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Storia -3-

Post n°94 pubblicato il 06 Marzo 2011 da maniamicheass.vol
 

Regno di Vittorio Emanuele III (1900-1946)
L'anteguerra
Vittorio Emanuele III nacque a Napoli l'11 novembre 1869, figlio di Umberto I e di Margherita di Savoia. Nel 1896 sposò Elena di Montenegro e salì al trono nel 1900, quando il padre venne assassinato. Promotore di una politica riformatrice, sostenne l'azione politica di Giuseppe Zanardelli e Giovanni Giolitti. Si mostrò favorevole, nel 1911, all'invasione della Libia, preceduta da una grande campagna propagandistica.

Il periodo compreso tra il 1901 e il 1913 fu dominato dalla figura dello statista Giovanni Giolitti: la modernizzazione dello stato liberale, insieme con le prime riforme di carattere sociale, nate in un clima di positivo rapporto tra governo e settori moderati del socialismo, ne fu il tratto caratterizzante. Importanti furono le posizioni riformistiche prevalse tra le file del partito socialista, che posero in minoranza l’ala massimalista, fautrice di uno scontro sociale e politico senza mediazioni. La svolta nel partito socialista trovò giustificazione nella linea politica tenuta da Giolitti, che si caratterizzò per un nuovo atteggiamento di neutralità governativa nei conflitti di lavoro, lasciando che fossero risolti dalle parti in causa: industriali e operai. Ai governi presieduti da Giolitti risalgono le prime leggi speciali per lo sviluppo del Mezzogiorno, imperniate sul principio del credito agevolato alle imprese e riguardanti la Basilicata, la Calabria, la Sicilia, la Sardegna e Napoli: in quest’ultimo caso fu possibile ultimare rapidamente il centro siderurgico di Bagnoli.

Un altro importante progetto portò alla statalizzazione delle ferrovie approvata dal Parlamento nel 1905, che metteva l’Italia al passo con gli altri paesi europei in un settore essenziale allo sviluppo. Nel 1912 una legge per finanziare le pensioni di invalidità e di vecchiaia per i lavoratori inaugurava la moderna legislazione sociale in Italia. L’età giolittiana fu contrassegnata da una forte crescita economica che fece registrare notevoli tassi di sviluppo nel settore industriale, con conseguente aumento del reddito di molti italiani. Tuttavia, gli indici altrettanto elevati dell’emigrazione all’estero (circa 8 milioni di italiani lasciarono il paese in dieci anni) confermavano i radicati squilibri tra nord e sud e tra città e campagna. L'Italia, alleata con la Germania, le cui ambizioni coloniali erano osteggiate da Gran Bretagna e Francia, trovò il pretesto per agire al di fuori dei vincoli della Triplice Alleanza (Germania, Italia, Austria-Ungheria). Favorevoli alla campagna furono i grandi gruppi finanziari, come il Banco di Roma e la Banca Commerciale, ed esponenti della corrente nazionalista. Contrari erano i socialisti e alcuni rappresentanti del movimento democratico. Per la dichiarazione di guerra alla Turchia, avanzata il 29 settembre 1911, il Primo Ministro Giovanni Giolitti e il Ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano violarono l'articolo 5 dello Statuto Albertino, che prevedeva che le dichiarazioni di guerra dovessero venir approvate dal parlamento.

I 100 000 uomini del generale Carlo Caneva occuparono Cirenaica e Tripolitania in ottobre, dichiarandole territorio italiano il 5 novembre. Nel maggio 1912 truppe italiane agli ordini del generale Giovanni Ameglio occuparono Rodi e il Dodecaneso. La Turchia, incapace di rispondere efficacemente alle manovre italiane, accettò i termini stabiliti nella pace di Losanna ( 18 ottobre 1912), in cui si stabiliva che l'Italia doveva ritirare le truppe dalle isole egee, mentre la Turchia cedeva la Libia al Governo italiano. Dato che la Turchia si rifiutava di cedere la Libia, l'Italia non ritirò il contingente dal Dodecaneso, dove rimase invece per tutta la durata della prima guerra mondiale. Nel 1923 il Trattato di Losanna assegnava ufficialmente il Dodecaneso e Rodi all'Italia, e sarebbero rimaste sua colonia fino al 1945.

