Creato da OVIDIOPUBLIO il 30/12/2005

CULTURA LIBRI E...

IPAZIA, MALINCONIA, ARTEMISIA

 

Ateismo religioso: è più facile dirsi atei o credenti ai giorni nostri?

Post n°14 pubblicato il 06 Dicembre 2012 da OVIDIOPUBLIO
 

Featured image, ritratto di Denis Diderot (1713-1784)

di Riccardo Alberto Quattrini.

A pormi questa domanda, è stato un’intervista ad Alain de Botton apparsa su La Lettura. “Sono cresciuto in una famiglia atea convinta, figlio di due ebrei laici, persuasi che la fede religiosa equivaleva pressappoco a voler bene a Babbo Natale” questo è quanto dice della sua famiglia Alain de Botton scrittore svizzero. E prosegue nel sostenere che la società laica rifugge l’idea della parola moralità, o predica. Che non è necessario che l’arte debba trasmettere un messaggio edificante o incarnare un progetto etico. Ecco, allora mi sono domandato, come affermavano i latini: affirmanti incumbit probatio, cioè l’onere della prova spetta a chi sostiene un’idea? La prova, pertanto, è sulle spalle del credente, di colui che afferma l’esistenza di Dio? Mostrami che esiste, è la richiesta più semplice che si chieda a colui che afferma di credere. Mai che la stessa prova si richieda a chi afferma il contrario: mostrami perché non esiste. E' solamente un'allegoria.

Niente di tutto ciò. Anche Sigmund Freud aveva evidenziato come i meccanismi psichici riescono a far nascere il senso del sacro nella nostra mente, come pura illusione, partorita dalla nostra mente, in tedesco si direbbe Besetzung per dire che con poco si riceve molto. E ancora: “L’uomo tende a costruirsi una falsa rappresentazione della realtà, utile per evitare la nevrosi da iper-investimento psichico…” Un altro pensatore ateo è il matematico Piergiorgio Odifreddi che in un suo libro: “Perché non possiamo essere cristiani” e nel sottotitolo specifica; (e meno che mai cattolici), – nessuno che metta mai in discussione la fede verso il Dio dei mussulmani ad esempio, che ha la stessa radice cristiano ebraica – si cimenta con il considerare il libro della Genesi “La prima stazione della nostra via crucis è l’inizio di tutti gli inizi” egli, come uomo di scienza, considera affermare che quello della Bibbia sia l’unico Dio sia una “bestemmia” nei confronti di coloro, da Pitagora a Platone, Spinoza ed Einstein, che hanno da sempre identificato l’universo con l’intelligenza e l’armonia del mondo. A leggere quei nomi così importanti e attribuire loro un totale ateismo è troppo riduttivo e troppo comodo.

Di Platone potremmo semplicemente citare l’Apologia di Socrate che a un certo punto fa dire a Socrate: “Ma ecco è l’ora di andare, per me di andare a morire, e per voi di continuare a vivere; chi di noi vada verso un migliore destino è oscuro a tutti fuori che a Dio”. Se prendiamo poi Baruch Spinoza il grande filosofo Olandese, e lo classifichiamo come ateo, sbagliamo. Quando ricevette la scomunica il 27 luglio 1656 l’eresia che gli contestarono era quella di non credere all’immortalità dell’anima. Mentre il suo pensiero era di non voler identificare un Dio-uomo come quello biblico. Non che Spinoza non credesse nella Bibbia, anzi, da essa diceva si possono trarre fonti d’insegnamenti morali, ma diceva che non per questo esse sono delle verità. Come si vede egli, non si considerava ateo nel termine che noi diamo alla parola ma, casomai, studioso del termine Dio.

Penso che il grande errore di tutte le religioni, sia stato quello di aver attribuito al dio un antropomorfismo teologico, mentre se immaginiamo un dio che mai ha avuto a che fare con l’uomo, ma un Dio universale, inteso nel più alto e infinito concetto del termine, forse, dico forse, potremmo anche pensare che esista.

 
 
 

Arte contemporanea? La potevo fare anche io….

Post n°13 pubblicato il 06 Dicembre 2012 da OVIDIOPUBLIO
 

Scultura “Reclining Figure” (Figura Adagiantesi), a Rotterdam di Willem de Kooning, autore foto Gerardus, fonte Wikipedia

di Riccardo Alberto Quattrini.

