Parole in confusione

II Parte


Giulia: -“Io una possibilità te l’ho data”. Non è vero. Sarebbe stato così se fossi riuscito a decifrare quello che invece, finalmente, usciva chiaro e limpido, gridato naturalmente, dalla sua bocca. Posso ammettere lo sbaglio di non esserci arrivato da solo ma lei avrebbe dovuto riconoscere quello di non essersi preoccupata di renderlo chiaro, negandomi la possibilità almeno di provare ad esserle vicino come voleva. Ha preferito tenerla come una colpa che un punto da cui partire. Lei piangeva e mi sentivo uno schifo e non capivo a come ci eravamo potuti arrivare. Ma aveva fatto tutto da sola, la mia unica colpa era di essere li e di dimostrarle quanto bene le volevo cercando solo di dare un senso logico alla nostra separazione. Il suo pianto diventava anche il mio e così lei si dimostrava affettuosa, quasi soddisfatta dell’esserci riuscita. Le stringevo le mani intorno al bacino, poggiando la testa sulla sua pancia, seduto sul letto, lei in piedi.Mi sentivo sempre più preso in giro. Non c’era dialogo, si comportava come una bambina isterica che continuava a giocare con quel “ti voglio bene ma… ” e che non poteva essere. Giulia: -“Siamo diversi” e vederla così vittima di quella convinzione, figlia di un pessimismo che trascina via anche le cose più belle, non riusciva a farmi smettere di lottare anche se sapevo quanto fosse inutile. Mentre prima cercavo di evitare il confronto, chiuso in un angolo, non riconoscendo tutte le colpe che mi stava gettando addosso, adesso sulla porta del bagno le stavo gridando tutte quelle prese in giro che nascondevano la verità. Mi era venuta incontro gridando ed ero convinto che stesse per mettermi le mani addosso. Non c’era più il suo affetto per me, mancava addirittura il minimo rispetto per il mio sentimento e il mio dolore, giocato attraverso le tante piccole bugie dello studio che impediva gli ultimi fine settimana. C’era una situazione che non sapeva gestire forse per via di quella maturità che le avevo attribuito ma che ancora non poteva essere. “È la mia vita!!!” mi aveva gridato isterica, mentre le rinfacciavo l’uscita che mi aveva nascosto, nonostante sapesse del mio arrivo. Le avrei voluto rispondere che era anche la mia dal momento che mi ci teneva dentro col dolore, con quel “ti voglio bene” svuotato di ogni significato ma, a quel punto ho preferito scendere le scale per avvicinarmi all’uscita. Scoppiavo di nuovo a piangere, in mezzo al vialetto, sdraiato per terra e dopo aver tentato di tirarmi su, anche lei in lacrime, aveva esaurito anche quella sensibilità, lasciandomi li, con sua madre che richiudeva la porta di casa. Ero solo. In uno stato di agitazione che nessuno sarebbe venuto a salvare. Le mando un messaggio “sto male aiutami” ma niente torna indietro. Mi avvicino alla porta di casa e suono. Nessuno mi apre. Chiedo di entrare, non sono in grado di tornare a casa in quelle condizioni, non ho fatto male a nessuno, chiedo solo di entrare per scusarmi e tornare a casa dalle mie cose, dalla mia famiglia, sereno. Nessuna risposta. Chiedo aiuto, carità di sentimenti ma dalla cucina sua madre abbassa inesorabilmente la tapparella. Non riesco a crederci e sono spaventato. Mettermi alla guida in quelle condizioni è impensabile. Ero arrivato con le migliori intenzioni e quello che avevo ricevuto era solo stato un rinfacciare continuo, colpe da addossare ma nessuna da ammettere, troppo facile scaricare così, un continuo farmi sentire sbagliato che non meritavo. Passa un tempo indefinibile e arriva la telefonata di mia madre che vuole sapere se il viaggio è andato bene. Le rispondo con la crisi che non posso nascondere. Le