Nel 1915, Vittorio Emanuele III si dimostrò ancora una volta favorevole all'entrata in guerra a fianco di Gran Bretagna, Francia e Russia. Allo scoppio della prima guerra mondiale, si recò personalmente al quartier generale in Veneto, anche se il comando era tenuto da Luigi Cadorna, lasciando la luogotenenza del Regno allo zio Tommaso, duca di Genova. Fino al 1917 la situazione del fronte era stabile, con pochissime conquiste e decine di migliaia di vittime da entrambi i lati. Ma nell'ottobre del 1917 una forte scossa alla guerra sul fronte italiano: la disfatta di Caporetto. Per l'organizzazione politica e militare italiana fu una rivoluzione: il Comando dell'esercito venne affidato ad Armando Diaz (il “Duca della Vittoria”) e il Governo presieduto da Paolo Boselli fu costretto alle dimissioni. Verrà subito sostituito da Vittorio Emanuele Orlando, che poi parteciperà alla Conferenza di Pace di Parigi, grazie al quale l'Italia ottenne il Trentino-Alto Adige, Trieste, Gorizia, l'Istria, Zara e le isole del Carnaro, di Lagosta, di Cazza e di Pelagosa.

                   Il regno tra le due guerre mondiali
In Italia il ritorno alla pace mise allo scoperto le fragilità del sistema economico, chiamato alla riconversione dalla produzione bellica a quella civile: debito pubblico alle stelle, inflazione e disoccupazione erano le eredità del conflitto. Nell’opinione pubblica si insinuò il mito della “vittoria mutilata” allorché alla conferenza di pace fu negata all’Italia la cessione della Dalmazia e di Fiume, in base al principio dell’autodeterminazione dei popoli. A nulla servì il gesto di rottura compiuto dai ministri plenipotenziari, Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, i quali nell’aprile del 1919 abbandonarono per protesta la Conferenza di Parigi, salvo farvi ritorno poco dopo per la firma dei trattati conclusivi, nei quali venivano riconosciuti all’Italia Trento, Trieste e l’Istria. In un clima di delusione ebbero buon gioco i nazionalisti a fare sentire la loro protesta e ad applaudire l’occupazione di Fiume effettuata nel settembre del 1919 dai volontari guidati dal poeta Gabriele d’Annunzio e fiancheggiati da truppe sediziose dell’esercito.

 

A partire dal 1919 gli operai nelle fabbriche e i braccianti nelle campagne scesero in sciopero per rivendicare aumenti salariali e migliori condizioni di vita; ma agiva in loro anche il richiamo alla rivoluzione socialista, sull’esempio di quella in atto nella Russia di Lenin. Il movimento popolare, indirizzato dai sindacati e dal Partito socialista, mancò di una chiara linea di conduzione perché venne disorientato dalle divisioni all’interno della sinistra, in particolare dallo scontro tra massimalisti e riformisti. Raggiunse l’acme con l’occupazione delle fabbriche del Nord (1920), per poi declinare rapidamente. Intanto in quegli anni si affacciarono nuove formazioni politiche, espressione di ideologie moderne. Nel 1919 fu fondato dal sacerdote Luigi Sturzo il Partito popolare italiano, sotto gli auspici della Chiesa. Lo stesso anno vide venire alla luce il movimento fascista, nato per iniziativa di Benito Mussolini come forza extraparlamentare col nome di Fasci italiani di combattimento, in difesa degli ideali nazionalistici e con un radicalismo antisocialista; esso si rivolgeva soprattutto agli ex combattenti e ai ceti medi, facendo leva sulla paura di una rivoluzione comunista. Nel 1921 da una scissione in seno al partito socialista nacque il Partito comunista d’Italia: Antonio Gramsci ne era il leader teorico.