C’è un libro edito da Mondadori dal titolo: “Lo potevo fare anch’io” di Francesco Bonami critico d’arte, il quale dice che, tutti, almeno una volta nella vita, davanti a un’opera d’arte contemporanea abbiamo pensato: “Questo lo potevo fare anch’io!”.

Forse, se vi è capitato di visitare, volutamente, o per caso, magari invogliati da un amico, una mostra d’arte moderna o contemporanea, vi sarà capitata la medesima considerazione: “Questo lo potevo fare anch’io!”. E sì, perché la gente che non se ne intende di critica davanti a delle tele di Lucio Fontana dove si vedono unicamente dei tagli verticali o addirittura tre leggermente obliqui con i seguenti titoli: “Concetto spaziale” o “Attese”, ci resta per un attimo basiti e sconcertati. Poi ci si riflette e ci scappa la frase banale: “Beh, che ci sarà mai di tanto difficile?”. Oppure pensate trovarvi di fronte dei quadri di Arman con tele dai titoli strani: Aòllures, Empreintes o Estampes.Tele che se pure cerchi una prospettiva, un punto di vista diverso, pensi sempre e costantemente alla stessa frase: “Questo lo potevo fare anch’io!”. E che dire di Robert Ryman artista statunitense, considerato minimalista o artista concettuale che significa un’arte fondata esclusivamente sul pensiero e non sul concetto di estetica. Eppure l’estetica fa parte della filosofia, in questo caso la conoscenza del bello naturale, o artistico, in poche parole un giudizio morale e spirituale. In un attimo cadono tutti i principi per cui hanno disquisito: Platone, Aristotele, Kant. Eppure i critici si affanno a dirci che siamo alla presenza di capolavori e i collezionisti a fare a gare per aggiudicarsi un’opera di quella portata, spendendo cifre da capogiro; per non parlare dei giornali che incensano questi artisti, li circondano con un’aura di mistero, come se ci si trovasse di fronte ai geroglifici prima della scoperta della Stele di Rosetta, alla cui comprensione sembrano ammessi solo pochi eletti. A questo punto ci si domanda se è una questione di cultura, magari uno al liceo, durante la lezione di storia dell’arte, giocava col compagno alla battaglia navale. Poi ti viene in mente un nome: Piero Manzoni che negli anni ’60 sigillò novanta barattoli di conserva ai quali applicò un’etichetta sulla quale scrisse in varie lingue: “Artist’s shit” o “Künstlerscheiße” oppure “Merde d’Artist”, evito la scritta in italiano, in quanto di facile intuizione. Ebbene questi30 grammi, furono venduti ciascuno, pari all’equivalente del prezzo dell’oro. Agostino Balumi, compagno dell’artista, in un’intervista al Corriere della Sera dell’11 giugno del 2007 si espresse cosi: “Posso tranquillamente asserire che si tratta solo di gesso. Qualcuno vuole constatarlo? Faccia pure. Non sarò certo io a rompere le scatole”

Pensate che in tutti questi anni, qualcuno di coloro che se le aggiudicarono, le abbia aperte? Così, solo per pura curiosità.

 
 
 

Etere, le escort dell’antica Grecia

Post n°12 pubblicato il 06 Dicembre 2012 da OVIDIOPUBLIO
 

Socrate e Alcibiade in casa di Aspasia. Dipinto di Jean-Léon Gérôme (1861)

di Riccardo Alberto Quattrini.

Eleganti, colte e raffinate, l’etère erano le sole donne che, ad Atene, potessero permettersi di svolgere una vita al di fuori delle mura domestiche.

Luciano di Samosata (capoluogo della Commagene di Siria), nato presumibilmente nel 120 d.C. scrittore e retore greco, così le descriveva: “Prima di tutto è curata ed elegante. E’ allegra con tutti, ma non ride fragorosamente… Sorride in maniera ammaliatrice, poi tratta gli uomini con abilità, senza ingannare quelli che le fanno visita o che la portano a casa loro, né si offre senza essere sollecitata. Nei banchetti a cui viene portata fa attenzione a non ubriacarsi… E a non buttarsi sul cibo in modo indecente. Parla solo se necessario, non ride dei commensali, guarda solo colui che l’ha pagata. Per questo la desiderano tutti. Quando è il momento di andare a letto con lei, non si mostra né troppo disponibile, né indifferente, cerca solo di rendersi gradevole al suo amante ti turno e di conquistarlo”.

