Le cose nascoste.

La Grande Bellezza


Ieri sera ho visto La Grande Bellezza. Uno sforzo sovrumano, perché dopo un decina di minuti avevo già capito tutto e la voglia di cambiare canale era tanta. Ma avevo fatto una promessa. Parto subito dal regista, che dice d’essersi ispirato a Fellini: La Grande Bellezza sta a La Dolce Vita e a Otto E Mezzo come 4 salti in padella Findus stanno a un piatto di spaghetti alle vongole veraci. E tra l’altro a me Fellini neanche piace molto. Ma tutto sommato a lui quando parte per la tangente lo puoi perdonare, qualcosa ha pure dato al cinema italiano. La Grande Bellezza è un film mediocre sulla mediocrità. Dicono che è profondo. Sì, profondo per quelli che hanno uno spessore culturale che va dal Medico in Famiglia ai Cesaroni. È un film girato a Roma ma sembra ambientato a Milano, la Milano da bere, dei Craxi con nani e ballerine, solo che qui sono nane e spogliarelliste che ti viene voglia di dire: svegliati Sorrentino sono passati trent’anni. Altro che Fellini, il vero ispiratore e non si capisce perché non l’abbia ringraziato è il D’Agostino della Roma Godona, del trash. Ecco. A proposito di trash anche la Ferilli avrebbe meritato un Oscar come una delle peggiori interpretazioni di tutto il film, e non bastano un paio di primi piani sulle cosce prosciuttesche e culo botulinico a salvarla dalla catastrofe. Recita meglio quando vende i divani. C’è questo Jap Gabardelli o un nome simile che mezzo secolo prima ha scritto un libro di successo e poi non ha fatto più una mazza nella vita a parte scrivere articoletti sulle cartomanti per una rivista, che non si sa come fa a permettersi un attico e superattico con terrazza olimpionica vista Colosseo, roba da 150mila euro a metro quadro, che forse all’epoca aveva venduto qualche miliardo di copie e va avanti con le royalties o gli pagano gli articoli a botte di chili d’oro a parola. Questo per dire la profondità della sceneggiatura. Dicono: ma gli americani gli hanno dato l’Oscar. E ti credo, dopo Vacanze Romane agli americani gli fai vedere una Roma notturna da cartolina e loro sono contenti. Un Oscar non lo negano a nessuno, a parte a DiCaprio. Il loro peggiore regista è meglio del nostro miglior regista. Si intitola La Grande Bellezza, ma poteva benissimo intitolarsi Il Fascino Discreto della Sinistra. A Veltroni e Franceschini sarà sicuramente piaciuto. Solo che Bunuel era nel suo tempo, Sorrentino arriva tardi. 35 anni fa (forse 45) magari sarebbe stato un film d’avanguardia, ma questo film lo hanno già fatto. Mi viene da pensare al Ken Loach di Terra E Libertà. Un bel film se l’avesse girato 20 anni prima. Se mi fai vedere le cose quando sono già avvenute non mi dici niente di nuovo. Come Sorrentino. Che ci ha pure inzeppato un po’ di Jodorowsky e di Arrabal, e mettici pure un paio di scene alla Eyes Wide Shut tanto per dargli quel pizzico di simbolismo intellettualoide che ha fatto gridare alla profondità culturale i cultori di Ho Sposato Uno Sbirro, che adesso si sono precipitati a vederlo perché quando uscì un anno fa avrà avuto sì e no 12 spettatori. È tutto un già visto, un deja vu, e non serve chiamarle citazioni. Dura un paio d’ore, ma se t’addormenti una mezz’ora o per un’oretta non ti sei perso granché. A un certo punto avresti voglia di dire, dai, Sorrentino rilassati, lascia che Verdone e Buccirosso sparino qualche cazzata che ci divertiamo di più. Tutto il resto è noia, come direbbe il Califfo. La parte migliore sono i titoli di coda. Musica adeguata mentre una barca scivola molle sul Tevere e Roma s’affaccia dai muraglioni. L’Oscar glielo hanno dato per quei due minuti.