«La classe dirigente di cui sono parte non ha saputo evitare tanti lutti». In una lettera al padre di una vittima del terremoto, il capo della Protezione civile lancia gravi accuse e lascia troppe domande aperte. A cui rifiuta di rispondere
di Sofia Basso
«I morti dell’Aquila potevano non esserci, e soprattutto essere molto meno tra i giovani». Ad ammettere che le vittime del 6 aprile si potevano salvare è nientemeno che Guido Bertolaso, commissario straordinario per il terremoto dell’Abruzzo, che in una lettera di cui left è entrato in possesso parla esplicitamente di «omissioni colpose» nella tragedia dell’Aquila. Un j’accuse “privato” quello del capo della Protezione civile. Lanciato lontano dalle telecamere e affidato a una email diretta a Sergio Bianchi, padre di Nicola, uno dei 55 studenti dell’università dell’Aquila morti sotto le macerie. Forse toccato dal dolore inconsolabile di un padre che ha perso il figlio, l’uomo di tutte le emergenze usa parole durissime: «Mi assumo la piena responsabilità di ciò che ho fatto e che faccio, insieme a quelle di chi non ha fatto e non ha assunto responsabilità quando doveva farlo per evitare la morte di persone innocenti». Sul banco degli imputati finisce un’intera «classe dirigente che - denuncia Bertolaso nella email - non ha saputo fare ciò che era possibile per evitare lutti e dolori a tante, troppe persone». E di questa classe dirigente il sottosegretario accetta «di essere parte».
Così, mentre pubblicamente il capo della Protezione civile plaude al «successo del sistema Italia, di cui dovremmo essere tutti orgogliosi», privatamente punta il dito contro «irresponsabilità colpevoli» che hanno avuto conseguenze gravissime. «È giusto - conclude - che non si chiami fatalità o disgrazia ciò che poteva essere evitato». A chi si riferisce Bertolaso? Chi sono i dirigenti che hanno sulla coscienza tante vite distrutte?
Dal suo staff fanno muro: «Le lettere che mandiamo privatamente sono private», risponde Luca Spoletini, capo ufficio stampa della Protezione civile. «Bertolaso ha la cattiva, o eccellente, abitudine di rispondere a tutti. Per quanto ci riguarda è una lettera scritta da Bertolaso a un cittadino, da uomo a uomo. Poi, se altri intendono darne notizia alla stampa, è una scelta che fanno loro, noi non confermiamo nemmeno che l’abbia mandata». Per andare oltre le accuse generiche della missiva, left ha chiesto al commissario straordinario di fare i nomi e i cognomi dei responsabili da lui evocati. Ma il portavoce si è trincerato dietro risposte di convenienza: «C’è un’indagine della magistratura in corso che certamente arriverà a conclusioni condivise e basate su accertamenti approfonditi».
Ad avere le idee chiare su quella che definiscono «una strage annunciata» sono i parenti degli studenti universitari morti all’Aquila. E non assolvono certo il capo della Protezione civile. «Parla sempre come se lui non c’entrasse niente», commenta Sergio Bianchi, centralinista del 118 di Frosinone, colui che ha suscitato la risposta del commissario straordinario con una email in cui gli chiedeva di dimettersi «perché aveva dimostrato di non capire niente di protezione e di prevenzione». Adesso Bianchi chiede a Bertolaso di fare chiarezza sui colpevoli e di specificare i suoi compiti, visto che nella lettera il commissario lo rimproverava di rifiutare «ogni distinzione di competenze, ogni distinguo sulle responsabilità». Perché il padre di Nicola non ha dubbi: «La Protezione civile non ha fatto nessuna prevenzione e ha gestito il soccorso in ritardo e male. Nei giorni precedenti al terremoto tutte le autorità tranquillizzavano i ragazzi e li invitavano a tornare nelle loro case. Nelle 48 ore in cui sono stato all’Aquila a scavare per trovare Nicola non ho mai visto la Protezione civile. Si sono salvati solo quelli tirati fuori dai genitori che stavano là: io sono arrivato alle 7:30 e i vigili iniziavano solo in quel momento, a quattro ore dal sisma, a scavare». A fargli eco è Paolo Colonna, padre di Tonino, un altro studente ucciso dal terremoto: «Sono arrivato all’Aquila a cercare mio figlio alle cinque della mattina: l’abbiamo estratto vivo ma è stato inutile. Ci abbiamo messo sei ore perché non c’era la Protezione civile ad aiutarci. Sei ore che possono essere state decisive».