Di questo genere di donne, nell’antichità ve ne erano, ma non molte. Infatti, c’è da distinguere tra etère (dal greco hetaìra “amiche, compagne”) e prostitute (pornai), meno fortunate delle prime, facevano quel mestiere per potersi procurare il cibo. Spesso di origini umili, catturate dai vincitori dopo le battaglie, i Greci davano per scontato il diritto di imprigionare e schiavizzare il maggior numero di persone catturate nella zona conquistata. Nella Grecia antica la prostituzione era legale e moralmente accettata. Molte erano dunque le donne prigioniere che venivano vendute all’asta, per essere poi messe a lavorare nei bordelli. A seconda dell’età, dell’aspetto, della personalità, ma anche del talento personale (e della fortuna), esse potevano diventare prostitute di diverso tipo. Erano molte coloro che offrivano i propri servigi nelle locande del Pireo, mentre, come si è detto, le più fortunate erano l’etère. Esse ricevevano gli uomini nella propria casa durante il giorno, mentre la sera partecipavano alle riunioni maschili (simposi), dove le mogli e le figlie non erano ammesse. Molti dipinti dei vasi, ci mostrano l’etère nei banchetti nude o succintamente vestite, mentre suonano il flauto o danzano. In questi banchetti si mangiava, si beveva, si dava, insomma, soddisfazione allo spirito e al corpo.

Frine, una delle cortigiane più ambite della Grecia del IV secolo, oramai ricchissima, propose il restauro delle mura di Tebe distrutte da Alessandro Magno i suoi conterranei rifiutarono irritati. Non perché non ne apprezzarono l’offerta, solamente per le condizioni che ella pose, una lapide con la scritta: “Alessandro l’ha distrutta, Frine l’ha fatta risorgere”. Non era possibile per i Tebani offrire ad una cortigiana tanto onore.

Il suo vero nome era Mnesarete cioè: “Colei che fa pensare”, molto ironico. Scappata da Tespie, piccola cittadina in provincia della Beozia, distrutta da una delle solite e innumerevoli faide fra città della Grecia. Di umili origini, sembrerebbe abbia fatto la raccoglitrice di capperi, secondo quanto scrisse Timocle poeta coevo, per sbarcare il lunario. Il suo soprannome: Frine significava “ranocchietta”, era dovuto per la morbidezza della sua pelle, che molti in Atene, sua città d’adozione, apprezzarono. Per i Greci di un certo livello sociale, avere accanto un’etèrea era uno status symbol. Infatti, la prima regola era quella di poterle mantenere. Così uomini politici, poeti, artisti, pagavano per averle accanto nelle occasioni ufficiali. Tali frequentazioni altolocate, permisero a Frine di farsi una cultura. Era questo che le distingueva da una donna di strada (pòrne). Il celebre pittore Apelle, vedendola un giorno uscire nuda dall’acqua la volle come musa per la sua Afrodite Anadiomene (“che sorge dalle acque”). Anche lo scultore Prassitele la prese a modella. Quando Frine gli chiese quale statua era la meglio riuscita, per reclamarla come compenso, rifiutandosi di rivelarla, essa usò l’astuzia. Lo fece chiamare da uno schiavo per avvertirlo che il suo studio stava andando a fuoco. Era una frottola, ma tanto bastò per spaventarlo a morte, tanto da temere per le statue di Cupido e il satiro (che Frine prontamente si fece consegnare). Di amanti pronti a qualunque cosa pur di tirarla fuori dai guai, Frine ne annoverava diversi, tra cui Iperide uno dei più famosi oratori del tempo. Fra il 350 e il 340 a.C. un certo Eutrias, si vociferava fosse un ex amante rancoroso, trascinò Frine davanti all’Areopago, il tribunale di Atene, accusandola di empietà. Tale accusa veniva punita con la morte. Era motivata dall’esibizionismo della donna, che non perdeva occasione di posare nuda per le statue dedicate ad Afrodite e far sfoggio della sua ricchezza. Inoltre molte voci la facevano partecipe di culti orgiastici di tipo dionisiaco. Ma la vera ragione erano i suoi clienti, non per ultime le rispettive mogli gelose, che vedevano in quella donna libera e istruita, un’eterna rivale. Durante l’arringa finale, per essere certo di convincere la giuria, Iperide con un vero coup de théatre denudò Frine fino alla cintola, scoprendole il seno, domandò ai presenti esterrefatti: “Può una simile bellezza offendere gli dei?”. Non si sa con certezza se lo stratagemma funzionò, conosciamo invece come la menzionò Timocle, (commediografo greco del IV secolo) in una sua commedia posteriore al 340 a.C. “una brutta vecchia”; ciò dimostra che era sì scampata alla morte, ma non al naturale sfiorire della sua bellezza.

