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Affetuosa, affidabile, socievole, timida,  testarda, precisa. 

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Mi piace studiare. 

Mens sana in corpore sano: la cura di sè per me è importante quanto la cultura personale.

Amo le mani curate, i capelli in ordine e l'odore di buono sia nelle donne che negli uomini. 

Non mi piacciono gli arroganti, i so tutto io, i politici, le prime donne, le maliziose. Odio le bugie e le omissioni.

Mangio pasta a chili, cioccolata rigorosamente fondente e tutti i tipi di salumi. Ma non sono ciccia e brufoli, tiè! Non mi piace la pizza, il ragù, non mangio dolci, odio l'anice, l'aglio,  la cipolla, le bibite gassate.

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I bambini nelle carceri italiane

Post n°149 pubblicato il 23 Settembre 2012 da Lyra1988
 

Che ci fa un bambino di due anni a giocare con una bacinella nel bagno di una prigione? Che ci fa, un altro poco più grande di lui, aggrappato alla sbarre mentre aspetta qualcuno che apra la «gabbia»?
E tutti quelli sdraiati sui sedili di un furgoncino? Ci dicono che sono in attesa di essere trasferiti in infermeria perché nelle celle con la mamma non c'è posto per la notte.

Ne vediamo tanti, nei vari carceri che visitiamo. E ogni volta è uno strazio. Lamenti, pianti, risa, giochi, nenie che siamo abituati a sentire nelle stanze colorate dei figli o dei nipoti stridono con il grigiore delle carceri, con la muffa che scende a frotte dalle pareti, con i bagni puzzolenti delle stanze, con giochi messi posticci per camuffare la tetra presenza delle inferriate ovunque. Le mamme hanno scelto per loro.
La legge le consente di tenerli in carcere fino all'età di tre anni.
Ma quale mamma si staccherebbe dal figlio, pur sapendo di portarlo in un posto del genere?

Nelle carceri italiane ci sono circa 70 bambini reclusi. Il numero è costante negli anni. «Lo so, è brutto, ma lontani non possiamo stare, né io né lui» dice una detenuta del carcere Gazzi di Messina. Lo stesso ministro della Giustizia Paola Severino ha ammesso di recente che «il carcere anche nelle situazioni migliori, è un luogo incompatibile con le esigenze di socializzazione e di corretto sviluppo psico- fisico del bambino». Si cercano sistemi alternativi.
Rende pessimisti il fatto che da anni si tenti di dotare il sistema di uno specifico ordinamento penitenziario pensato per i minorenni. In Italia non ce n'è uno.
Ma una serie di proposte sono all'esame del Parlamento dal 2008.

In altri casi la legge n. 40 del 2001 (che offre alternative alla detenzione proprio a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), si trasforma in una serie di paletti insormontabili per le detenute straniere, soprattutto se nomadi. E così, dietro le sbarre ci restano soprattutto loro, senza alternativa.
Impedimenti che conosce bene anche Serenella Pesarin, che è a capo della Direzione generale per l'attuazione del provvedimenti giudiziari del Dipartimento Giustizia Minorile: «Se non trovano un lavoro, se sono discriminati, se non possono avere i documenti, se passano una vita per avere un rinnovo, se vengono guardati come nemici, cosa gli resta? Se non gli diamo un'identità, non li strappiamo alle organizzazioni criminali che li stanno sfruttando».

In una stradina al centro della capitale incontriamo l'associazione «a Roma insieme» fondata dall'ex onorevole Leda Colombini. Da anni si occupano di ordinarie storie di emarginazione in carcere e ogni giorno fanno i conti con le storture del sistema. Ci mostrano le foto scattate da Giuseppe Aliprandi, ne hanno fatte una pubblicazione (sono le stesse che usiamo anche in questo servizio video senza pixelare i volti dei bambini perché autorizzati dai genitori). Sono istantanee di una attesa e poi di una gioia settimanale: il sabato. Li chiamano «Sabati di libertà». E' l'unico giorno, infatti, in cui l'associazione può prelevarli e farli uscire dalla segregazione. Per il resto della settimana c'è il carcere con le sue dure regole.
Anche quando un bambino si ammala, anche quando deve andare in ospedale o deve subire un'operazione grave. La mamma non può seguirlo, non è autorizzata. Può solo chiedere informazioni agli assistenti penitenziari. E' quello che è successo anche a Grcjela, una rom che un'alternativa l'ha trovata. Grazie al volontariato si è ribellata al campo e ha trovato il coraggio di allontanare chi la costringeva a rubare. Ma invece del suo coraggio preferisce raccontarci dell'allontanamento dalla figlia malata, la tortura di sette giorni passati senza poterla vedere, senza poter parlare con i medici, senza sapere se era viva o morta.

Antonio Crispino per il Corriere della sera

 
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massimocoppa
massimocoppa il 25/09/12 alle 13:15 via WEB
che cosa triste!
 
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