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Due amorevoli signore si sono affrontate su posizioni opposte per 30 anni (trenta!), dal 1982 ad oggi, nelle aule di tutti i tribunali dei tre gradi previsti ancora in Italia per il giudizio civile. L’oggetto del contendere? La giusta distanza di un albero (uno!) di limoni cresciuto tra le loro proprietà.
La Cassazione ha chiuso la questione dopo 30 anni dalla prima sentenza condannando la proprietaria dell’albero a tagliarne i rami prospicienti la proprietà dell’altra signora ad altezza superiore al muro costruito sul confine.
30 anni, cioè tutto il tempo di veder nascere, crescere, portare all’altare una figlia e grazie a lei diventare nonno. Con tutti i patimenti e le gioie che vi si collegano.
Due vite trascorse in attesa della fine di una causa che ha favorito solo gli avvocati che hanno coltivato le ragioni delle contendenti. E che è costata ai contribuenti una cifra certo considerevole, che non è possibile quantificare solo per l’incapacità di misurare che è nel dna del sistema giudiziario italiano.
Pensate quanto ci è costato il lavoro di giudici, cancellieri, impiegati e ufficiali giudiziari che si sono avvicendati su questo caso. E quanti fascicoli sono stati riempiti. Tutto questo per . . . alcuni rami di un albero di limoni.
E, soprattutto, pensate a quanti sono i casi come questi che avvocati solerti e interessati portano fino ai giudici con l’ermellino.
Ecco, l’inefficienza della giustizia italiana è causata anche dalla gran quantità di controversie uguali a quelle delle due amorevoli vicine di casa. Una giustizia che è governata da codici fatti e riformati per non giungere alla definizione dei giudizi, o per giungervi dopo 30 anni, da un parlamento occupato massicciamente da onorevoli avvocati ed ex giudici.
Le cause civili pendenti superano ormai i 6 milioni. I relativi fascicoli occuperebbero una superficie pari a 74 campi di calcio di serie A. E’ stato calcolato che in termini economici questa montagna di carta equivale a 96 milioni di euro di mancata ricchezza. E che l’abbattimento di solo il 10% dei tempi della giustizia civile potrebbe determinare un incremento dello 0,8% del prodotto interno lordo.
Non c’è un sistema per evitare situazioni del genere a causa delle quali già ora le persone normali e di buon senso, se vittime di un torto, fatti due conti preferiscono rinunciare alla giustizia?
La Ministro Severino si sta impegnando in tale direzione cercando di superare gli ostacoli della lobby dei suoi colleghi avvocati, molto forte sia al Senato che alla Camera. E nei fatti ostile a novità che pregiudichino consolidate rendite di posizione.
Una delle virtù essenziali di innovatori e riformisti è di prendere atto delle situazioni di contesto in cui lievitano patologie come quella della giustizia italiana. Se così è, innovatori e riformisti non possono sottovalutare la gravità del male da curare, il danno che produce e gli ostacoli che incontrano sul loro cammino. Ma non devono nemmeno trascurare che in alcuni casi l’elemento tempo è quello decisivo per la buona cura. E che le cure che suggeriranno saranno efficaci quanto più in fretta aggrediranno il male e lo estirperanno. Anche a rischio di qualche cicatrice.
Per una patologia come quella della giustizia non servono i pannicelli caldi o i piccoli passi magari concertati. Occorrono decisioni da chirurgo coraggioso.
Quale soluzione? La più semplice, quella cioè che estirpi il male dal sistema impedendo che si producano altre cellule malate. Non è sufficiente una fase antecedente al giudizio nella quale il giudice valuti la fondatezza del ricorso. Occorre invece concedergli il dovere di valutare, numeri di contesto alla mano, l’economicità – per ricorrente e resistente, ma anche per lo Stato - dei costi del tempo di tre gradi di giudizio rispetto al valore della causa. Negando, se del caso, il diritto all’esame del ricorso.
Ciò almeno fino a quando il Parlamento non sia in grado di produrre riforme più aggraziate e queste non abbiano determinato il ritorno dell’Italia nel novero dei paesi civili in fatto di giustizia.
Nella situazione delle nostre due amorevoli signore, sarebbe stato agevole al giudice dimostrare l’antieconomicità del giudizio. Considerando che i 30 anni per la decisione sarebbero passati per le nostre due amorevoli signore, ma anche per l’incolpevole albero di limone.
In una situazione economica come quella che viviamo, non ci si può trincerare dietro il paravento della prevalenza, ad ogni costo, del bene giustizia costituzionalmente tutelato.
Anche i principi costituzionali devono essere interpretati con logica e razionalità, evitando che si producano effetti patologici. Bisogna razionalmente riconoscere che nel nostro ordinamento, il principio costituzionale della giustizia, formalmente invocato, è nella sostanza denegato perché ai tempi già da terzo mondo per la definizione delle cause, si aggiunge la paziente sopportazione di chi, sapendo fare quattro conti, dinanzi a un torto subito rinuncia a priori a presentare un ricorso ad un giudice.
Insomma, fintanto che la situazione sarà questa, è giustizia negare la giustizia ingiusta. Come quella che ha ottenuto dopo 30 anni una delle nostre due amorevoli signore a proposito di un albero di limone.
Michele Luccisano
26 agosto 2012
Ranica (BG)
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