Un’altra concubina, fu la famosa e bella Aspasia di Mileto, una colonia greca dell’Asia Minore (odierna Turchia), compagna e amante del potente Pericle, uno dei padri della democrazia ateniese. Malgrado fosse donna e non ateniese di nascita, riuscì ad inserirsi nella società che contava, grazie alle sue doti di sapienza e di astuzia, come ci racconta Plutarco che scrisse: “Dominava sui più influenti uomini di Stato e ispirava ai filosofi una sincera e grande considerazione”. La sua casa fu il centro della vita letteraria e filosofica dell’Atene del V secolo. Maestra di retorica per uomini e filosofi del tempo. Platone, nel Menesseno, svela anche il rapporto tra Aspasia e Socrate del quale fu maestra e amante, tanto severa, nel redarguirlo quando si rivelava lento nell’apprendere. Sembra che esercitò una notevole autorità e influenza sulle decisioni politiche di Pericle, una di queste, fu quella di approvare una spedizione, nel 441 a.C., contro la città di Samo rivale di Mileto. La morale comune non considerava scandaloso avere una concubina, purché non la si trattasse come una vera moglie. Invece Pericle fece di Aspasia al tempo stesso una moglie e un’etèra, e la portava con sé in tutte le circostanze, sia pubbliche sia private. Dalla loro unione nacque un figlio, che Pericle iscrisse nei registri civici andando contro la legge da lui stesso voluta, in base alla quale un bambino poteva essere riconosciuto come “cittadino” soltanto se lo erano entrambi i genitori. Come tutti gli Ateniesi troppo potenti, Pericle aveva molti nemici. E i nemici di Pericle erano anche nemici di Aspasia. In una società ateniese dove le donne e le mogli erano relegate nel gineceo, una donna come Aspasia così influente e libera, generò sconcerto. Facevano notizia anche alcuni particolari apparentemente banali, per esempio il fatto che Pericle, uscendo o rientrando in casa, fosse solito baciare la sua donna con trasporto: evidentemente il gesto non doveva essere consueto. Così fu tacciata pubblicamente di empietà e lenocinio, pareva procurasse altre femmine per il proprio amante o per altri suoi amici. Accuse che la misero a rischio dell’esilio o della pena capitale cui lo stesso Pericle riuscì a sottrarla.

Non si pensi che tutte l’etére cedettero alle blandizie del potere. Una certa Rodope “dalle guance rosa” per amore di uno dei suoi amanti, rifiutò la corte di un sovrano. Nata in Tracia tra il VII e il VI secolo a.C., fu condotta in schiavitù al porto egizio di Naucrati, dove si legò dapprima a Esopo, lo scrittore di fiabe, anch’egli schiavo come lei e forse appartenente allo stesso padrone un certo Xanthus dell’isola di Samo. Quando fu assassinato a Delfi in circostanze misteriose, Rodope rimasta sola, fu riscattata da un mercante greco di vini, certo Carasso di Mìtilene, fratello della poetessa Saffo. Di lui si innamorò tanto profondamente, che si narra: ogni volta che l’uomo partiva per affari, ella saliva sul tetto di casa e vi restava fino a che non rivedeva le vele delle navi fare ritorno (una Madama Butterfly ante litteram). Un giorno, mentre l’amato era in viaggio, Rodope pensò di fare un bagno nel Nilo. Mentre era in acqua un’aquila calò sui suoi vestiti e le sottrasse un sandalo che recapitò, che caso, nella corte d’Egitto a Melfi, proprio sulle ginocchia del faraone. Ammirato dalla bellezza della calzatura, il sovrano mandò a cercare la sua proprietaria, e i messi riuscirono a risalire a Rodope. Ma la giovane non aveva occhi che per Carasso, pertanto di fronte alla proposta di matrimonio del faraone, cortesemente rifiutò. Questa storia sembra riconducibile a un’antica fiaba della tradizione egizia, in considerazione del sandalo galeotto, sembrerebbe l’archetipo della storia di Cenerentola dove, in seguito, si sono ispirati: Charles Perraul, Gianbattista Basile e i fratelli Grimm per stendere la famosa fiaba. Ma contrariamente al lieto fine della sguattera che sposa un principe, la giovane Rodope venne a sapere che il suo amato Carasso l’aveva tradita, durante i suoi viaggi, con una bella ragazza greca.

