Creato da nonnobizzarro il 06/10/2006
Diario di Viaggio
 

 

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Ellis Island

Post n°55 pubblicato il 04 Maggio 2008 da nonnobizzarro
Foto di nonnobizzarro

Stai su una panchina. Davanti a te un gabbiano di 100 chili guarda le tue patatine fritte con bramosia. Sulla tua sinistra, centinaia di turisti fanno la fila per salire sul battello che lì riporterà in città. Adesso potranno finalmente dire a parenti e amici: “Ci sono stato!”. Sulla destra il mare sporco della baia. Alle tue spalle un’enorme e pesante signora di bronzo. Ti viene in mente una storia ragionevolmente vera. Questa:

Il “Peter Stuyvesant”, il vaporetto che scaricava immigrati nelle strade indaffarate e maleodoranti di New York, ondeggiava sulle acque verdastre dell’East River. Era salpato pochi instanti prima dal molo di Ellis Island ed in lontananza si vedevano ancora i casamenti in mattoni rossi in cui avevano trascorso le ultime settimane.

Erano stati fortunati a salire su quel battello, l’ultimo della settimana. Non ci fossero riusciti gli sarebbe toccato di restare sull’isola fino a lunedì e né Edward né sua moglie avevano piacere che ciò accadesse.

“Un’isola non è un bel posto dove far nascere un bambino”, disse lei, mentre il vento piegava il fumo sputato fuori dai motori del battello. Lo disse non sapendo che anche Manhattan e Brooklyn, i posti in cui avrebbero trascorso il resto delle loro vite, lo erano. Edward annuì, paziente.

Sua moglie aveva ripetuto quella frase durante tutta la loro permanenza sull’isola ossessivamente. L’aveva ripetuta come una cantilena, una preghiera o meglio ancora un rito scaramantico. Lui avrebbe voluto accontentarla, ma era consapevole d’essere semplicemente un cuoco polacco e di non avere il potere di decidere dove, come e quando quella creatura avrebbe visto la luce. Una speranza in cuor suo però l’aveva: che non uscisse fuori prima del tempo, prima insomma che avessero messo finalmente piede sul nuovo continente. Suo figlio doveva nascere in america, doveva essere americano.

La pancia di sua moglie era enorme e la cosa lo meravigliava quotidianamente. Sopratutto lo stupiva come cambiasse forma ogni giorno, secondo gli spostamenti dell’essere che vi si trovava all’interno.

Sulla sinistra del battello fece capolino, nell’oscurità della sera che si affacciava sicura, la sagoma della Statua della Libertà e più in là le prime luci della città.

Edward fece un rapido calcolo. Erano trascorsi poco meno di nove mesi dal giorno in cui avevano deciso di partire. Di lasciare Varsavia. Di quella notte fatta di paure, perplessità, lacrime e tenerezze che ormai sembravano solo un ricordo lontano, restavano unicamente quella pancia e il suo contenuto. E ora, un tardo pomeriggio d’ottobre, anno di grazia 1907, l’anno destinato a portare sulle rive degli Stati Uniti il maggior numero d’immigrati, le cose stavano per cambiare. Nella loro vita ci sarebbe stato un prima e un dopo quel giorno e loro questo lo sapevano bene, ma non serviva a nulla rimuginarci sopra perché davanti a loro due, tre, adesso c’era solo il resto della loro vita.

Il battello prese un’onda e cominciò ad oscillare paurosamente. Sempre che fossero riusciti ad arrivarci alla terra ferma, pensò Edward e prese la moglie per mano nel tentativo di tenerla ferma. Tentativo superfluo, perché i giovani sposi erano perfettamente ancorati a quella moltitudine di spiantati provenienti da ogni dove e anche volendo non sarebbero riusciti a fare un solo passo.

Lei si voltò per un’ultima volta verso l’enorme nave che li aveva condotti fino a lì. La guardò in lontananza con un misto di nostalgia, rispetto e sollievo. Ne lesse per un’ultima volta il nome impresso sulla fiancata: Kaiserina Augusta Victoria.

Poi si girò vero il marito e disse: “Se nasce una femmina mi piacerebbe chiamarla Victoria, che ne dici?”.

Lui sorrise ma non rispose. Sapeva bene che non si trattava di una vera domanda e sapeva bene di non avere alcuna voce in capitolo. Poche cose sono più dure della testa di una donna polacca incinta.

Rimasero lì, l’uno accanto all’altra, in un silenzio d’altri tempi. Fino a quando il battello non ondeggiò di nuovo, questa volta perché aveva urtato la banchina. L’orda di passeggeri cominciò a ribollire, impaziente. Poi un uomo sul molo con una voce sguaiata urlò qualcosa in una lingua che ancora non era loro familiare e i portelloni si aprirono.

“Che cosa ha detto?”, chiese la donna a suo marito.

“Ha detto benvenuti a New York.”, mentì lui con sicurezza. Lei fece un gran sorriso e lo abbracciò stretto.

Naturalmente l’uomo non aveva detto niente del genere, ma la cosa non aveva più molta importanza perché l’orda aveva cominciato a muoversi. Ancora pochi passi e il loro viaggio sarebbe veramente cominciato.

 

 
 
 
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