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Quelli che non hanno voce

Post n°65 pubblicato il 12 Febbraio 2008 da geko1963
 

 Da "ristretti orizzonti"

di Salvatore Maruzza

 

Racconto la mia storia. La storia di tanti come me. Racconto la storia di chi si ritrova nel momento forse più bello della vita a dividerlo, a torto o a ragione, solo con se stessi. Mi trovo in carcere. Mi trovo solo con i miei pensieri. Ho davanti il rimorso di una coscienza che non sa rassegnarsi. Mi trovo in carcere con le mie paure, con le mie angosce. Vorrei raccontarmi, raccontare. Rivelare i miei segreti, il mio vero io. La notte la luna è a strisce. La guardo con la malinconia dei giorni più bui.

Ho ventisette anni. Un passato turbolento alle spalle ed un presente tutt’altro che sereno. Mi considero un diverso. Diverso non per una mancanza fisica o intellettiva. Diverso perché tale è la persona che si trova in questi luoghi. Diverso per condizione naturale, per forza di cose.

I diversi sono quelli che non hanno voce o ce l’hanno così bassa che nemmeno si sente. Quante volte ho cercato di alzarla. Quante volte ho cercato di farmi sentire. Il mio interlocutore è diverso da me. Dopo tanta carcerazione sto maturando l’idea che sia lo spettro di me stesso. A volte credo che sia questa la vera punizione per ciò che ho fatto. Alzo la voce trovando innanzi a me un muro: un muro sempre più alto e sempre più spesso. La mia istanza è più semplice di quello che si pensi. Chiedo solo di essere ascoltato. Chiedo quello che credo mi spetti. Quello che spetta ad un uomo che, dopo tanti errori, cerca un suo definitivo riscatto. Non si può pagare a vita. Non servono anni di reclusione quando nell’animo di ognuno di noi ci si sente pronti al ritorno nelle vita reale.

Il mio interlocutore, dunque, è diverso da me.

Io rappresento solo me stesso, con le mie paure, le mie tristezze, le mie angosce. Lui rappresenta l’istituzione, la legge, il dito che mi si punta contro per ricordarmi che ho sbagliato e sono un diverso. Voglio che il mio interlocutore sappia che, per me, lui non ha un volto. Lo rispetto, perché credo nelle diversità dei ruoli, delle funzioni. Lo rispetto perché prima ancora di essere il mio contraltare, è un uomo: un uomo come me. Quell’uomo che invece mi considera un diverso. Per fortuna non tutti i miei interlocutori sono uguali. C’è chi è rispettoso. Chi mi guarda e non mi giudica. Ci sono momenti però dove non esiste alcun dialogo. Esiste solo l’arroganza, la sopraffazione: quellillusione potenziale insita nella mente dei più.

Quante volte ho sentito questa frase: “Non importa; passaci sopra. Se davvero cerchi il cambiamento devi essere forte perché nel cammino troverai sempre simili interlocutori”. Faccio fatica a credere di essere un uomo libero quando uscirò da qui. Non si è liberi per il solo fatto di fare quello che si vuole. Si è liberi solo quando si è vivi dentro.

 


 

Il lavoro e la disciplina

 

di Vittorio Caserta

 

Dopo tre anni e mezzo trascorsi all’Istituto a Custodia Attenuata di Eboli, con un residuo pena un paio d’anni, seguendo il programma riabilitativo che l’Istituto di Eboli porta avanti, finalmente approdavo all’articolo 21 (ammissione al lavoro esterno). Era vero anche il contratto di lavoro e me ne resi subito conto, non tanto per la busta paga che pure era molto magra, ma a causa della pesantezza del lavoro: asfaltista. Lavoravo cioè con una ditta che si occupava di riparazione delle strade e per giunta a notevole distanza dal carcere, il che significava che dovevo uscire dal carcere alle ore 06,00 del mattino per farvi rientro alle ore 21,30.

Il pranzo sul ciglio della strada, un panino e via. Si riprendeva a lavorare rapidamente. Si trattava di un lavoro pesantissimo che non avevo mai fatto e ogni mattina era una fatica infernale doversi tirare su dal letto, le ossa rotte, ma ne valeva la pena. La paga migliore consisteva in dosi massicce di fotoni di libertà… aria aperta, spazi liberi. E se c’era da sgobbare come un ciuccio, poco male, valeva la pena. La sera consumavo in carcere un pasto vero che i miei compagni di pena mi tenevano da parte. Mi addormentavo quasi col boccone in bocca, distrutto dal lavoro. In breve avevo recuperato unalinea” da fare invidia a tutte le diete!

