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L'inglese obbligatorio nelle università italiane

Post n°7 pubblicato il 03 Agosto 2012 da mluccis
Foto di mluccis

Si fa un gran parlare in questi giorni pro o contro la proposta di rendere obbligatorio l’uso della lingua inglese nelle nostre università, almeno a partire dal terzo anno di corso. Il che significherebbe sostanzialmente didattica ed esami in inglese, in un meraviglioso coinvolgimento di docenti e discenti.

 

Come è usuale fra noi, anche su questo tema ci si sta dividendo “a prescindere”, senza guardare alla sostanza della questione. Con un’ostilità che ha indotto qualcuno a ricorrere ad un Tar contro la decisione di un Consiglio accademico di aprire all’inglese.

 

Chi nega l’utilità di questa innovazione, magari in nome della difesa della lingua nostrana che – si assume – sarebbe così destinata alla morte, dimentica alcune cose non di modesta importanza.

 

La prima cosa è che nel mondo del lavoro, dell’economia, della ricerca, dei commerci, della produzione e delle relazioni internazionali, che lo si voglia o no la lingua inglese è quella che si è imposta più di qualsiasi altra.

Questo non significa che nei cinque continenti sono in maggioranza i popoli che hanno come lingua ufficiale l’inglese. È vero però che sono in maggioranza quanti preferiscono l’inglese (o sono costretti ad usarlo) per scrivere, parlare e comprendersi con il resto del mondo.

 

È questa una cosa di tutta evidenza sulla quale non mi pare sia il caso di discutere più di tanto.

 

La seconda cosa che i contrari a questa novità fingono di non sapere (o davvero non sanno), è che la specialità di una lingua si è sempre imposta nella storia delle relazioni internazionali, nell’economia, nei commerci e negli studi, ad esempio. Un tempo è toccato al latino, un tempo al greco, un tempo al francese, in alcuni campi al tedesco, più marcatamente da ultimo all’inglese.

 

Non è una novità, cioè, che la semplificazione dei rapporti abbia imposto a uomini e donne di paesi diversi di dialogare e rapportarsi in una lingua per lo più diversa da quella d’origine: cioè la lingua che si è imposta (ha vinto) per la migliore capacità di essere compresa dalla maggioranza.

 

Se poi si parla di semplificazione, non v’è dubbio che l’inglese si sia imposto come lingua internazionale anche per via della semplicità delle sue regole di base. Diversamente dalla regole grammaticali, di logica e di sintassi della lingua italiana o francese, è evidente che la lingua inglese si sostanzi per essere più “povera”, e proprio per questo più semplice da entrare in zucca a tutti e in minor tempo.

 

L’ultima cosa che voglio rammentare agli “ostili”, è che i nostri giovani sono oggi in grado di lavorare, dialogare, scrivere e comprendersi usando anche più di una lingua. Voglio dire che non è affatto vero che costringere i nostri studenti universitari a studiare e sostenere gli esami in inglese, equivalga a far loro dimenticare la lingua d’origine. Sono diversi – e migliori - da come eravamo noi alla loro età. Se non altro perché i cambiamenti e lo sviluppo a cui abbiamo assistito in questi anni nel passaggio tra la loro e la nostra generazione, non s’erano mai verificati nella storia dei popoli.

 

Un ricordo personale che mi rende convinto sostenitore dell’obbligatorietà della lingua inglese nella didattica delle nostre università è collegato ad un mio viaggio a Ginevra. Qualche anno fa vi ero andato a trovare uno dei miei due figli che aveva avuto l’opportunità di svolgere in quella città, davvero e da sempre internazionale, un’esperienza di lavoro subito dopo la conclusione dei suoi studi universitari. Eravamo a casa della famiglia presso cui aveva trovato alloggio, i signori Duval, padre, madre e figlio coetaneo più o meno del mio. Nel salotto di casa di questi squisitissimi ospiti, mi era stato offerto un caffè e si parlava soprattutto d’Italia, una terra che i signori Duval conoscevano e amavano. O, meglio, mio figlio dialogava con i signori Duval (in francese con i genitori e in inglese con il figlio) e poi traduceva per me e viceversa.

 

Ebbi in quei momenti, e forte, la consapevolezza della mia somma ignoranza in fatto di lingue straniere. Un’ignoranza comune a quelli della mia età costretti ad una educazione scolastica superiore ed universitaria assolutamente inadeguata per quanto riguarda le lingue.

Ma durante quel pomeriggio ginevrino ebbi pure la soddisfazione di misurare l’importanza della possibilità che io e mia moglie avevamo avuto offrendo a mio figlio l’opportunità di studiare altre due o tre lingue oltre quella italiana. E ciò fino al punto di dargli la capacità di affrontare con sicurezza dialoghi, letture e scritture in inglese e francese, ad esempio.

E non è che lo studio di queste lingue gli abbia fatto dimenticare la lingua d’origine, quella italiana, che anzi conosce sicuramente meglio di me.

 

Michele Luccisano

3 agosto 2012

 
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