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Il burocratese? Peggio del dialetto

Post n°3 pubblicato il 30 Luglio 2012 da mluccis
Foto di mluccis

Corriere della Sera – Bergamo, 4 marzo 2012

La lettera

Il burocratese? Peggio del dialetto

Michele Luccisano spiega come il linguaggio della pubblica amministrazione spesso sia concepito per non far capire nulla al cittadino

 

Il dibattito sul dialetto, che il Corriere di Bergamo ha fatto bene a proporre, mi ha sollecitato una riflessione sul linguaggio della pubblica amministrazione. Su quello parlato e scritto da chi continua a rimanere dietro lo sportello, al pari di quello usato nei siti internet ufficiali. Un linguaggio che, così com'è, continua a dividere lasciando sovente sudditi i cittadini comuni, e che il più delle volte risulta loro incomprensibile. E per cittadino comune intendo in questo caso sia chi non ha fatto le «scuole alte» che i laureati.
Davanti a una ordinanza italiana sarebbe in difficoltà finanche Einstein. I primi tentativi di semplificazione del linguaggio della pubblica amministrazione risalgono agli anni '90: il Codice di stile fu pubblicato dal Dipartimento della funzione pubblica nel 1993, per volontà del ministro Cassese. Finanche l'autorevolissima Accademia della Crusca si è impegnata in un progetto di semplificazione del linguaggio burocratico.

Ma chi si scontra ancora oggi con i testi scritti della pubblica amministrazione, è indotto a pensare che nulla sia cambiato.
Andate con un clic sul sito internet di qualsiasi pubblica amministrazione e consultate le pagine dei decreti, delle ordinanze, delle deliberazioni. Rafforzerete la consapevolezza di un linguaggio che non solo non comunica, non vi fa capire, ma che è pure lungo e superfluo mediamente per tre quarti. Sono esclusi solo alcuni rari esempi di amministrazioni virtuose.
L'incomprensibilità, per il cittadino comune, delle leggi si ripete a cascata fino al più semplice dei provvedimenti di un dirigente di qualsiasi comune. Una sequela infinita di «premesso», «visto», «considerato», «ritenuto», «dato atto», anticipa una altrettanto infinita elencazione di articoli, commi, capoversi, lettere di norme di più disparata provenienza e specie. Poi, alla fine, magari dopo quattro - cinque pagine che uccidono, si arriva al corpo vero, al «delibera», «determina», «decreta», «ordina», «dispone», dove è espressa la volontà (il cosiddetto dispositivo). E spesso si tratta di qualcosa che cambia cose e interessi che ci riguardano, personalmente o come cittadini.
Basterebbe poco per migliorare la vita a chi legge e a chi scrive: riscrivere i provvedimenti avendo cura soltanto di indicare - già all'inizio! - cosa si è deciso (il dispositivo). E aggiungere subito dopo il perché (le motivazioni), chiudendo con le altre informazioni.

Mi piacerebbe immaginare che la provincia di Bergamo, che conta già qualche pratica di buona amministrazione anche nello specifico, possa essere infettata positivamente dall'uso di un linguaggio burocratico più rispettoso del cittadino. Che l'abitudine a scrivere chiaro possa diventare patrimonio comune alle sue tante pubbliche amministrazioni. Che anche per questa via, la provincia possa divenire esempio da seguire. Un lavoro che può essere fatto senza spendere nemmeno un centesimo di consulenze esterne, utilizzando il personale di cui già si dispone negli organici e in poco tempo: scrivere così come parliamo normalmente ogni giorno con la volontà di farci capire. Consapevoli che semplificare non è banalizzare.

 

Michele Luccisano

 
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