Nelle istituzioni si riflettevano le tensioni presenti nella società. Nel giugno del 1920 fece ritorno alla presidenza del consiglio Giolitti, che per esperienza e prestigio si pensava potesse comporre i contrasti politici. Egli risolse la questione di Fiume, firmando con la Iugoslavia il trattato di Rapallo (12 novembre 1920), che riconosceva all’Italia Zara e le isole di Cherso, Lussino, Zara, Lagosta e Cazza, e faceva di Fiume una città libera: tale sarebbe rimasta fino al 1924, anno in cui, con il trattato di Roma, passò sotto la sovranità italiana. Le difficoltà per Giolitti vennero dalla situazione interna, perché cresceva nei ceti medi e nei possidenti, allarmati dalle vittorie socialiste alle elezioni amministrative, l’attesa di una risposta autoritaria, mentre l’opinione moderata era turbata dal disordine e dalle violenze generate ai margini del movimento operaio da quanti speravano di innescare una situazione rivoluzionaria, a somiglianza di quanto era da poco accaduto in Russia.

Il 18 settembre 1920, grazie ad un accordo italo-albanese (accordo di Tirana del 2 agosto 1920, in cambio delle pretese italiane su Valona) e ad un accordo con la Grecia, l'isola di Saseno entrò a far parte dell'Italia, la quale la voleva per la sua posizione strategica all'imbocco del Mare Adriatico.

Esauritosi il cosiddetto Biennio rosso (1919-1920) delle lotte operaie e contadine, la reazione dei ceti medi, degli agrari e degli industriali si indirizzò verso il movimento fascista, le cui violenze vennero ottusamente assolte come premessa a un auspicato “ritorno all’ordine”. Mussolini riuscì così a catalizzare sia le frustrazioni della piccola borghesia, disposta persino all’uso della violenza, sia lo spirito di rivalsa diffuso tra i grandi detentori di ricchezze, gli agrari in primo luogo. Iniziarono allora le violenze delle squadre di volontari fascisti, le camicie nere, contro le sedi e gli uomini del movimento operaio e socialista. Nelle elezioni politiche del 1921 il Partito nazionale fascista, fondato in quell’anno, ottenne 35 deputati, un numero ancora inferiore a quello dei socialisti ma sufficiente a segnare la sconfitta dei partiti democratici, tra loro profondamente divisi.

Nell’ottobre del 1922 Mussolini chiamò a raccolta i suoi uomini e li organizzò in formazioni di carattere militare, a capo delle quali mise un quadrumvirato composto da Italo Balbo, Cesare De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi. Il 27 ottobre del 1922 le camicie nere si raccolsero in diverse parti d’Italia per dirigersi su Roma (marcia su Roma del 28 ottobre) e chiedere le dimissioni del governo presieduto da Luigi Facta. Questi si rivolse al re perché proclamasse lo stato d’assedio e sciogliesse la manifestazione. Ma Vittorio Emanuele III si oppose e affidò a Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo. In questo modo, Mussolini andò al governo a capo di una coalizione di liberali e popolari,che ottenne la maggioranza nel voto parlamentare.

Alla vigilia dell'inizio del Ventennio, Vittorio Emanuele III assunse una posizione incerta al profilarsi dell'era fascista. Nel 1922, in occasione della marcia su Roma, si rifiutò di firmare lo stato d'assedio, e conferì a Benito Mussolini l'incarico di formare un nuovo Governo. Con l'avvento del Ventennio Mussolini dominò fino al 1943 la scena politica italiana, prendendo ogni decisione da solo senza alcuna opposizione. Nel 1936 Vittorio Emanuele III, oltre a quello di Re d'Italia e Principe di Napoli, assunse il titolo di Imperatore d'Etiopia, con la campagna del generale Rodolfo Graziani che conquistò l'Abissinia con la totale noncuranza delle sanzioni economiche, e nel 1939 quello di Re d'Albania.

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