Parole in confusione

La fine di una storia


La forma di questo racconto sarà molto difficile da bilanciare tra un’attenuante, la sua giovane età e l’incapacità a gestire un rapporto così pesante d’affetti e la convinzione di essere stato trattato male, come non meritavo, per tutto quello sforzo messo sul piatto delle offerte e della comprensione, volto a rincorrere una situazione sempre più irraggiungibile. Con Giulia è finita e questa volta la parola fine può considerarsi definitiva. Ieri era il suo compleanno e avevo organizzato già da tempo una sorpresa per festeggiarla al meglio. Avevo preso due permessi, il pomeriggio di ieri e la mattina di oggi, per riuscire ad essere davanti a casa sua col mio carico di buoni propositi e regali ricercati che avevo pensato per lei. Poi era arrivata la sua rottura del sabato, la mia sorpresa svelata e il suo accettare la mia necessità di vederci comunque, nonostante la trasferta scolastica che l’avrebbe tenuta impegnata fino alle 20 e la scuola del giorno dopo. I tentativi dei suoi genitori di evitare questo incontro erano iniziati a diventare insistenti ma niente poteva farmi cambiare idea. Io alle 19.30 sarei stato parcheggiato davanti a casa sua e niente avrebbe potuto evitare tutto questo. Mi preparo per rispettare quelle 17.30 di orario previsto per la partenza. Mi faccio la barba, una doccia poi stampo il cd, finisco di fare gli ultimi pacchettini con la carta pubblicitaria di MediaWorld, che si capiscono non essere stati presi in cura da mia madre e, con la chitarra da una parte, la borsina dall’altra e lo zaino sulle spalle prendo la porta di casa. Sono in macchina e butto su “The division bell” con Gilmour che intona “She can take it back…” e mi sembra appropriato anche se un po’ troppo ottimista, anche per i miei gusti. Sbaglio subito strada e perdo qualche minuto per iniziare finalmente a puntare Ferrara, col sole vicino al tramonto che manda ancora gli ultimi raggi buoni, con un cielo blu tagliato dalla bianca scia di un aereo, sopra la campagna e i suoi spazi aperti. Accompagno il tramonto immettendomi sulla Bologna-Padova. Sono eccitato e incredulo all’idea di essere li, attento alla possibilità di un qualunque intoppo che mi impedirebbe di raggiungere la meta del mio fantasticare. Arrivo sano e salvo e, con qualche minuto d’anticipo sono parcheggiato davanti al cancello della casa di Giulia. Mi metto a suonare qualcosa nell’attesa ma sono emozionato e non mi riesce un granché bene. Alle 19.30 circa arriva. È in macchina con sua madre. Scende e mi viene a salutare. Si vede chiaramente che non avrebbe voluto dover subire quella situazione ma non sono lì per lei, sono li per me e per quel pensiero di noi che sto cercando di salvare, in un ultimo tentativo. “Non puoi darmi la quotidianità (è reciproco) e io ne ho bisogno” ma anche quel “Ti prego non dirlo che è finita” che mi aiutava. Queste erano state le parole della telefonata di domenica, condite da quel “ti voglio bene” a cui fa tanto piacere credere. Se mi avesse proibito di essere su non sarei andato ma ha preferito tenerselo per se e il prezzo della sincerità si paga, ho smesso di preoccuparmi per lei perché adesso a starci male sono io. Sono lì e non può far altro che sopportare la situazione. Entra in macchina e devo chiederle io di poterle dare i regali in casa, dopo 2 ore di viaggio e il ritorno in vista, invece che stretti fra i due sedili della Yaris. Bastano pochi atteggiamenti per avere la misura di quanto si vale per l’altra persona. Ho il permesso, educazione indotta e costretta da una circostanza che non ha voluto impedire con la sincerità. Entriamo e devo chiederle ancora un po’ di intimità perché forse sperava di sbrigare la faccenda sull’ingresso, con sua madre a due metri. Siamo nella stanza, finalmente, raggiunta dopo tante sottolineature di pesantezza della mia persona. Una