My Noise

The hell for me, rebellious angel


Felicità, cosa tanto desiderata ma per lui vera e propria utopia; nelle “ belle” serate passate con gli amici non gli rimaneva altro che animalesche passioni saziate, storie d’attimi persi, sogni di momenti non realizzati e poi, poi soltanto il vuoto e scuro silenzio. Quel silenzio che lo tormentava incessantemente ogni sera quando, non troppo inebriato, il dolce Morfeo non veniva a fargli compagnia cullandolo nel quieto sonno. In quei secondi di paurosa sincerità capiva quanto veramente gli costava avere la conoscenza di fatti, di cose e ragioni non appartenenti a questo mondo: la dura e schietta sincerità martellava nella sua caotica mente come un orologio. Tic, toc. Suono diverso da quello che ascoltava tutti i sabati sera in cerca di semplice fuga nella notte, come diverso era il suo effetto: il primo adatto ad una dolorosa confessione mentre l’altro ad un’effimera sepoltura di pensieri. Con ancora quel rumore nella testa, a tenebre calate, si specchiava nel grande specchio che amava ma al contempo detestava, sia per averlo fatto alzare dal letto costretto dal desiderio di vedersi ancora sia per quanto crudelmente riproduceva. Tin! Il lungo rumore metallico della collanina che sbatte contro il freddo rubinetto. Aveva, come tutte le volte, furia anche se la notte era a sua disposizione, tempo altrimenti perso in una sfuggente e amara pace. Tin! Il rumore lo infastidiva sempre la seconda volta perché lo risvegliava alla realtà. Alzava quindi la targhetta e leggeva il nome, un nome non suo ma bensì di suo padre. Suo “ creatore” a cui voleva assomigliare per poi diversificare. Plof! Questa volta il suono della goccia lasciata fredda dalla sua furia, che scendeva sul suo viso disegnandolo, per quindi ricadere nel candido e bagnato lavabo. In sottofondo a quei momenti d’intensa introspezione il fastidioso volo di una mosca. Lui era in costante compagnia, la sua amante solitudine non lo lasciava mai; ma quando era fuori con altra gente la solitudine lo mollava per lasciar spazio al nemico isolamento. Era per lui il mondo come uno stagno. Lui un ragno, e gli altri grandi libellule. Con i suoi argentei fili cercava di tessere inutilmente i suoi dorati sogni, unico strumento per conseguire la felicità o per far fermare gli altri a contemplare la realtà di cui solo lui era l’unico spettatore, ed oltretutto pagante. L’ignoranza è un amaro dono di cui le libellule fanno lauto utilizzo: spezzano i fili del povero ragno nel loro eterno volo a capochino senza averli nemmeno in qualche modo percepiti. Esse si specchiano felici nella superficie dell’acqua senza chiedersi niente, contente di quel misero poco che hanno. Lui invece si guardava nello specchio infastidito dalla sua taciturna immagine, bramoso di strappare quella superficie riflettente per sapere ancora di più. Ma ogni notte la forza gli mancava e allora lo specchio rimaneva lì con il suo sincero ghigno. Stanco e affranto spengeva la luce e rimaneva qualche millesimo con i propri pensieri. Tac! La lampada del frigo illuminava la sua mano sinistra. Mano più adatta per lui non c’era; lui angelo ribelle di un mondo troppo superficiale fatto di beate creature felici di accontentarsi miseramente. Quella stessa mano, dall’alba dei tempi considerata indicante della corrotta via, era per lui soltanto il libero mezzo rappresentante i suoi pensieri, i suoi incubi. Immagini della sua mente non illusorie ma bensì narranti una realtà nascosta perché scomoda, perché portatrice di dubbi e di paure che fanno cadere le ali alle ignoranti libellule.