Mezzogiorno scafatese, di un’anonima domenica di fine febbraio.
Devo essere vittima di un rapimento alieno, o di una sindrome allucinatoria.
Oppure, più probabilmente, la mia personalità si sta lentamente distaccando dalla realtà, creandomi gravi problemi di percezione.
Solo così si possono spiegare le visioni distorte che mi hanno attanagliato di recente e segnatamente durante i 40 minuti (effettivi) della partita di ieri.
Non ci sono altre spiegazioni.
Noi siamo l’Olimpia, quella che in estate veniva battezzata come squadra da corsa.
A corroborare questo mio vago ricordo ci sono le dichiarazioni di Sasha Djordjevic, che ad agosto diceva di volere seguire le orme della Philips di Mike D’Antoni, sviluppando un gioco veloce, fatto di atletismo e fisicità.
Ieri, in palese scollamento con la realtà, i miei occhi hanno visto una squadra che è andata a giocare con la sola e unica idea di controllare e rallentare il ritmo.
Ma senz'altro ero in delirio e nessuno mi ha informato che l’Olimpia giocava con la maglia gialla.
Perché quelli in maglia gialla correvano che era un piacere, rapidi, veloci, contropiede primario e aggressività.
Purtroppo, non è stato questo l’unico momento di scollamento.
Ad esempio, mi è capitata un’altra cosa strana: un’allucinazione nell’allucinazione.
Perché se l’intento è quello di controllare il ritmo (e sicuramente non era così, perché noi siamo l’Olimpia piè veloce), c’è un solo modo per semplificare il compito: fare canestro, il più possibile.
È l’assioma più elementare e lapalissiano: vuoi rallentare il gioco avversario? Buttala dentro più che puoi.
O prendi tanti falli e raccogli i proventi in lunetta.
Ed ecco qui la visione: noi che spariamo a raffica da tre punti, ben 31 volte, senza una minima idea di come mandare la palla dentro, senza lo straccio di una penetrazione.
Se il tiro da tre è il meno preciso per antonomasia, a meno di particolari beneficiate che non sono e non possono essere la regola, sparare dalla lunga distanza è il modo migliore per non controllare il gioco e lasciare un parquet di velluto all’avversario.
A questo punto, dato che lo scollamento con la realtà era totale, ho addirittura visto in campo Bulleri.
Abbastanza impossibile, visto che da un mese è fermo e non poteva essere lui a stare sul parquet addirittura 18 minuti.
Sarebbe stata la mossa della disperazione, perché se vuoi controllare il ritmo, Bulleri non è il giocatore giusto, e se invece vuoi che ti rivolti la partita non puoi chiederlo a un lungodegente, che nemmeno quando stava bene è mai riuscito a farlo.
Ma la vetta massima si è raggiunta in serata.
Quando, affaticato dalle visioni, ho voluto distrarmi guardando la partita della Virtus a Capo d’Orlando.
E ho visto un tizio con il numero 7, che nei primi minuti ha rifilato tre stoppate, che ha zompato in ogni parte del campo e ha pure segnato qualche canestro importante.
Lui si chiama Hervè Tourè e chiaramente lo scollamento dalla realtà si estende anche a cose non di casa Olimpia.
Perché Tourè non deve essere niente di eccezionale, tendente allo scarso, dato che il nostro GM lo ha mollato per prendere un trentenne con il mal di schiena, che tra un mese andrà in tribuna per motivi di visto.
A meno che non si decida di tagliare Nate Green, autore di una prova sconcertante.
Green ha senso se ha un ruolo, dei paletti da rispettare, non se deve andare furiosamente a fare l'ariete senza una finalità tattica.
E lui più di tutti paga colpe non necessariamente sue.
Qui, purtroppo, le allucinazioni mi hanno abbandonato lasciandomi in balia della triste realtà.
Perché Gino Natali General Manager dell’Olimpia è una verità quotidiana, consolidata e mai in discussione.
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