l’ascolta, poi le chiede se vuole firmare
una carta, una lettera da presentare a Strasburgo. Non serve tanto
per lei, quanto per quelli che verranno dopo: ci vorranno mesi perché
l’Europa si muova. Semret dice di sì. Decidono di rivedersi nel centro
di raccolta tripolino. Il volontario riesce a entrare corrompendo una
delle guardie, e si presenta con i fogli delle procure. Raccoglie 24
firme e impronte digitali. Sono tutte di eritrei e somali. Chiede
insistentemente di Semret, ma lei sembra svanita nel nulla. Solo
una ragazza, forse la sua amica del cuore, sussurra una frase
frettolosa: «Appena è calato il sole è scappata, scavalcando le reti».
Ahmad Gianpiero Vincenzo
I DIRITTI NEGATI DEI RIFUGIATI POLITICI
Quando i guardiacoste e i finanzieri italiani hanno intercettato i profughi diretti a Lampedusa, avevano già l’ordine di riportarli indietro. Li hanno fatti salire sulle loro tre motovedette e li hanno contati. Era l’unica cosa che potevano fare: 187 uomini e 40 donne,di cui almeno tre in attesa. Alcuni dei marinai devono aver avuto ungroppo in gola a vedere i volti di quei disperati. Tante volte li avevano soccorsi, salvati dal mare grosso, dall’avaria delle carrette del mare,addirittura aggrappati alle reti per i tonni dopo un naufragio. La stessa Onu ha premiato i marinai italiani per il coraggio e l’umanità. Molti di loro sapevano che probabilmente stavano facendo qualcosa di sbagliato, ma dovevano obbedire agli ordini.In effetti, tra quei 227 migranti pescati nello Stretto di Sicilia, almeno 24 erano profughi provenienti dal Corno d’Africa, e come tali avevano diritto a chiedere asilo politico in Italia. L’articolo 4 delIV protocollo del 1963 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo impedisce i respingimenti collettivi, senza identificazione dei profughi, tanto più se avvengono verso Paesi come la Libia, che non hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e che permette violenze e torture nei suoi centri di detenzione. L’Unione forense per la tutela dei diritti dell’uomo, Ong italiana che lavora per diffondere la conoscenza e il rispetto dei diritti umani, in accordo con il Cir (Consiglio Italiano per i rifugiati), ha già inoltrato una lettera informativa alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. |
LA PARTE GIUSTA DEL MEDITERRANEO
Vivere a Nord del Mediterraneo è più facile. È la parte giusta, quelladei diritti acquisiti e della tranquillità, almeno apparente. Una condizione difficilmente migliorabile, che al più si può temere di perdere. Soprattutto perché nell’altra riva del mare, la parte meridionale, la stessa sopravvivenza sta diventando sempre di più un miraggio. Guerre, dittature, carestie, sfruttamento da parte di multinazionali stanno costringendo milioni di persone a lasciare leloro terre. Un flusso di disperati che cerca un modo per continuare a vivere, di scampare alle pallottole e ai colpi di macete. L’Africa è soprattutto la triste patria delle guerre dimenticate,come quella in Somalia. La responsabilità spesso è anche di quelli che abitano sulle altre sponde del mare. Nella primavera del 2006 le Corti islamiche, con l’appoggio della popolazione, avevano assunto il controllo politico di Mogadiscio, dopo 17 anni di guerra civile. All’inizio dell’anno successivo, l’intervento dell’Etiopia, appoggiata dagli Stati Uniti, rigettava il Paese nel caos. Nel 2007 si sono registrati quasi un milione di profughi. Ancora oggi Mogadiscio è zona di guerra. Solo nel maggio di quest’anno, altri 40 mila profughi si sono allontanati dalla regione, andando ad aggiungersialle migliaia che vagano per l’Africa. Alcuni di questi arrivano sulle coste del Nord Africa e vengono intercettati dai trafficanti di esseri umani, che gestiscono la tratta verso l’Europa. Chi ha qualche soldo da parte viene messo su di un barcone, per quelli senza averi, c’è il lavoro forzato e la prostituzione. |
Famiglia Cristiana n. 24 del 14-6-2009 - Ritorno all'inferno
Origine: www.stpauls.it