Creato da: JayVincent il 07/03/2006
Tiri liberi sul mondo della Pallacanestro Olimpia Milano

Area personale

 

E-mail me @

starfish-and-coffee@libero.it
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
immagine
 
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 

 

 
« VOLI IMPREVEDIBILILA LEGGE DEL SEI »

ITALIANI, BRAVA GENTE?

Post n°158 pubblicato il 17 Marzo 2009 da JayVincent


Molto spesso si spendono parole e alimentano discussioni nella valutazione degli americani che vanno a occupare i visti disponibili all’interno di un roster.
Un argomento sempre gettonato, dato che la scelta degli Usa è molto spesso ago della bilancia: sbagliare gli americani è sempre stato uno dei più grossi incubi di manager e dirigenti, a partire dagli anni ‘80 e ’90 – quando l’ago della bilancia lo muovevano per davvero – fino a oggi.
Una volta dovevi metterne sul parquet due e quei due erano solitamente gente che spostava per davvero, sia nelle grandi piazze, sia nelle realtà di provincia.
A Firenze circolavano personaggi del calibro di JJ Anderson e Clarence Kea, nella piccola Montecatini calcava i legni uno come Mark Landsberger, la disastrata Desio accoppiava Mike McGee e Ray Tolbert.
In quegli anni provammo proprio sulla nostra pelle la differenza tra azzeccare la coppia di Usa e lo sbagliarla; passarono Orlando Graham, ritornò Earl Cureton, sempre dedito alla fuga notturna. Tappammo con Albert King la falla Bill Martin.
Ma trovammo anche le annate inaspettatamente jolly: il primo anno di D’Antoni coach, con Vincent e Cozell Mc Queen, giunto in extremis a sostituire l’inarruolabile Kenny Green.
Oppure Johnny Rogers e Darryl Dawkins, che rese comunque sotto il par.
Il primo Sasha con Antonio Davis, asse play-pivot potenzialmente con pochi rivali, devastante come un terremoto di altissima gradazione Richter.
Insomma, tutto questo preambolo per dire che la valutazione di coloro che devono, o dovrebbero, essere chiamati a fare la differenza è sempre stato argomento di gran dibattimento.
Argomento molto annacquato negli anni, con il numero sempre maggiore di extracomunitari tesserabili, di visti di riparazione e conseguenti roster in costante evoluzione.

Credo che per valutare la nostra stagione, invece, sia necessario davvero fare un discorso opposto.
E cioè, giudicare l’impatto degli italiani, su cui il progetto è stato costruito e ha determinato scelte decise.
La rinuncia iniziale a un playmaker americano, ad esempio, con la scommessa forte su una coppia nostrana.
Ma insomma, il tanto sbandierato zoccolo duro italiano, sta pagando dividendi? Come si può valutare l’incidenza che si è deciso di dare alla nazionalizzazione del roster?
Non vuole essere questo un bilancio, perché i conti si fanno sempre e solo alla fine. Diciamo che si può provare a prendere l'intermedio.
E se è corretto dire che la scelta dei visti non è stata priva di errori di valutazione, è corretto iniziare a spendere due parole su questa tendenza Made in Italy di cui ci si è voluti fare un punto d’onore.
Iniziamo dall’inizio, nel vero senso della parola: da chi l’azione la fa partire.
La coppia di playmaker è presto scoppiata, con i soliti saliscendi fisici di Bulleri, la cui conferma è stata di sicuro una delle mosse più azzardate. Rivelandosi inevitabilmente vincolante.
La stagione del Bullo non è stata altro che la conferma dei precedenti tre anni, un saltabeccare tra i ben noti problemi legati a ruolo, rendimento, contestualizzazione.
E la chiusura del suo rapporto con l’Olimpia, ahimè, rappresenta solo lo sbocco che ai più era sembrato inevitabile e che invece si evitò, correndo un rischio che difficilmente avrebbe pagato dividendi.
Il suo apripista, Luca Vitali, ha altrettanto confermato ciò che era lecito attendersi, senza che questo appaia come critica o sfiducia: un ragazzo giovane, con carattere e personalità, che catapultato in una realtà di livello superiore - fosse anche solo per pressioni e responsabilità - non poteva prendere le chiavi senza pagare dazio all'inesperienza.
Vitali ha dimostrato di avere mezzi, di avere grandissima fiducia in sé stesso e di non temere fischi o mugugni. E questa è tanta roba, molto più di quello che d’acchito può sembrare.
Però non sempre si può trasformare il ferro in oro e molte volte quest’anno abbiamo visto un Vitali non ancora adeguato al contesto.
Attenzione: non ancora. Il che non significa che il ragazzo non abbia tutte le carte in regola per essere un eccellente o addirittura straordinario playmaker. Anzi, io ritengo che abbia ottime chance di diventarlo.
Ma stiamo parlando di un ruolo complesso, in cui si raggiunge la maturità cestistica molto più tardi e per cui è necessario mettere in tasca tante piccole cose, intangibili, che fanno cambiare marcia con il tempo.
Tra gli esterni, c’è anche il cavallo di ritorno Marco Mordente: anche lui, com’era lecito aspettarsi, ha portato l’atteso carico di grinta, abnegazione, esperienza. Ma ha altresì fatto una grande fatica a trovare la sua dimensione in un telaio inconsueto, che lo vedeva partire alle spalle di Jobey Thomas e un po’ troppo spesso lo contestualizzava addirittura come ala piccola di un quintetto tattico.
Le note sono purtroppo più dolenti per quanto riguarda Mason Rocca: il giocatore non si discute, la sua fama lo anticipa ovunque.
Grande lottatore, cuore da esportazione, straordinario interprete del pick’n’roll e bloccatore di qualità superiore.
Il problema è che tutto questo bagaglio si è annacquato a dismisura, sciolto nell'acido della non integrità fisica.
Io non conosco nel dettaglio le condizioni del suo ginocchio, ma credo che le potesse benissimo conoscere Piero Bucchi.
Il coach che lo ha allenato per anni e che gli ha tirato la volata, di certo non ignorava le problematiche fisiche che già gli avevano condizionato pesantemente l’ultima stagione.
Troppo spesso abbiamo visto un Rocca coraggioso e coriaceo, ma altrettanto in grande difficoltà; le stoppate a ripetizione (subite) che ne caratterizzarono l’inizio di stagione, furono un impietoso segnale.
Un centro sottodimensionato, se non può metterci tutto il suo mestiere, diventa una preda alla mercè di avversari più tosti.
Il Rocca delle ultime due apparizioni, invece, è stato tutt’altro giocatore, in grado di affondare il coltello nell’area avversaria con le qualità che gli sono proprie e piuttosto latitanti nel panorama nostrano.
Ma quanto può durare? Questa è la domanda cui temo non ci sia risposta. E non è un interrogativo da poco, dato che parliamo di un contratto condizionante, essendo pluriennale.
Certamente non mi trovo a sponsorizzarne l’allontanamento, ma per sano realismo è giusto dire che su du lui sarà necessario fare un bel discorso a campionato finito.
Perché, ripeto, il valore del giocatore non è minimamente in discussione: ma il cinismo e la freddezza che un’Azienda deve imporsi vorrebbero che almeno si mettano sulla bilancia pro e contro. Siamo sicuri che penda dal lato dei pro?
Infine, il curioso caso di Ariel Filloy, fortissimamente voluto, tanto da giustificare l’esborso di un buyout e poi rimasto sempre e comunque a guardare.
Non che io ne spinga l’utilizzo, ma sinceramente mi aspettavo fosse un po’ più pronto. Nelle rarissime occasioni in cui è apparso, ha dato l’impressione di essere ancora del tutto inadeguato a questi livelli.

