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« Il detenuto paga vitto e...Ci sono donne che stanno... »

Lettere dal carcere

Post n°62 pubblicato il 04 Febbraio 2008 da geko1963
 

La verità è faticosa: dire o non dire che siamo stati in carcere

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

   Se vai a cercare un lavoro, e non nascondi di avere dei precedenti penali, spesso ti senti rispondere: grazie, la richiameremo al più presto. E poi nessuno ti richiama, e lo capisci da solo, che non ti vogliono. Allora la tentazione di non dirlo, e di provare a presentarsi come una persona "normale", è forte, ma ha i suoi rischi. Le testimonianze che seguono fanno i conti proprio con questa difficile scelta: vale la pena o no accettare la sfida della sincerità?

 

Essere accettata per quello che sono realmente

 

Dire o non dire che siamo stati in carcere: qualcuno pensa che è meglio non farlo sapere, ma vero è anche che la propria vita non si vorrebbe che fosse tutta finzione, tutta un’impalcatura che si regge su un terreno fangoso che prima o dopo cede.

Abbiamo già vissuto nella menzogna: finché "combini" le tue malefatte devi raccontarne di bugie, devi far finta di essere un’altra cosa da quello che sei, devi far finta che fai cose diverse da quelle che fai realmente. Poi, finché sei in carcere non puoi permetterti di essere te stesso. Ne va della tua sopravvivenza. E allora, quando esci..? Che fare? Io sono uscita con il lavoro esterno, di giorno una "persona normale", di sera rientro in carcere con tutto quello che significa. Una vita divisa a metà. Una vita schizofrenica.

Allora ho fatto i conti con me stessa, con quello che ho sempre pensato di essere, con quello che ho cercato con le unghie e i denti di rimanere anche durante gli anni di carcerazione: una persona. Vera. Integra. Sincera con me stessa e con il prossimo. E poi i rapporti umani, quelli veri, non devono essere basati sulla menzogna. Non devono reggersi su una sincerità brutale, quella che potrebbe infastidire, ferire, far soffrire, ma su quella sincerità che ti fa conoscere il più possibile per quello che sei, di modo che chi hai di fronte possa decidere se vuole realmente rapportarsi con te oppure no.

E ho deciso. Dovevo dirlo ai miei colleghi. Lavoravo in una pasticceria rinomata. I due responsabili del negozio e il datore di lavoro erano a conoscenza della mia situazione, ma gli altri colleghi non ne sapevano nulla. Ed ero ritenuta una snob perché, ogni volta che si decideva di mangiare una pizza insieme dopo la chiusura, o quando c’erano le cene "aziendali" io rifiutavo gli inviti perché dovevo rientrare in carcere.

Beh. L’ho detto. Non a tutti insieme. Dopo aver studiato le persone che avevo davanti, dopo che mi avevano conosciuto per quello che sono, dopo che ritenevo che fosse giunto il momento opportuno, ognuno con i suoi tempi (non tutti sono "aperti" allo stesso modo, ma so che i pregiudizi sono basati sull’ignoranza, sulla non-conoscenza), l’ho detto a un collega dopo pochi giorni, all’ultima dopo tre mesi. Alla fine ho raggiunto un doppio risultato: essere accettata per quello che ero realmente e minare delle certezze e dei pregiudizi che la maggior parte della gente "normale" ha.

Quando, dopo aver ottenuto di scontare gli ultimi mesi di pena in affidamento ai servizi sociali, ho trovato lavoro nella mia città e, con un certo dispiacere, mi sono licenziata, colleghi e clienti mi hanno dimostrato tutta la loro amicizia, tutto il loro dispiacere per il fatto che me ne andavo. Mercoledì scorso ero a Venezia e mi sono incontrata con un amico veneziano, che è rimasto allibito quando si è reso conto di quanta gente mi salutava con vero affetto, dopo che avevo lavorato solo nove mesi in questo posto. Tutta gente che sapeva.

 

Paola

 

Provo a mettermi nei panni dell’eventuale datore di lavoro

 

Mio nonno, con la sua saggezza da vecchio contadino, usava ripetermi: "Dove c’e una salita è sicuro che si trova anche una discesa". Da bambino, mi sembrava assolutamente scontato ciò che mi diceva, eppure con il passare degli anni ho cominciato ad apprezzare quella filosofia così rassicurante. Ho ripensato a lui quando abbiamo discusso del problema di chi, detenuto, esce dal carcere e deve mettersi alla ricerca di un lavoro, e ci siamo chiesti se nella presentazione del proprio curriculum si debba rivelare di essere un ex detenuto. Dire o non dire questa verità così pesante?

Fermo restando che la Costituzione sancisce il diritto al lavoro per tutti, di fatto non si è obbligati a dire di aver scontato una pena, ma è sufficiente mostrare le proprie capacità lavorative e assumersi la responsabilità di svolgere i compiti che verranno assegnati con impegno e professionalità. Il lavoro naturalmente è un diritto che non solo va salvaguardato, ma anche difeso da eventuali interferenze.

Però, proprio per il fatto che la ricerca di un lavoro per chi esce dal carcere si accompagna alla necessità di un reinserimento nel contesto sociale, bisogna ricordarsi che il datore di lavoro, offrendo tale possibilità, fa in un certo senso un tacito accordo con la persona che assume, basato sulla reciproca fiducia. È vero che tacere non vuol dire mentire. Però, considerato che prima o poi le cose possono venire alla luce, e che magari questo farebbe venir meno quel rapporto di fiducia che avrebbe dovuto essere instaurato sin dall’inizio, sono convinto che il rischio di ritrovarsi di nuovo in mezzo alla strada sia troppo alto.

