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Il "mestiere" dell'Accabadora...

Post n°8 pubblicato il 10 Marzo 2008 da Efix_OG
 
Foto di Efix_OG

Il 1° maggio 2005, sulla stampa, viene pubblicato un articolo di Gianluca Nicoletti (nella foto), che narra di una leggenda sarda, legata all’attività de “S’accabadora”, da lui definita “L’accoppatrice”, tanto per rendere comprensibile il termine (ma fa esattamente l‘effetto contrario, genera confusione). Poi prosegue, in una improbabile escursione etimologica: “… Accabadora dallo spagnolo acabar, terminare o ancor più dal sardo accabaddare può significare incrociare le mani al morto, o ancora mettere a cavallo e quindi far partire…”. Tenuto conto che da questa parte della Sardegna il termine “accabaddare” non significa un ficco secco, il termine acabar non è solo un termine spagnolo, ma viene utilizzato anche da noi sardi, nella forma di accabai, che significa proprio terminare, finire. Da qui accabadora, colei che termina, mette fine alla vita. Questo tipo di ricostruzione è talmente banale che potrebbe essere fatta da un bambino, ma come ha ben detto il Nicoletti, se si è in possesso di una competenza antropologica imparaticcia c’è poco da fare, i risultati sono ridicoli, almeno dal punto di vista di chi in Sardegna vi è nato e vissuto. Tuttavia, grazie anche a qualche “dritta” ben orientata, la lettura risulta ben più verosimile di quanto si potesse pensare, anche se ci sono degli errori marchiani da correggere per evitare altre contaminazioni alla nostra storia.

E’ sicuramente un dato certo che s’accabadora abbia a che fare con la morte, ma mi sembra una definizione affrettata e poco corretta quella di professionista della morte. Che io sappia non esiste l’albo delle “accoppatrici”, ma esiste una verità storica, non una diceria, che inquadra s’accabadora nell’ottica di una prassi comune nella vita dei nostri paesi di qualche centinaio d’anni fa. Purtroppo chi studia questi fenomeni si affida a statistiche poco sensate, come quella che censisce i cosiddetti casi “documentati”. Io vorrei proprio vederla tutta quella documentazione. C’è anche la fattura rilasciata dalla accoppatrice di turno? Studi che evadono dal contesto sociale, che vanno a parare al di sopra del substrato umano, vero custode della memoria storica. Ricerche e tesi di laurea destinate a finire dentro a un cassetto o a fare catasta in una biblioteca o in un museo. Tutto questo ho poco o nulla a che fare con la verità. Una verità che non confonde rito a magia, che non scomoda leggende, demoni e balorde soluzioni per mettere fine alla moria del bestiame. Roba che non ci appartiene e che, molto probabilmente, non c’è mai appartenuta. La verità non confonde, ma chiarisce, favorisce la conoscenza e la difesa dell’identità e delle tradizioni. Come si può infatti pensare che s’attittadora sia un’attività economica (era possibile affittare) in voga in Sardegna fino agli anni ‘80. Donne specializzate in lamentazioni funebri a soggetto? Non si può confondere la cultura sarda con la più classica delle commedie napoletane. Lo stesso Totò direbbe al signor Nicoletti: “Ma mi faccia il piacere!”. Attittadora e un termine che deriva da attittu, che in origine è il canto che la madre destina al piccolo per intrattenerlo e farlo mangiare, usato nell’allattamento. La somiglianza della gestualità del rito di allattamento a quello di veglia del morto non sta infatti nell’aspetto puramente prostrale, ma si arricchisce di una serie di contenuti umani e culturali, i quali conferiscono a s’attittu un significato universale. E’ l’amore espresso tramite una serie di lamentazioni in versi, spesso cantate, che hanno il valore del dolore e rimettono a Dio l’esclusività nel istruire la morte. Era questo, infatti, il vero significato de s’attittu, accompagnare e affidare, tramite il canto di una madre, il figlio a Dio. Per la visione istrangia invece, il dolore in s’attittu è una proiezione collaterale che inquina un’immagine d’amore facendola somigliare a uno puro strazio umano, in cui la lamentazione è una litania delirante, priva di ogni contenuto culturale. Nell’ottica locale s’attittu è “la pietà”, l’omaggio reso dalla Vergine Maria al suo figlio Gesù Cristo. Niente ci nega di pensare che la Madonna accompagnasse le sue lacrime a dei versi d’amore per il suo figlio morto in croce.

Alla luce di quanto detto su s’attittu, anche la visione de s’accabbadora necessita di una rivisitazione rispetto alle parole del signor Nicoletti. La finalità è sempre e comunque l’amore, un gesto che pone fine alle sofferenze, ma che viene vissuto da s’accabadora non come una professione o una prassi sviscerata da contenuti umani e culturali.  S’accabadora è una donna che vive il suo ruolo in linea con una cristianità radicata e forte, seppur in contraddizione con il tema della fede che rifugge l’eutanasia. Ed è da questa contraddizione che emerge la peculiarità di un rito che non può appartenere a chiunque, ma inquadra una ben precisa categoria. S’accabadora è donna, è madre, è cristiana ed è cuore e anima nella contraddizione. La morte non è quindi un aiutino con la giustificazione della purificazione. Nel contesto sociale considerato, la morte è un limitare a cui spesso necessità l’intervento di un facilitatore per compiere un passaggio spesso doloroso, ma inevitabile, in cui l’elemento cruciale non è la dolcezza (che è invece metodo, è meglio che non vi dica a cosa serviva davvero “su mazzolu“), ma la liberazione. Colei che compie la liberazione è consapevole di intervenire la dove niente può ricondurre alla vita, ed è vieppiù consapevole del pesante fardello che porterà con se. In questo senso il giudizio e l’etica sono un’insignificante rappresentazione di una cultura globale che disconosce le caratterizzazioni sociali e il valore delle minoranze storiche. La Sardegna è ben più di un museo, ben più che pietra dura, statica e immutabile, da studiare al microscopio con metodi imparaticci. C’è di più che facili credenze e miti, che astruse leggende e rappresentazioni partenopee; c’è di più che santoni, maghi e streghe. La cultura sarda, il radicato spirito e la professione a una vita profonda, sotto gli strati del vuoto e del distratto mondo globale, non sono roba da scrivere facile per riempire la rubrichetta del venerdì. Certa gente farebbe meglio a parlare del traffico e del tempo, lasciando la cultura alla Cultura.

In quanto al DEMPHIR della Bonelli, farebbero meglio a scrivere a fine albo che certe storie sono una pura invenzione degli autori, vista l’imperante ignoranza sulla Sardegna; basti pensare che c’è in giro chi pensa ancora che i sardi siano una razza di omini alti due mele e poco più, con l’anellino al naso e assettati di sangue. Purtroppo non è cosi…

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