E oggi, che fine hanno fatto l’etère dell’antica Grecia? Semplice, hanno cambiato l’etimologia, oggi si chiamano: escort (dal francese escorte “scorta” di compagnia) infatti, sono anch’esse istruite (molte pure laureate) capaci di disquisire su vari argomenti, conoscono diverse lingue. Per questi motivi le si vedono accanto a uomini d’affari, in trasferta di lavoro, che amano mostrarsi al fianco di una bella ragazza. Non di rado l’accompagnamento è seguito da incontri sessuali, che spesso sono il motivo principe del contratto con la ragazza in questione. Se la marchetta nella Grecia classica andava da 2 a 100 dracme, oggi andiamo da 1000 a 5000 euro e oltre. Come si vede il comune denominatore è identico.

 
 
 

ABISSI OCEANICI

Post n°11 pubblicato il 06 Dicembre 2012 da OVIDIOPUBLIO
 

il soffio di una balenottera azzurra, fonte National Oceanic and Atmospheric Administration via Wikipedia.

di Riccardo Alberto Quattrini.

Un sommergibile oceanico, Classe Marconi della 2° Seconda Guerra Mondiale, era capace di pesare dalle 1.500 alle 2.000 tonnellate, la sua lunghezza poteva andare dai sessanta agli ottanta metri e la sua larghezza dai sette ai dieci metri. L’autonomia era di 10.500 miglia a otto nodi, e 110 miglia a tre nodi in immersione. Un sommergibile è costruito con piastre di ferro tenute ferme da un’infinità di chiavarde. Oltre che essere una macchina da guerra, capace di generare solamente morte, esso, una volta immerso, è un grosso contenitore d’acciaio che scivola lungo i fondali oceanici, non attirando nessun interesse da parte di tutte le specie animali che affollano l’oceano. Se poi, malauguratamente, dovesse affondare, si poserebbe sui fondali marini e inizierebbe la sua solitaria battaglia contro la ruggine, mentre alghe e licheni se lo fagociterebbero inesorabilmente.

