Parole in confusione

Il foglietto di carta


Ho da poco ritrovato il foglio impressionato a lavoro, con penna e pensieri, soltanto ieri. È stata la scusa migliore per riordinare un po’ la stanza e la scrivania, alla ricerca di quel piccolo tesoro perduto. Mi sono addirittura inginocchiato, nel corridoio, con il sacco della carta aperto sulla mia destra, per spulciare tutta la raccolta differenziata degli ultimi giorni, ferma nel limbo della scatola temporanea. Niente da fare. Anche questa penosa ricerca portava solo ad un altro insuccesso. Non sapevo più dove guardare ed anche i miei genitori si erano interessati al mio scopo da foglietto di carta perduto. Le loro domande, per spronare la memoria in difficoltà, mi avevano messo addosso lo scrupolo di buttare le mani nella tasca della felpa, appesa su una delle ante dell’armadio del corridoio. Potevo finalmente cantare vittoria, anche se avrei sperato in un nascondiglio più particolareggiato, che potesse portare più soddisfazione alla perigliosa e prolungata ricerca sostenuta. Comunque chissenefrega, va benissimo così! Leggo direttamente dall’A4 stropicciato e colpevole. Ero a lavoro e stavo spuntando gli ultimi tre bancali di roba arrivata col camion del mattino. Da Radio Deejay (105 in magazzino non si prende) parte il programma con Fabio Volo che da il cambio al mattiniero intrattenimento di quel signore che si fa chiamare Platinette. La possibilità di ascoltare qualsiasi cosa porta tutti alle note di “Comfortably Numb”. Forse la prima che ho riconosciuto, in tenera età, come mia canzone preferita dei tanti dischi messi a disposizione da mio padre. Con la mia gamba trascinata mi faccio quei dieci metri per andare a trovare un volume adeguato al momento e mentre parte, sto già tornando indietro per riprendere il lavoro, nell’intimità del magazzino momentaneamente deserto. Mi sento libero ed è una sensazione preziosa. Conosco i tempi stretti delle radio, soprattutto in merito alle canzoni che superano i tre minuti. Già all’uscita dell’immensa “Bohemian Rhapsody” firmata Queen, e si parla degli anni ’70, la messa in onda e la sua diffusione, fu dovuta alle continue richieste dei radioascoltatori che si volevano godere quel capolavoro. Nel XXI secolo figuriamoci. Già mi preparavo ad una fredda sfumata su quell’assolo di Gilmour che arriva come una liberazione, che non vuole essere solo fine a se stesso, che significa così tanto. Ma anche Fabio sa cosa vuol dire e usa il microfono solo per dare voce al pensiero di tanti: - “E qui schitarra e vaffanculo a tutti!!! E come dargli torto? Penso. Mi prende un sorriso e poi sono nudo al cospetto di quel momento di incredibile musica. Ci sono comunque dei tempi da rispettare e così ritrascino la mia gamba per andare ad abbassare sul povero jingle pubblicitario che non poteva avere battesimo peggiore. Girando con il camion ho sempre tanto tempo da dedicare al pensiero, alla scrittura e all’ascoltare mp3 a valanga. Tutte cose potenzialmente pericolose per la mia incolumità anche se la prima, può essere votata come la meno rilevante. La settimana appena passata aveva portato con se un’armonia ritrovata, in una sorta di rassegnazione positiva alla mia vita da operaio. Il lunedì mattina stava, invece, tornando violentemente alla ribalta per stravolgere quella sorta di equilibrio falsato. Riuscivo a vedermi da fuori, tenere il volante e dosare l’acceleratore, con un occhio di riguardo al freno in caso di un qualunque imprevisto. Con tutte quelle giornate segnate dal continuo percorso del sole nel cielo e dalla mia libertà pagata sul tramonto. Non avere tempo di vivere. Il tempo per fare anche solo una cosa piccola come comprare un regalo. Essere costretto ad annotare le ispirazioni su di un foglietto di carta perché impossibili da vivere sul momento. Mi stavo guardando dentro e si faceva strada in me la triste certezza di non poter continuare ad affrontare tutto questo solo con la speranza di vivere, un giorno, quel bellissimo sogno fatto di musica. Non sarebbe bastato a dare un senso a tutto quanto e una vita da magazziniere, a cui è difficile regalare il dono della passione, si dimostrava altrettanto incapace. La conclusione a tutti i miei ragionamenti ad occhi aperti, fatti attraverso il finestrino del daily, si trasformava in parole da pronunciare all’ora di pranzo, davanti alla tavola apparecchiata. Riprendere gli studi e considerare quell’idea a cui non ho voluto mai concedere un’occasione. L’università. Uscito da 5 anni di superiori, scelte col bene placito dei miei 13 anni e tutto quello sbaglio che si erano portati dietro, avevo rinunciato, in preda al rigetto di una costrizione allo studio di materie a me così distanti, ad un altro futuro prossimo di libri a cui rendere conto. Adesso, invece, mi sentivo pronto a prendere una decisione consapevole sul mio percorso di studi, basato sulle mie esperienze e attitudini, su una maggiore capacità decisionale legata ai miei bisogni. Lavorare nel sociale, con i bambini magari, un giorno. Costruirmi un’alternativa di realizzazione personale oltre la sfera artistica. A tavola, la premessa riguardava una più dettagliata forma da dare a tutta la proposta, chiedendo informazioni alla madre di Samanta. A sera ero già nella sua cucina, con lei impegnata a mettere in ordine dopo la cena, sua figlia con la tesi da rifinire al portatile e Victoria, al secondo piano, a giocare a computer supportata dal nonno. Alba mi regala un bel sorriso di soddisfazione e approvazione in risposta al mio pensiero. La forma è quella dell’educatore professionale. Un corso di laurea sotto la Facoltà di Medicina dell’Università di Bologna, distaccata niente meno che ad Imola. 3 anni il tempo necessario. Mi promette di farmi avere al più presto ulteriori informazioni chiedendo ad una sua tirocinante. Mi fermo un po’ a giocare con Victoria che, oltre ai soliti piedini non proprio profumati del bagno imminente, mi mostra anche un sorriso tutto mezzo sdentato da ricomporre diventando grande. Da parte mia, posso solo cercare di fare lo stesso.