E infine, coach Bucchi, anche lui parte integrante del progetto tricolor.
Che dire? Forse valutare il lavoro di un coach è ancora più complesso. E di sicuro il suo operato non è stato esente da sfortune a ripetizione.
Troppo spesso si è trovato a lavorare a ranghi ridotti, affrontando assenze importanti e subendo, tecnicamente, l’infondatezza di alcune scelte estive (la conferma di Bulleri su tutte).
Altrettanto vero è che non ha mai dato l’impressione di saper gestire un roster lungo, quando l’ha avuto finalmente a disposizione nella sua totalità.
La scelta di turnover post Price è stata inizialmente inqualificabile, con il gravissimo errore di Bologna.
Da lì in poi l’evidenza gli ha tolto dubbi e potere decisionale; ma le rotazioni non sempre sono sembrate azzeccate, così come il timing di alcune scelte che, talvolta, me lo hanno fatto apparire come un giocatore di scacchi sempre in ritardo di una mossa.

Insomma, quale risultato da questa analisi?
Nessuno, perché come abbiamo detto per tranciare un giudizio c’è sempre tempo.
Semplicemente mi sento di dire che l’italianità del progetto, a oggi, non è stata il valore aggiunto che si desiderava, né quello che poteva essere.
Molti giocatori sono stati sotto le loro possibilità, spesso per motivi fisici, e probabilmente il solo Vitali è stato nei pressi delle (realistiche) aspettative.
Insomma, per fare un piccolo passo indietro: sarà il caso di ricominciare ad azzeccare la scelta degli Usa, valutandola con l'attenzione sacrale di un tempo.
Perché a questo prezzo, metaforico e terribilmente realistico, l’italiano non sempre vale la candela. Necessario sì, ma in un contesto che rende altamente in perdita il rapporto qualità/costo.
E come mi disse Giampiero Hruby in un’intervista di due anni fa, il vero colpo da campione nell’affare Bulleri lo ha fatto Mauro Di Vincenzo, il suo agente.
Il problema è che poi le Società pagano due volte: stipendi fuori mercato prima, prestazioni inadeguate al prezzo poi.
E il budget si asciuga.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
La URL per il Trackback di questo messaggio è:
https://blog.libero.it/olimpiamilano/trackback.php?msg=6711857

I blog che hanno inviato un Trackback a questo messaggio:
 
Nessun Trackback
 
Commenti al Post:
Nessun Commento
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963