Una balenottera azzurra, ordine Cetacei, misura dai quindici ai trenta metri e può pesare dalle cento alle duecento tonnellate. Possiede un corpo affusolato con la pinna dorsale di piccole dimensioni e di forma variabile e una larga coda, che gli serve per immergersi. Le pinne pettorali sono sottili e appuntite. Il colore del corpo è tra il blu e il grigio scuro, con delle chiazze più chiare che, nelle giornate di sole, quando nuotano subito sotto la superficie del mare, sembrano azzurre. La sua velocità in immersione può variare dai dieci ai trenta chilometri l’ora. Ora, questo mammifero è fatto di carne e la carne, si sa è mortale. Non si conosce con esattezza come muoia, se per mancanza di cibo, per sfinimento, o semplicemente perché è giunto il suo momento. Ed ecco che quando cessa di vivere, la balenottera azzurra inizia a discendere negli abissi infiniti dell’oceano, e mentre discende verso le tenebre sempre più fitte, pigra e lenta, cullata dalle correnti oceaniche, la sua carne s’imputridisce e rilascia un olezzo pestilenziale. Un afflusso di acqua marcia invade l’oceano, un puzzo che fiutano a migliaia di chilometri. I primi a percepirne quel tanfo sono gli squali e le anguille, divoratrici di carogne, perfetti e attrezzati spazzini, convergono verso quell’afrore, e iniziano il loro banchetto con criterio e professionalità. Affondano i loro denti acuminati in quella carne morbida e chiara. Lacerano, strappano, scarnificano, spolpano con metodicità. Le altre migliaia di commensali, di varie estrazioni sociali, che nel frattempo sono giunti, percorrendo anch’essi centinaia o migliaia di chilometri. Nemmeno si guardano. Nessuno di loro ha voglia di presentarsi, di fare conoscenza. Nessuno vuol sapere, da dove arrivi, cosa fa, noi diremmo che non conoscono il bon-ton. Quello di cui sono certi è che sarà un convito lungo, lunghissimo, potrà durare anche fino a cento anni, ed essi sono giunti fino lì per una sola cosa: mangiare, perché laggiù, nelle tenebre dell’oceano profondo, di carne tanto a buon mercato, ce n’è poca. I commensali s’ingozzano, vomitano, defecano, avanzi di cibo cadono sul fondo innescando altri invitati. E figliano, e i loro figli andranno alla ricerca di altre carcasse da spolpare, incuranti di tutto ciò che li circonda. Il tempo laggiù è infinito. Quando, dopo anni di tutta la carne è rimasta poca roba, ecco il secondo turno dei commensali. Sono piccoli, per lo più sono vermi, lumache, crostacei, molluschi, e hanno questi strani nomi: solenogastri, caudofoveata, poliplacofori, ma sono forniti di un apparato boccale formidabile, aiutati da ganci e uncini, che fissano alla carne, riescono così a spolparla, scarnificarla, e avanzano con pazienza e tenacia, in quella carne putrefacente, come provetti notorittidi. Naturalmente ne giungono a migliaia e, sapendo svolgere perfettamente il loro lavoro, ripuliscono la carcassa del gigante marino.

Ora, dopo anni, non resta che un’enorme impalcatura fatta di ossa. Ma anche per queste già avanzano i conviviali. Essi educatamente sono rimasti ad aspettare con tenace pazienza. Sapevano con certezza che sarebbe giunto anche il loro turno. Ora via, banchettiamo! Gridano felici, secernendo grandi quantità di una mucosa capace di scioglierle e trarne l’olio che ne contiene in grandi quantità. Scavano così profonde gallerie come perfetti minatori.

E’ finito?

Niente affatto. C’è ancora dolce, caffè e ammazzacaffè. Sono degli “agenti” sì, agenti patogeni e hanno la licenza di uccidere. I primi agenti sono in grado di assorbire, come delle idrovore l’ossigeno. Quando si è esaurito, questi si allontanano e, come perfetti chimici, ecco altri microrganismi, capaci di sostituire uno o entrambi gli atomi d’idrogeno e trasformare l’acqua marina in un nutriente solfuro. Grandissima festa per questi nuovi invitati, molto più prosaici e meno esigenti dei primi squali e anguille che hanno banchettato molti, molti anni prima.

Poseidone, giunto a osservare, con i rebbi, le dà un ultimo saluto, mescolando sotto il fondale melmoso, i pochissimi resti della grande balena azzurra.

 
 
 

GHIGLIOTTINA. Ovvero: libertè, egalitè.

Post n°10 pubblicato il 06 Dicembre 2012 da OVIDIOPUBLIO
 

Uno straordinario ritratto di Luigi XVI di Francia, dipinto di Antoine-François Callet.

di Riccardo Alberto Quattrini.

Il penalista Franco Cordero, ha scritto un libro: “Gli osservanti” (Aragno), dice che: “Vivere nel vuoto normativo, rinunciando a regole e castighi, è impossibile quanto vivere nel vuoto atmosferico”. Per poi continuar, “Tutti i sistemi penali, da quello di Caino in poi, sono una’infaticabile e stravagante ricerca di tecniche e strutture per mantenere il potere e assicurare l’ordine”.

La ghigliottina.

Per chi non conoscesse questo strumento di morte, basta descriverlo come una lama di metallo che viene fatta cadere da una determinata altezza sul collo del condannato, comportandone la fulminea decapitazione.