Devo dire che fui tentato più volte di abbandonare… era troppa la fatica. Ma c’erano almeno un paio di ragioni che mi inducevano a resistere: intanto l’esecuzione della pena fuori dal carcere era per me una bella conquista da difendere: valicare il muro ogni mattina era ogni giorno unesperienza nuova ed entusiasmante. Anche l’esercizio con un lavoro, sia pure faticoso, alludeva ad una vita diversa rispetto al passato. Riuscire a reggere la fatica, pertanto, era per me una scommessa che al tempo stesso mi introduceva alle strade che volevo percorrere a fine pena.

Ma cera un ulteriore motivo, forse il più forte, che mi faceva stringere i denti e andare avanti anche quando, specialmente i primi giorni, non ce la facevo proprio a tirarmi su dal letto alle cinque del mattino. Questo motivo si chiamava Giusy, la ragazza che da un pezzo mi seguiva con sentimenti che si erano incrociati con i miei. Potevo vederla, sia pure di sfuggita al rientro la sera, quasi tutti i giorni. Lei conosceva i miei orari, sapeva quando arrivava l’autobus… mi attendeva paziente e poi mi accompagnava per un breve tratto di strada durante il quale mi dimenticavo anche tutta la stanchezza della giornata lavorata.

Erano tutti motivi che ritenevo validi, né avevo il tempo e la possibilità di pensare ad altro. La prigione, il lavoro, gli affetti e negli occhi il fine pena che prima o poi sarebbe arrivato restituendomi insieme la libertà e l’autonomia con qualche progettino di vita che pure andava facendosi strada nel mio pensiero. Insomma, sia pure al prezzo di una grande fatica, tutto sembrava andare per il meglio. Di trasgressioni non avevo la più pallida idea. Anche tutti i discorsi, i gruppi, i colloqui praticati nell’Istituto per tre anni mi ritornavano di fronte ad ogni sforzo che questo particolare lavoro mi richiedeva ogni giorno.

Ma tant’è… l’incidente si è prodotto allimprovviso, a seguito di una giornata di pioggia che ci ha impedito di lavorare. O meglio, abbiamo lavorato sulla strada per mezza giornata, poi la pioggia incalzante ha fermato le macchine e le persone. Gli altri operai sono tornati a casa, io avrei dovuto fare rientro in carcere nel primissimo pomeriggio come disposto dal mio programma trattamentale.

E invece no, mi parve un’occasione buona per starmene qualche ora in compagnia della mia ragazza presso la sua abitazione, unitamente alla sua famiglia. Mi sembrò che non ci fosse nulla di male in un simile comportamento. Non mi accompagnavo a gente di malaffare, non andavo a fare nulla di male a nessuno, neppure restavo per strada e, anzi, coltivavo un legame sano che mi era stato e mi è, spero mi sarà, di grande aiuto, anche in termini di una progettualità futura. Ma la mia ingenuità (o dabbenagine?) è stata grande giacché era scritto grosso come una casa sul programma che nel caso di interruzione del lavoro avrei dovuto fare immediato rientro in carcere.

A “tradirmi” ci pensò il mio datore di lavoro che comunicò tempestivamente al carcere l’interruzione della giornata lavorativa. Non si trattò di un tradimento vero e proprio giacché sapevo benissimo che lui era tenuto a farla tale comunicazione. In breve, ho fatto la mia “frittata” e non so ancora spiegarmi in base a quale ragionamento mi sono trattenuto fuori dal carcere per tutto il pomeriggio, facendo rientro alla solita ora. Non pensavo di ingannare nessuno e neppure me stesso.

Forse ha giocato la sua parte il fatto che mi intrattenevo con gente perbene per coltivare un rapporto affettivo autentico e sano. Un’ingenuità sciocca che nessuno mi avrebbe perdonato. E neppure io riesco a perdonarmela. Adesso è di nuovo carcere, il vecchio, pietroso carcere, senza più spazio per riprogettare la mia vita futura, anche perché con un precedente simile è difficile pensare che tutto possa riprendere.

Tuttavia, in questi giorni di richiusura, penso e ripenso se non poteva esserci un altro modo di punirmi. Mi sento con le gambe tagliate e forse sarebbe stato più utile un calcio negli stinchi, chissà, magari l’abolizione per un periodo di tutte le cose “premiali”, ma senza togliermi anche il lavoro. Forse cera lo spazio per una punizione del genere che sarebbe servita a me ed al carcere stesso molto di più che una chiusura netta e definitiva. Anche perché il lavoro, per i detenuti, è un… diritto che bisognerebbe forse salvaguardare. Specialmente in considerazione che è così difficile trovarne uno vero, almeno dalle nostre parti!

