Parole in confusione

L’utilità e l’inutilità


La sveglia di ieri arriva indefinita. Stremato dalla notte passata praticamente in bianco, mitigata solo da qualche sonno breve e intenso, a cui concedermi con discrezione durante tutto l’arco della giornata. La febbre è sempre intorno a quota 38 e la prima colazione, a base di tazza di latte con cioccolato, da ingurgitare sgranocchiando due fette biscottate con burro e marmellata della nonna, fa da fondo per l’inizio delle cure a cui sottomettersi. Riesco ad evitare la supposta per via più scomoda e faccio la gradita conoscenza della Sanipirina della Bayer con quei 500mg di paracetamolo da assumere per via orale. Inizio anche la cura a base di bustina di sali minerali da sciogliere nell’acqua, col sapore d’arancia amarognola che vuole andare nella stessa direzione della pastiglia: non aggiungere sofferenza alla sofferenza. Ricordo piacevolmente solo un tale sciroppo per la tosse molto zuccheroso (si faceva fatica a girare il tappo) che usavo prendere da bambino, nei momenti del bisogno, e per il resto solo medicine dal sapore di medicine. Il progresso porta vantaggi in tutti i campi anche se assoggettato dai punti di vista. Mi accorgo di non riuscire ad esercitare forza nelle dita e anche sollevare un bicchiere d’acqua richiede un certo impegno. Pensare che il giorno prima ero in palestra a sollevare i miei soliti Kg di pesi. In effetti avverto anche quel solito indolenzimento che mi prende il giorno dopo, di cui avrei voluto volentieri fare a meno. Continuo ad aprire e chiudere le mani, nella ricerca di una riabilitazione che possa restituirmi un po’ di sensibilità. Intanto faccio caso al decisivo passo in avanti che hanno avuto le unghie e pellicine annesse nel loro rimarginare le ferite. Non credo siano quelle poche ore di lavoro permutate in malattia anche se mi fa piacere crederlo. Mando un sms di risposta al Buongiorno di Giulia aggiornandola sulle mie attuali, precarie condizioni di salute. Sono costretto ad annullare l’appuntamento delle 12.30 da sostenere nell’ufficio di Franco, a proposito dell’imminente edizione di Imola in Musica a cui cercare di presenziare con una nuova proposta artistica. Il pranzo sono costretto a farmelo imboccare da mia madre. Un bel riso con l’uovo e il parmigiano grattugiato sopra che mi sembra un po’ scotto e che faccio fatica a buttare giù. Lo macino in bocca ed è un po’ come mangiare tutti quei secondi che passano lenti. Tutto va al rallentatore e sono costretto sotto le coperte con una buona dose di cuscini a tenermi un po’ su. Provo ad abbracciare la chitarra per lavorare su qualche verso da finire e mi sembra di portare al petto un macigno. La voce è fioca e incerta e la sordina si estende anche alle dita. Tutto è in tema con la scenografia da poca luce da far filtrare per lasciare aperto ogni spiraglio di opportunità. Ho voglia di sentire la voce di Giulia ma, con la cornetta tra le mani, do ascolto a quel pensiero del “sarebbe bello che fosse lei ad avvertire la necessità di cercarmi, anche solo per due parole di circostanza”. Resto a sperare invano e, l’idea di non essere esattamente vicino al centro del suo mondo, fatto di grigio e problemi molto personali, si fa strada senza asciugarmi il sudore sulla fronte dovuto all’ultima Sanipirina. Avevo in agenda la prima del concerto “Jazz d’Autore”, da presentare pianoforte e voce, insieme a Livio, presso i locali della Piccola Osteria del Borgo di Dozza (BO) e l’ipotesi di farla saltare non poteva sicuramente essere nemmeno presa in considerazione. Con lo stretto necessario al seguito mi faccio accompagnare da mio padre all’appuntamento, fuori dal parcheggio di Ca’ Vaina, delle quasi 20. Orario in cui Livio finisce di impartire le lezioni del giovedì agli aspiranti del pianoforte. Arriviamo a destinazione e iniziamo a montare. La tastiera dello strumento elettrico lascia indietro due tasti che si incastrano ad ogni pressione delle dita e per tornare ad usufruirne ci si deve ingegnare nel ritagliarsi lo spazio per risollevarli. Livio fa il lavoro più imponente di assemblaggio della macchina sonora e dopo qualche ripasso, sui brani da eseguire da li a breve, ci dedichiamo pure ad una prova del suono. Arrivano così le tagliatelle al prosciutto che non riesco a finire e quella torta al cioccolato che devo disdire con la morte nel cuore, vista la golosità dello stomaco non ancora del tutto restituita alla piena efficienza. Il concerto inizia ma le note non riescono ad andare al di là della solita parte da sottofondo. Si gozzoviglia e il rumore di posate da unire agli espedienti del retro-bancone riesce a sormontare ogni speranza di interpretazione da portare sul pianoforte azzoppato. Non sono in salute e già l’avevo intesa come una prova pagata da regalare allo spettacolo ma anche con il massimo coinvolgimento da parte nostra, non so quanto sarebbe bastato a destare l’interesse della platea. Rispettiamo la scaletta appena abbozzata, stando attenti a non disturbare troppo le discussioni col volume eccessivo fino a quando, d’improvviso, arriva un personaggio interpretato da un vecchietto dai capelli bianchi, che chiede il microfono per interpretare una “My way” dalle parole e note accennate. Trovarci un senso è veramente arduo e lo sforzo per stare di fronte a quel microfono, non solo per le condizioni di salute, non so se potesse realmente essere apprezzato. Arriviamo alla fine e arrivano i soldi. C’è da lavorare e, almeno in questo senso, a qualcosa è servito.