Ecco, fu la convinzione che uno strumento simile non avrebbe fatto soffrire il condannato e reso le esecuzioni egualitarie, tra il ceto popolare e quello nobile, che spinse Joseph Ignace Guillotin medico e politico francese, a proporre il 9 ottobre 1789 all’Assemblea Nazionale, un progetto di legge in sei articoli con il quale all’articolo uno, si stabiliva che le pene avrebbero dovuto essere identiche per tutti, senza distinzione di rango del condannato. L’articolo due, poi, prevedeva che nel caso di applicazione della pena di morte, il supplizio avrebbe dovuto essere il medesimo, indipendentemente dal crimine commesso, e che il condannato sarebbe stato decapitato per mezzo di un semplice meccanismo, quasi indolore.

A tal proposito Guillotin, il primo dicembre 1791 usò per illustrare alla stampa la propria proposta queste malaugurate frasi riportate da “Le Moniteur” e dal Journal des États généraux”.

Con la mia macchina, vi faccio saltare la testa in un batter d’occhio, e voi non soffrite. E rincarò: La lama cade, la testa è tagliata in un batter d’occhio, l’uomo non è più. Appena percepisce un rapido soffio d’aria fresca sulla nuca.

Ma il vero inventore di questo siffatto marchingegno, fu tale Antoine Luis nato a Metz il 13 febbraio 1738, un chirurgo e fisiologo che assieme al falegname tedesco Tobias Schmidt, realizzarono l’attrezzo, quest’ultimo, tentò invano di farsene riconoscere la paternità. Infatti, presentò un’istanza per brevettare la macchina assicurandosi così la commessa per tutte le repliche che sarebbero dovuto essere inviate negli altri ottantatré dipartimenti in cui era diviso amministrativamente il regno. La domanda fu sdegnosamente rifiutata dal ministero degli interni il 24 luglio 1792, con la motivazione che la Francia non era ancora arrivata a un tale livello di barbarie, e non era concepibile il brevetto di un meccanismo che non avrebbe potuto avere legalmente altro destinatario che lo Stato. Insieme avevano sperimentato il prototipo nella Cour de Rohan, uno dei quartieri Parigini, in questo periodo molto frequentato dai turisti. Le prime vittime furono alcune pecore, in seguito si passò ai cadaveri umani e poi ai malcapitati vivi. Anche Luigi XVI in persona, si dedicò a perfezionarne il meccanismo di quel nuovo attrezzo di morte, considerando che si dilettava spesso a passare il tempo nelle officine e nelle falegnamerie, incontrandoli, consigliò loro di apportare una modifica alla lama: propose che questa fosse obliqua e non perpendicolare al terreno. In tal modo il taglio avveniva con maggiore rapidità e precisione. Il suggerimento fu accettato e con questa versione aggiornata, il sovrano, la poté sperimentare di persona, nove mesi più tardi, il 21 gennaio del 1793.

Prima di quella rivoluzionaria invenzione, le tecniche di morte erano varie. I nobili appoggiavano la testa su un ceppo e il boia con una scure la decapitava, ma non sempre al primo colpo. La forca era per i plebei, sarebbe stato volgare vedere un nobile ciondolare dopo lo strappo della corda. La chiesa s’inventò il rogo. Poi c’era la ruota, un uso barbaro, dove gambe e braccia si spezzavano tra le urla strazianti dei condannati. Per non farsi mancare nulla, inventarono lo “spettacolare” squartamento, riservato ai recidivi o agli stessi attentatori del re o dei suoi successori.
Si legavano gli arti del condannato a quattro cavalli, poi si spronavano a farli galoppare in quattro direzioni diverse e il condannato era squartato in quattro pezzi, in una scena rivoltante.

La proposta che fece Guillotin, quindi, fu quella di trasformare le esecuzioni, non in uno spettacolo pubblico incivile ma in qualcosa di più privato per la vittima.

Ma quali erano le procedure prima dell’esecuzione capitale. Dopo la sentenza, spogliazione della persona, esclusi pantaloni e camicia, legatura dei polsi dietro la schiena, taglio dei capelli per coloro che li avevano lunghi, taglio del colletto della camicia, caricamento sulla carretta e percorso verso il patibolo, in mezzo alla folla vociante. Giunto a destinazione, il condannato veniva rapidamente issato sul palco e legato, pancia in giù, sulla slitta. Il capo veniva immobilizzato con un traversino appositamente sagomato e scanalato, il boia rilascia la mannaia. Il boia, o un suo aiutante, prendeva la testa che era finita in un cesto, e la esibiva al pubblico, reggendola per i capelli. Nel caso il giustiziato sia calvo, la testa doveva essere esibita reggendola per le orecchie. I corpi dei condannati finivano in una carretta e portati al cimitero.