persona a cui lei dice di volere bene. Inizia a scartare i regali con la libera scelta assoggettata a quell’unico foglio di carta arrotolato e tenuto insieme da un bel nastro, mentre le racconto ogni piccola storia che si portano dietro. Inizio a vedere i primi sorrisi e i primi abbracci e sono felicissimo. Le canto la sua canzone, quella che avevo scritto per lei prima del distacco e ci avviciniamo ancora di più. Giulia: -“Tu cosa vorresti fare adesso?” Me stesso: -“Io i regali te li ho dati. È il tuo compleanno, decidi tu. Posso anche tornare a casa se vuoi.”Giulia: - “È che se dopo non avessi un impegno… non posso annullarlo, passano a prendermi alle dieci e mezza per una piccola festa che mi fanno però mi dispiace…” A questo punto, dentro di me, qualcosa inizia a muoversi. L’immagine tanto spettacolare che mi aveva regalato quasi in lacrime, dei suoi 17 anni passati a scuola e poi in casa a studiare, senza quasi ricevere auguri, non corrispondeva più alla realtà. Per questo, per regalarle un sorriso e qualche pacchetto da scartare avevo pensato, in tempi non sospetti, la trasferta. La vedevo attraversare un periodo difficile, con il peso di un compleanno in solitudine da passare e volevo fare tutto quanto mi era possibile per aiutarla. L’immagine che mi aveva offerto però, non era reale erano solo capricci, pessimismo e qualche ti voglio bene di troppo. L’interrogazione, il motivo portante della mia impossibilità ad esserci (stando ai suoi genitori), praticamente scompariva. Riuscivano ad evitarla vista la gita impegnativa appena sostenuta e il mio sospetto, avendo fatto le superiori anch’io, si rivelava esatto. Una bella sporta di scuse per tenermi lontano, un gioco a cui non sono stato mettendomi di traverso, senza aspettare le sue comodità del sabato, risparmiandomi qualche giorno di inutile dolore. Giulia: -“Dai, non restare li senza dire niente.” Eravamo uno davanti all’altro, lei dalla parte della parete con le finestre. Me stesso: -“Non posso chiederti di pronunciare le parole che dovresti dire tu (passare la serata insieme). Se non lo dici è perché non lo senti e io non posso far altro che tenerlo spinto in fondo al cuore cercando di accettare quello che significa il tuo silenzio.“ Da quel momento, l’ultimo di pace e relativi sorrisi, tutto è andato peggiorando. Era come se io avessi tra le mani i cocci di un vaso rotto e fossi inginocchiato per terra con la colla, cercando disperatamente di rimetterli insieme, mentre lei continuava a frantumarli in pezzi sempre più piccoli, fino a farli diventare polvere inutile. Essere lì, in quella stanza, con una persona che riesce a darti contro ad ogni cosa che dici, anche quando le dai ragione, mi lasciava sempre più in difficoltà. Era come giocare una partita dove il tuo avversario usa delle carte truccate, impossibile da vincere. Lei alzava la voce su tutte le mie colpe, la mia incapacità di starla a sentire e di comportarmi nel modo in cui aveva bisogno. Giulia: -“Devo essere spronata a tirare fuori le cose che mi fanno stare male”. Per come sono fatto io se una persona non se la sente di aprirsi, non riesco a forzarla. Si deve essere pronti a ricevere, altrimenti si rischia solo di peggiorare le cose. Non è colpa dello psicanalista se stai male e non ti stendi sul suo lettino. Le avevo fatto notare, all’inizio del nostro rapporto, le sue difficoltà ad aprirsi con me, quella vita parallela che faceva scorrere sul Blog e di cui io non facevo parte. Avrei dovuto darci più peso, capire quanto fosse importante, approfondire, ma forse, alla fine, mi piaceva lasciarmi cullare da quella bella sensazione che era stare fra le sue braccia, mentre dentro di lei montava il malcontento. In un rapporto si può sbagliare ma, se il sentimento non cambia e c’è la volontà di riparare quello che non va, ogni occasione è buona per cercare di stare insieme.