Personalmente penso che, pur essendo un rischio anche dire come stanno le cose, sia doveroso farlo, se si vuole davvero che il rapporto parta da subito su una base di onestà. Credo poi, se provo a mettermi nei panni dell’eventuale datore di lavoro, che scoprire successivamente come stanno le cose, magari tramite terzi, mi farebbe automaticamente diffidare della persona che mi ha taciuto un simile problema.

Bisogna sempre affrontare il proprio passato, proprio perché è incancellabile e ce lo portiamo dietro come un bagaglio scomodo, comunque un bagaglio di esperienze che personalmente ritengo negative, ma che non può essere né nascosto, né negato, se si vuole davvero costruire, per il proprio futuro, qualcosa di nuovo e di diverso. E non credo neanche che ci voglia troppo coraggio: in fondo, aveva ragione mio nonno, c’è la salita, la fatica di dire la verità, ma c’è anche la discesa, il sollievo che si prova a dirla.

 

Maurizio B.

 

Meglio non dire

 

Mi è capitato spesso di parlare del momento in cui uno deve affrontare un colloquio di lavoro reale e di come porsi di fronte al datore di lavoro, se sia meglio dire o non dire che si è stati in carcere.

Voglio però premettere che la privacy davvero non esiste. È sufficiente che uno sia finito, come il sottoscritto, sul giornale e "grazie" a Internet si possono scoprire tutti i precedenti, tutti i disastri che una persona si guarda bene dal raccontare in giro, proprio per evitare di venire additato come ex-galeotto. Questa è un’etichetta che difficilmente riusciamo a staccarci di dosso già noi stessi, perché anche a distanza di tempo, rimane lì, chiusa dentro ognuno di noi, ma visibile nei comportamenti, negli atteggiamenti, nei rapporti con la gente.

Tutti parliamo di diritto al lavoro, ma sfido chiunque ad andare a cercarsi un lavoro mostrando un curriculum che lo porta ad ammettere, nei suoi trascorsi lavorativi, di aver fatto lo scopino, il portavitto, il cuciniere, perché questi sono i lavori "da galera".

Io credo che il metodo migliore non sia quello di svendermi, ma di propormi come una persona normalissima che cerca un lavoro e si prende anche il lusso di valutare se le condizioni lavorative proposte sono adeguate o meno. È ovvio che se uno non ha un mestiere in mano, si deve accontentare di un lavoro qualsiasi, che il più delle volte è offerto dalle Cooperative Sociali. Ma se ho invece la possibilità di rivolgermi ad una azienda privata perché sono in possesso dei requisiti richiesti, perché mai dovrei giocarmi un lavoro con uno stipendio forse più appetibile di quello di una Cooperativa Sociale? Anche se certo non voglio criticare le Cooperative, anzi, per la maggior parte delle persone come me, sono l’unica possibilità di ricostruirsi un’esistenza normale, per molti anche un trampolino di lancio nel mondo del lavoro o più semplicemente un posto dove imparare un lavoro, con i ritmi e le responsabilità che comporta.

Ma perché dovrei dire al datore di lavoro che sono stato in carcere, con il rischio di essere discriminato dai colleghi, o peggio, di essere messo in una situazione di sorvegliato speciale, che se per caso sparisce anche solo una vite in azienda, i sospetti ricadono subito su di me? Oppure di sentirsi dire a fine colloquio: "…le faremo sapere!", e mentre con aria mesta ti avvii all’uscita, scorgi che c’è qualcuno che sbircia dai vetri per assicurarsi che tu sia veramente uscito dal cancello. Ho pagato il mio debito con la società? Bene, allora credo sia giusto ripartire mettendosi alle spalle il passato, ovviamente senza dimenticarlo.

 

Flavio

 

 
 
 
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IL MITO

 

HASTA SIEMPRE COMANDANTE GUEVARA

Il potere ha sempre paura delle idee e per arginare la lotta degli sfruttati comanda la mano di sudditi in divisa e la penna di cervelli sudditi. Assassinando vigliaccamente il Che lo hanno reso immortale, nel cuore e nella testa degli uomini liberi. Negli atti quotidiani di chi si ribella alle ingiustizie. Nei sogni dei giovani di ieri, di oggi, di domani!     

 

ART.1 L. 26 LUG 1975, N. 354

Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono copnsiderati copevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reiserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti. 

ART. 27 COSTITUZIONE

La responsabilità penale è personale.

L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalla legge (La pena di morte non è più prevista dal codice penale ed è stata sostituita con la pena dell'ergastolo)

 

TESTI CONSIGLIATI

Sociologia della devianza, L. Berzano e F. Prina, 1995, Carocci Editore.
Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza,
E. Goffman, Edizioni di Comunità, 2001, Torino.
Condizioni di successo delle cerimonie di degradazione
, H. Garfinkel.
Perchè il carcere?,
T. Mathiesen, Edizioni Gruppo Abele, 1996, Torino.
Il sistema sociale,
T. Parsons, Edizioni di comunità, 1965, Milano.
Outsiders. saggi di sociologia della devianza,
Edizioni Gruppo Abele, 1987,
Torino. La criminalità, O. Vidoni Guidoni, Carocci editore, 2004, Roma.
La società dei detenuti, Studio su un carcere di massima sicurezza,
G.M. Sykes, 1958. Carcere e società liberale, E. Santoro, Giappichelli editore, 1997, Torino.

 

 

 

 


 

 

 

 

 
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