Il 25 aprile 1792 è la data in cui per la prima volta apparve in pubblico, sollevando la curiosità del popolo, abituato ad assistere alle condanne. Era la famiglia intera ad andare in piazza per tempo, richiamata da uno spettacolo che avrebbe garantito adrenalina e tensione. Il primo condannato “à épouser la veuve”, letteralmente: “A sposare la vedova”, fu Nicolas Pelletier, accusato di avere accoltellato, per furto un passante nella rue Bourbon-Villeneuve, oggi rue d’Aboukir, nel secondo arrondissement. Le cronache narrano però la delusione del popolo nei confronti di questo nuovo mezzo troppo veloce, troppo meccanico, troppo efficace. A differenza delle esecuzioni precedenti, dove le agonie dei condannati potevano protrarsi per ore, la ghigliottina svolgeva il suo compito troppo in fretta, e alla folla non bastava l’esibizione della testa tagliata, tenuta per i capelli dal boia.

Questione di mesi e a quella prima esecuzione ne fecero seguito molte altre, alcune delle quali hanno fatto la storia. Il re Luigi XVI, la regina Maria Antonietta, oltre ai protagonisti della Rivoluzione, fra cui Georges Jacques Danton, Louis de Saint-Just e Maximillien Robespierre. Esecutore materiale di queste e di altre 2.912 decapitazioni è il boia Charles-Henri Sanson, “figlio d’arte”, giacché boia era stato il suo bisnonno, poi il nonno, il padre e lo furono pure i figli. Come se tagliare teste fosse un macrabo artigianato che si tramanda in famiglia, di generazione in generazione. La sua biografia è sconvolgente, pure se la sua attività era considerata ovviamente del tutto legale.

La ghigliottina operò per ben due secoli, fino all’ultima esecuzione capitale in Francia che avvenne il 10 settembre 1977 a Marsiglia. Due secoli di quotidiana presenza nelle piazze di Parigi dove svettava coperta da un drappo nero.

La ghigliottina, dopo la rivoluzione francese, divenne un prodotto da esportazione. Molti, infatti, furono i paesi che adottarono quella macchina per la pena di morte. Cina, Algeria, Madagascar e quasi tutta l’Europa, incluso lo Stato Pontificio, la cui figura di Mastro Titta al secolo Giovanni Battista Bugatti fu al servizio del Papa. La Germania nazista ne fece un buon uso arrivando alla ragguardevole cifra di diecimila sentenze. Dopo la divisione, la Repubblica federale tedesca la abolirà negli anni cinquanta, la DDR negli anni ottanta.

Il mito della testa cosciente di sé percorse tutto il periodo rivoluzionario e il XIX secolo, alimentato da questo e da altri aneddoti, come quello che pretendeva che la testa di Maria Stuart avesse parlato dopo la decapitazione. Di dibattiti, come sempre, ce ne furono molti e piuttosto divergenti, si andava da quello morale, a quello filosofico e scientifico. La tesi di alcuni medici era che, il cervello anche se decapitato, per la forte emozione, continui a vivere e pensare per qualche minuto. C’era chi diceva per due, tre minuti, altri addirittura per quindici. Ma ciò che moralmente ci si chiedeva era: che pensieri può generare un cervello staccato dal proprio corpo, che ha la consapevolezza di essere morto? Angoscia, terrore, disperazione, rabbia oppure rassegnazione? In effetti, alcune teste, quando cadevano, per alcuni istanti, gli occhi seguitavano a roteare intorno con uno sguardo terrorizzato.

Victor Hugo ha scritto: “Possiamo avere una certa indifferenza verso la pena di morte, non pronunciarci né a favore, né contro, fino al momento in cui non vediamo con i nostri occhi, la ghigliottina”.

Dovremmo, forse, mostrarla a tutti i governanti, nel cui ordinamento giuridico, vige ancora la pena capitale affinché la aboliscano?

 
 
 

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