chiedo di chiamare Giulia per farmi aprire perché anche la pietà mi viene negata con una porta chiusa in faccia. Da li a poco c’è sua madre e l’abbraccio in lacrime. Giulia è di sopra. Ci mettiamo in cucina a parlare e finalmente posso tranquillizzarmi, con un bicchiere d’acqua, con uno scambio di pensieri di cui ero altrettanto assetato e non di frasi gratuite frutto di esaurimenti nervosi da indirizzare al mio voler bene, offerto e rifiutato con ogni mezzo. Non rivedo Giulia, è meglio così. Lascio alla madre qualche parola che sono sicuro non le riferirà, sperando almeno nelle scuse che sento sincere per questa situazione sfuggita di mano. Mi accompagna alla macchina. Metto in moto e lascio quell’asfalto per l’ultima volta. Ritrovo piano piano la serenità e la convinzione che questo viaggio doveva eistere. Inizio a ritrovare la lucidità indispensabile a rendermi in conto di quello che ho fatto e di quanto lei si sia solo preoccupata di gettare al vento, di calpestare per quanto le fosse possibile. Ero convinto che lo meritasse ma forse non è così. Lei, sua madre, la mia sono convinte che abbiamo sbagliato a credere che due realtà così distanti potessero sopravvivere solamente sulla forza di un sentimento. Io invece sono certo che l’amore, quello vero, sia così importante da sbaragliare qualunque ostacolo altrimenti non si può chiamare amore e non ne vale la pena. Immerso nella mia forza ritrovata ricevo un sms. “Come va Andrew la trasferta?” È Nicola che vuole sapere se il suo pronostico si è avverato. Quando me l’aveva fatto, qualche giorno prima della partenza, gli avevo ricordato i suoi precedenti non proprio rassicuranti. Nicola -“Al mondiale stiamo attenti alla Repubblica Ceca!” Beh, è uscita subito. Comunque era sicuro che saremmo tornati insieme, nemmeno io ero così ottimista ma mi faceva piacere provare a sperarci e invece mi toccava raccontargli tutto il casino che avevo fatto. Nicola: -“Andrew non dirmi che hai abbandonato la tua proverbiale comprensione e hai fatto un colpo di testa alla Nicola Casadio!”. Era proprio quello che era successo. Mi ero abbassato ad urlare in faccia ad una neo-diciassettenne, accecato dal male che mi stava facendo e da quella presa in giro che continuava e che riesce sempre a spingermi ad un passo dal mio limite di sopportazione. L’avevo passato senza mantenere quel distacco e quella maturità a cui i miei 26 anni dovrebbero obbligarmi. Gli racconto tutto in una telefonata che mi tiene compagnia sull’autostrada, ripercorrendo quei chilometri, gettando uno sguardo dall’altra parte del guardrail, con quelle luci in direzione opposta, ricordando le sensazioni dell’andata, quei pensieri così diversi e lontani adesso. Sono sereno. Le sue scuse non arriveranno mai perché probabilmente non riuscirà o vorrà mai capire i suoi errori, quel suo trattarmi e farmi sentire sbagliato, su cui riversare tutto quello che la rende infelice. Quell’infelicità che portava addosso anche prima, alleviata solo nelle prime domeniche insieme, ritornata a farle compagnia e da identificare ora con un volto nuovo, il mio, a sostituire momentaneamente i fantasmi del passato. Volevo renderla felice, aiutarla ad abituarsi al sorriso offrendo il mio. Non ho vinto il suo pessimismo e ne sono diventato parte, un peso inutile da abbandonare per correre incontro a quella vita che l’aspettava così impaziente fuori dalle mie braccia. Potevi avere tutto Giulia ma hai rinunciato a lottare. Ti lascio al tuo tormento che spero un giorno avrà una fine, che troverà quell’equilibrio con la felicità a cui ogni persona ha diritto. Io ho deposto le armi, ho rinunciato a lottare per te, perdonami. Andrea