E mi chiedo anche se la persona che esce dal carcere per lavorare non deve essere null’altro che forza lavoro, quasi un automa senz’anima, senza sentimenti e senza cose umane alla pari con tutte le persone del mondo. Credo che forse queste cose andrebbero considerate, anche perché se è vero che tutte le persone devono avere una buona ragione per mettersi in piedi ogni mattina, ciò non può non valere anche per le persone in esecuzione penale.

Naturalmente non mi arrampico sugli specchi, cerco solo di capire se non vale la pena considerare anche gli altri aspetti umani quando una persona esce per il lavoro allesterno. Mi risulta che in alcuni carceri (Rebibbia) questo aspetto viene considerato, addirittura le persone in articolo 21 hanno un tempo quotidiano e addirittura escono sul fine settimana per coltivare gli affetti familiari.

Al di là del mio errore che resta tale, anche se forse poteva trovare altre forme di sanzione senza troncare tutto in modo così inesorabile, mi viene da pensare che il lavoro è una cosa importante, specialmente per chi come me deve sperimentarlo, ma non può essere la sola cosa importante nella vita di una persona. E non c’è dubbio che chi esce in articolo 21 per lavorare non è un somaro bensì una persona come tutte le altre persone. Per reggersi in piedi anche questa persona ha bisogno anche di altre cose che devono perciò trovare lo spazio per potersi esplicare, sia pure nella misura minima indispensabile date le condizioni particolari che accompagnano la persona in esecuzione penale.

Lo dico non per lamentarmi, ma perché sulla base del mio errore possa io e non solo io ricavarne qualche insegnamento utile, giacché è verosimile immaginare che… altri verranno a trovarsi in situazioni simili ed è molto brutto, quello sì, accordarsi col datore di lavoro per ritagliarsi una frazione di tempo umanamente indispensabile a coltivare i rapporti affettivi e familiari faticosamente ricuciti e alla base di ogni emancipazione possibile. Non c’è dubbio che io abbia fatto una sciocchezza, ma quante sciocchezze una persona nelle mie condizioni può fare?

Ci sarà pure qualche differenza tra chi facendo una sciocchezza non reca danno ad alcuno e neppure a se stesso e chi invece fa sciocchezze d’altra natura danneggiando sicuramente se stesso ed anche altri (basterebbe pensare alle ricadute, le droghe, i soldi… tutte cose che non mi sono passate neanche per lanticamera del cervello durante il periodo che mi ha visto fuori dal carcere). Mi resta lamarezza di avere commesso un errore per il quale è stata usata la medicina più radicale. Forse dietro le cose esemplari cè sempre il monito della deterrenza, ma io non credo in questo giacché se fosse vero allora la pena capitale dovrebbe dissuadere tutti i criminali e pare che così non sia.

 
 
 
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IL MITO

 

HASTA SIEMPRE COMANDANTE GUEVARA

Il potere ha sempre paura delle idee e per arginare la lotta degli sfruttati comanda la mano di sudditi in divisa e la penna di cervelli sudditi. Assassinando vigliaccamente il Che lo hanno reso immortale, nel cuore e nella testa degli uomini liberi. Negli atti quotidiani di chi si ribella alle ingiustizie. Nei sogni dei giovani di ieri, di oggi, di domani!     

 

ART.1 L. 26 LUG 1975, N. 354

Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono copnsiderati copevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reiserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti. 

ART. 27 COSTITUZIONE

La responsabilità penale è personale.

L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalla legge (La pena di morte non è più prevista dal codice penale ed è stata sostituita con la pena dell'ergastolo)

 

TESTI CONSIGLIATI

Sociologia della devianza, L. Berzano e F. Prina, 1995, Carocci Editore.
Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza,
E. Goffman, Edizioni di Comunità, 2001, Torino.
Condizioni di successo delle cerimonie di degradazione
, H. Garfinkel.
Perchè il carcere?,
T. Mathiesen, Edizioni Gruppo Abele, 1996, Torino.
Il sistema sociale,
T. Parsons, Edizioni di comunità, 1965, Milano.
Outsiders. saggi di sociologia della devianza,
Edizioni Gruppo Abele, 1987,
Torino. La criminalità, O. Vidoni Guidoni, Carocci editore, 2004, Roma.
La società dei detenuti, Studio su un carcere di massima sicurezza,
G.M. Sykes, 1958. Carcere e società liberale, E. Santoro, Giappichelli editore, 1997, Torino.

 

 

 

 


 

 

 

 

 
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