I genitori dei ragazzi travolti dal terremoto puntano il dito anche contro il rettore dell’università: «Gli studenti sono andati a chiedere di anticipare le vacanze di Pasqua, perché avevano paura», racconta Bianchi, stretto nella sua t-shirt dedicata al figlio. «Al contrario alcuni corsi hanno cominciato a chiedere le firme di presenza», continua. Così molti ragazzi sono stati costretti a restare nella città che sarebbe stata distrutta dal sisma: «La fidanzata di mio figlio si è salvata perché se n’è andata. Nicola è rimasto perché aveva un esame il mercoledì prima di Pasqua. Poi sarebbe tornato a casa...». Stesso rimpianto da Paolo Colonna: «Perché non hanno sospeso le lezioni? Li hanno uccisi. Sono morti 55 studenti perché non c’è stata alcuna prevenzione, alcuna informazione». Molti studenti superstiti confermano: erano spaventati e le autorità li hanno rassicurati. «I carabinieri ci dissero di tornare nelle nostre case», raccontano Nicoletta e Marina, studentesse di Ingegneria, di Frosinone. «Di paura ne avevamo tanta perché in quattro anni non avevamo mai sentito le scosse. E in quei giorni erano sempre più forti. Siccome non avevamo la macchina, dopo la scossa delle 23:30 abbiamo preso le coperte e siamo andate a dormire al terminal degli autobus». Una storia simile la racconta Paola, di Lingue: «Ho chiesto a una volontaria della Protezione civile che conoscevo se aveva notizia di qualche pericolo. Mi ha detto di stare a casa tranquilla. Ha anche aggiunto che se avesse saputo qualcosa me l’avrebbe detto ma avrei dovuto tenerlo segreto». «Ci siamo fidati», dice amaramente Bianchi. «E pensare che alcuni studenti sono stati addirittura sgridati dai vigili perché stavano allarmando la popolazione».
Paolo Colonna, che di figli all’Aquila ne aveva altri due, ha studiato i «tanti allarmi ignorati», a cominciare da un rapporto del 2002 curato dal Servizio sismico nazionale (sotto l’autorità della Protezione civile) che stimava che all’Aquila, in caso di una scossa pari a quella che già l’aveva colpita nel lontano 1703, i morti sarebbero stati tra i 4.000 e i 14mila. Nel 2007, una pubblicazione curata dal presidente della Commissione grandi rischi Franco Barberi (con la partecipazione di Guido Bertolaso) sottolineava come «l’elevato rischio sismico nazionale» non dipendesse solo «dalla frequenza e intensità dei terremoti», ma «soprattutto dall’elevata vulnerabilità del patrimonio edilizio». Il padre di Tonino non riesce a darsi pace per il fatto che l’Abruzzo abbia scelto di mantenere il rischio al livello 2 invece di aggiornarsi all’1, come suggerito dalla nuova mappatura del 2006: «La nuova classificazione avrebbe sicuramente salvaguardato in misura maggiore l’incolumità della cittadinanza. Si è privilegiata la politica della cementificazione a disprezzo delle vite umane». Insomma, denuncia Colonna, «non solo non era stata presa alcuna seria iniziativa per scongiurare il pericolo che da molte parti si riteneva imminente, ma addirittura si faceva un’opera irresponsabile e colpevole di rassicurazione».
«Il tema del mancato allarme, che i familiari sentono come drammaticamente importante, è centrale», conferma Alessandro Gamberini, uno dei legali chiamati dalla Federconsumatori ad assistere i parenti degli studenti morti. «La scelta di non allarmare fu politica, non tecnica: si volle tenere un profilo basso per non danneggiare l’economia e non creare ansia. La gravità dell’omessa informazione non sta nel non aver previsto il terremoto ma nel non aver informato sullo stato di sismicità del territorio e sulla fragilità dell’abitato». Nessun dubbio sul principale colpevole del taciuto allarme: «La Protezione civile, che era l’organo al quale facevano capo come garanzia per l’incolumità dei cittadini l’informazione, le decisioni e la prevenzione, ha abdicato a questo compito - dichiara Gamberini -. Avrebbe dovuto coniugare il rischio potenziale del sisma, anche se basso, col rischio altissimo per le vite che sarebbe arrivato da quella scossa, dato che gli edifici non erano in grado di reggerla. Il censimento, d’altronde, l’avevano fatto». Ossia il rapporto Barberi, che già nel 1999 aveva individuato tutti gli edifici a rischio. Nel caso dei suoi assistiti, il ragionamento vale a maggior ragione, precisa Gamberini, perché erano tutti in grado di rifugiarsi fuori dall’Aquila. «Di fronte alle scosse, i genitori chiedevano ai figli di tornare a casa ma loro li rassicuravano dicendo che tutti erano tranquilli». Per l’avvocato, parte civile anche nei processi Diaz e Bolzaneto, la lettera di Bertolaso è inequivocabile: «Parla di responsabilità con troppa certezza: valuta che non è stato fatto tutto quello che si poteva. Quando il capo della Protezione civile evoca la distinzione di competenze, si riferisce evidentemente alle sfere di operatività, non solo a chi ha costruito le case».
Tutti elementi che la Procura dell’Aquila dovrà analizzare nel dettaglio. Sia i legali che i familiari delle vittime chiedono che il pm titolare dell’inchiesta sia sollevato dagli incarichi ordinari, perché altrimenti l’indagine potrebbe avere tempi lunghissimi: «Questa inchiesta ha decine e decine di filoni», precisa Gamberini. «Anche solo ricostruire l’intrico di competenze della Protezione civile è un’operazione complessa». Intanto i familiari degli studenti uccisi dal terremoto cercano di uscire dal cono d’ombra: «Dal 6 aprile nessuno ha più prestato attenzione al grande dolore che ha sconvolto la nostra vita. Sembra quasi che le proprietà immobiliari vangano più dell’esistenza dei nostri figli e dei nostri fratelli», lamentano quelli che l’11 settembre hanno trovato la forza di scendere in piazza. «Non hanno un futuro, avranno giustizia?», chiedeva uno striscione davanti a Montecitorio. Al momento non hanno avuto nemmeno l’incontro con le autorità.