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LA BENEDIZIONE DELLE CASE

Post n°45 pubblicato il 14 Marzo 2012 da anchise.enzo

Appena giunto in convento, il nuovo padre guardiano si diresse in cucina. E dove poteva recarsi uno così grasso, se non in cucina? Era alto appena un metro e mezzo, il suo quintale di peso si accumulava tutto nella pancia. Da lontano sembrava un pallone marrone legato a un cordone bianco. Una volta entrati in confidenza, ci permise di pranzare insieme con lui, nell’invitante cucina dei monaci, e avemmo la riprova che, seppur molto pio, eccedeva smisuratamente nei peccati di gola. Divorava di tutto, con sano appetito, soprattutto salami, che accompagnava con mezzi panelli di pane e vino dei devoti, il migliore, quello destinato all’altare.

Essendo io, il suo chierichetto preferito, non potevo esimermi dall’accompagnarlo, in tempo di Pasqua, a benedire le case. Reggendo con una mano il canestro per le uova che la gente ci donava, e con l’altra il secchio d’argento dell’acqua benedetta, mi univo alle sue preghiere, cantilenando un latino approssimativo, distratto dalle suppellettili domestiche, dalle foto e dai quadri alle pareti.

Era tacito patto che il parroco benedicesse tutto il paese, tranne la via del convento, che toccava ai monaci, con tutte le case della campagna. Lungo la via del convento il padre guardiano si limitava ad assaggiare un buccellato o un fiadone e a bere un bicchierino. I guai iniziavano quando percorrevamo i viottoli di campagna. Già ai primi passi esclamava, madido di sudore: – Che fame, Tonì! … che fame…non ce la faccio più.

Penso che davvero l’aria fresca di campagna e lo sforzo di percorrerla in lungo e in largo gli provocassero una fame da lupo. Nei pressi della masseria dei D’Amico, dopo che avevamo benedetto già una decina di case, il padre guardiano, esausto, minacciò: – Tonì, qua ci fermiamo. Ieri sera, dopo la messa, Cristina mi ha detto che oggi ci avrebbe fatto trovare taccozze e fagioli.

Taccozze e fagioli rappresentavano per il sant’uomo il paradiso in terra e gli si inumidivano gli occhi e immagino anche la bocca già solo a nominarli. Ne mangiò a crepapelle. A tavola si era creato un clima di cordialità e allegria che cresceva con i bicchieri di vino rosso. In programma, c’era da benedire ancora qualche masseria del Parco e della Difensa ed infine tutto il Casino dei Magno, ma non fu possibile proseguire. Il padre guardiano si era ubriacato, senza che io capissi che tutta la sua euforia non era dovuta alle battute di zi’ Antonio, ma solamente al vino.

Con premura e prudenza, per non dare scandalo, aspettammo l’imbrunire, quando zi’ Antonio, non senza sforzi sovraumani, issò il monaco sul suo asino, legandolo saldamente al basto. Per evitargli il rischio di una rovinosa caduta, sistemò ai fianchi della vettura le segge, che servivano per il trasporto dei covoni di grano. Era già notte, la sua sagoma scura ondeggiava pericolosamente, sempre sul punto di rotolare di qua o di là, come una balla di fieno, ma riuscimmo a riportarlo in gran segreto in convento.

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