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« Ho un sogno, che un giorno questa nazione si sollevi e venga fuori il vero significato di questo credo: "Riteniamo evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali". » (Martin Luther King, 28 agosto 1963, Washington, discorso al Lincoln Memorial durante la marcia per lavoro e libertà)
 
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Ecco un bell’esempio da seguire per i nostri “potenti” : Un mese come un operaio Si può conciliare l’etica del lavoro con il profitto? Viviamo in un Paese con salari tra i più bassi in Europa (salvo categorie privilegiate) e il costo della vita tra i più alti Alberto Corsani Gli anni 80 volgevano al termine quando la Fiat si lanciò l’idea della «qualità totale»: per venire incontro alle richieste sempre più personalizzate dei clienti, si richiedeva fra l’altro ai dipendenti di indicare suggerimenti e possibili migliorie, per meglio qualificare le auto che sarebbero uscite dagli stabilimenti. Era un’innovazione di cui si faceva promotrice la più grande azienda italiana, che produceva auto di fascia alta ma soprattutto quelle di largo consumo, destinate alla famiglia o alla quotidianità. Oggi quel modello è tramontato, e l’Italia si giova piuttosto dei prodotti di elevata qualità delle piccole e medie aziende. Ora, le imprese devono fare i conti con la vita concreta di chi sta loro intorno (maestranze, fornitori e distributori) e, in generale, al tessuto sociale del territorio su cui si trovano. Primi interlocutori, ovviamente, i dipendenti. Ha fatto spicco, a questo proposito, quello che alcuni hanno visto come un gesto eclatante, e altri come strategia rivoluzionaria, compiuto da Enzo Rossi, un industriale della pasta. Il sig. Rossi è titolare dell’azienda La Campofilone, nel paese omonimo (provincia di Ascoli Piceno, 1885 abitanti, una zona rigogliosa come molte di quelle che insistono fra Marche e Abruzzo), che produce dal 1912 una pasta all’uovo rinomata sul mercato internazionale. Il suo «gesto eclatante» in realtà si compone di due momenti. Primo atto: provare a vivere un mese (lui, la moglie, le due figlie) con lo stipendio di un operaio più quello della signora, che lavora nella stessa. A disposizione: 2000 euro. Risultato: tenendo conto delle spese che normalmente si devono affrontare e dei costi consueti di mutui, assicurazioni, utenze… la vita è risultata sostenibile solo per 20 giorni. Il problema è noto: l’inflazione reale cresce più del potere d’acquisto, e i conti in tasca alle massaie o ai padri di famiglia non tornano più. «Nella famiglia in cui sono cresciuto ero stato abituato alla sobrietà – ci dice Rossi al telefono – ma ora la vita presenta altri modelli. Anche di fronte alle mie figlie, ho voluto fare una prova, proviamo a vivere con un reddito ridotto, e vediamo che cosa significa dire: questo lo possiamo fare, questo no. Bisogna proprio provare di persona. Quando al 20 del mese ci siamo trovati bloccati, abbiamo capito tutti e quattro. Ma il passo successivo è stato questo: se io, con la mia famiglia, non posso reggere questo scarto tra costo della vita e salario, come possono reggerlo i miei dipendenti?». Ed eccoci quindi al secondo atto: l’imprenditore, con gesto unilaterale, che vorrebbe forse ridimensionare quanto a risonanza («è stato un po’ enfatizzato», dice), aumenta la paga ai dipendenti: 200 euro netti. «Non sono Babbo Natale – prosegue Rossi –. Semplicemente, se il nostro è un prodotto di eccellenza, e per rimanere tale è sottoposto a verifiche incrociate rigorose, occorre che tutti quanti vi lavorano siano motivati: ora, i miei dipendenti lo sono, i complimenti che riceviamo si devono al loro lavoro». Ecco qualcuno, vien da pensare in questa Italia di fumosità politiche e vaghezza di programmi, che parte da una questione concreta, concretissima (sappiamo tutti che cosa vuol dire avere il fiato corto al 20 del mese: lo sanno i medici i cui pazienti devono pagare fior di ticket per esami importanti, lo sanno gli amministratori di piccoli Comuni e grandi città che vedono aumentare le richieste di sostegno, e gli operatori dei servizi pubblici in cui si affollano sempre più numerosi casi sociali) e di fatto va a toccare una delle questioni più complesse del vivere nelle società moderne e nell’economia globalizzata: è possibile conciliare l’etica con il profitto? «In genere si dice che non si può – conclude Rossi, ma è un’idea da sfatare. Il nostro fatturato è aumentato, e ne traggono beneficio anche gli agricoltori che ci riforniscono di grano e uova. Si è rilanciata l’iniziativa, bisogna che ognuno in un certo senso diventi imprenditore di se stesso». Due considerazioni, suggerite da un testo di Mario Miegge (Capitalismo e modernità. Una lettura protestante, Claudiana 2005) vengono in mente se cerchiamo di collegare la fede al mondo in cui viviamo. 1) I talenti, nella lettura puritana: a coloro ai quali Dio ha dato di più, Egli anche chiederà di più. 2) Quando i credenti e le chiese si occupano di temi sociali e anche di impegno politico, non devono dimenticare che tutto ciò è «in larga misura conseguenza della secolarizzazione». Cioè, stiamo nel mondo, non altrove: è nella società che si spende la propria vita di fede. Ma allora è in tutta la società che si devono cercare spiragli di riflessione, modelli alternativi. Non solo all’interno della politica, non solo nelle chiese, ma fra le persone, a tutti i livelli e in tutti gli strati sociali. Perché le persone sono un patrimonio (purtroppo le chiamiamo orrendamente «risorse umane») da valorizzare. Ognuno può e deve fare la propria parte. Alle chiese tocca valutare ciò che va o che non va nella direzione della liberazione che l’Evangelo ci addita; con spirito libero, attento e critico, ma con disponibilità a cogliere i segnali di «cose che si possono fare», vengano esse da sindacati, cooperative o imprenditori, a discuterne in assemblea, come siamo abituati a fare, a decidere insieme per il nostro e altrui futuro.
 
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