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CULTURA LIBRI E...

IPAZIA, MALINCONIA, ARTEMISIA

 

Il copista di Riccardo Alberto Quattrini

Post n°9 pubblicato il 05 Dicembre 2012 da OVIDIOPUBLIO

Il copista di Riccardo Alberto Quattrini

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Il campanello sopra la porta risuonò con quel suo tipico timbro di biglia caduta ma subito controllata nella sua discesa.
«Vengo!» disse una voce proveniente dal seminterrato «un attimo!» ripeté mentre prendeva tre grosse risme dallo scaffale e le sistemava sulle braccia. Prese a risalire la scala a chiocciola che divideva il locale inferiore da quello superiore teneva, per abitudine, l’avambraccio destro appoggiato al corrimano, per bilanciare la risalita. «Eccomi», disse e uscì dall’ultimo cerchio che lo riportò al piano del negozio. Una giovane donna sui trent’anni era appoggiata al lungo bancone, aveva posato sopra di esso una borsa di cuoio marrone. Attendeva.
«Buongiorno», le disse l’uomo appoggiando le tre risme di carta sul banco, «che posso fare per lei?» le chiese mentre dalla radio appoggiata dietro il banco Robbie Williams cantava:

First you say you want me
Then you don’t want me really
Baby do I scare you
Am I talkin’ too freely.

L’uomo la spense scusandosi con la giovane donna. Lei, con una voce chiara, gli disse che poteva lasciarla pure accesa, la musica non le dava fastidio, anzi. L’uomo la riaccese.

I got no perspective
On the things that you lack
Baby I don’t care
Just lie on your back

Riprese a cantare Robbie Williams.
«Vediamo se mi può aiutare», disse la giovane donna, mentre apriva la borsa e ne cavava una cartella rossa trattenuta da un elastico cui l’uomo diede una rapida occhiata. Tuttavia in quel momento, inspiegabilmente, si sentiva più attratto dallo sguardo di quella giovane donna, senza riuscire a spiegarsene il motivo. Non che fosse stato colpito per la sua particolare bellezza. Era magrissima, molto alta, i capelli neri, ben pettinati, un cappotto chiaro chiuso alla vita da una cintura che ne rimarcava ancora di più la snellezza. Teneva la testa in una certa posizione, leggermente inclinata verso destra, come se volesse percepire meglio tutti i suoni circostanti e, gli occhi, che sembravano l’ombra di un colore precedente, pareva avessero sofferto. «Ecco», disse mostrandogli dei fogli con dei puntini strani impressi sulla pagina. «Le dico subito che non è una scrittura primitiva; è solamente scritto in braille perché io sono cieca», lo disse come se per lei l’essere cieca fosse una cosa naturale.
Ecco spiegato il motivo del perché la osservasse con un particolare e incomprensibile interesse.
Mi dispiace. Stava per dire, ricorrendo a uno dei più semplici termini che una persona possa usare, di fronte ad una circostanza infelice. Lei fu prontissima a zittirlo.
«La prego», disse portandosi un dito sulle labbra, «non dica niente, non mi compatisca più di quanto già la gente faccia, ogniqualvolta che sente della mia invalidità. Parliamo piuttosto di quello per cui sono venuta da lei. Va bene?» gli chiese, accentuando l’inclinazione della testa. L’uomo, viste le premesse riprese dunque con un tono professionale.
«Certamente. Mi dica allora cosa devo fare per soddisfarla.»
«Non penso sia così complicato accontentarmi», disse la giovane donna, posando i polpastrelli esperti e agili, su quei segni e li fece scorrere sicura. «“Ombre nere sulla Laguna”», disse guardandolo con quegli occhi che sembravano capaci di vedere. «Questo è il titolo del romanzo che ho scritto», e vi posò sopra la mano aperta, «vorrei che lei me lo ribattesse a macchina.»
«Vuole dire che io dovrei… », disse l’uomo mentre guardava quei fogli, con qui puntini indecifrabili, che sapevano tanto di misterioso per chi non li sapeva decrittare, «dovrei ribatterlo al computer?»
«Esatto. Perché lei un computer l’ha, non è vero?» gli chiese piegando appena la testa da un lato.
«Certo che ho un computer. Anzi, più di uno se è per questo», e girò lo sguardo verso i due computer sistemati lungo il piano del bancone. Non gli era mai capitata una simile richiesta da quando aveva aperto quella copisteria, quattro anni prima, per cercare di raddrizzare per la seconda volta la sua vita. Gli avevano richiesto di ribattere tesi, tesine, o semplici ricerche su vari temi di studio, ma si era trattato sempre di persone vedenti. Gli avevano lasciato i loro manoscritti, i loro appunti e lui aveva provveduto a riscriverli in bella copia, senza errori e null’altro.
«Allora cosa mi dice? Perché la sento indeciso», disse mentre la biglia sopra la porta lanciò il suo suono stonato. Entrò una donna giovane, con i capelli corti e neri, sovrastati da qualche ciocca bianca che le ricadeva sulla fronte ampia. Indossava un camice bianco, non perfettamente pulito, sotto al quale, era evidente, non portasse nient’altro che un reggiseno e un paio di slip. Guardò la donna con occhi interessati e indagatori, per poi posarli sull’uomo, come a cercare risposte che non giunsero, mentre lui, posando una mano sulle risme impilate, le tamburellò nervosamente.
«Ciao Luca», disse la giovane parlando a bassa voce, come a voler porre l’accento che aveva intuito d’aver recato disturbo, entrando così incautamente.
«Che c’è? Che vuoi?» chiese Luca con un tono freddo, dondolando la testa e scrutandola con occhi che esprimevano disappunto per l’inopportuna visita.
«Scusate! Scusatemi se vi ho interrotto», disse muovendo la mano in un saluto frettoloso, «ci vediamo più tardi», disse, fece dietro-front e uscì, rilasciando una scia di lacca e coloranti. La donna alzò lievemente la testa e annusò l’aria.
«Parrucchiera?» domandò.
«Esatto», disse Luca. «È una shampista, viene spesso a trovarmi.»
«Perché lo dice con quell’inflessione seccata?»
«Perché è appiccicosa», disse Luca a giustificazione.
«Non è appiccicosa. È forse innamorata di lei», disse. Luca batté una manata sulla risma di carte e rise.
«Lei crede?» le domandò. La donna annuì e sorrise appena. Luca si schiarì la voce, «sarà», disse e subito proseguì, volendo chiudere quel pettegolezzo. «Allora, ricapitoliamo. Lei ha scritto un romanzo con quel bel titolo», e schioccò le dita nel tentativo di ricordarselo.
«“Ombre nere…”.» La giovane donna rise e scosse il capo.
«“Ombre nere sulla Laguna”», lo corresse.
«Ecco», disse Luca, «quello lì. Che, badi bene è bellissimo. Sì perché anch’io amo scrivere», disse gettando lì la frase come se gli fosse scivolata dalle labbra.
«Ah, bene. E ha già pubblicato?» gli chiese.
«Eh, magari. Oddio, un racconto in verità mi è stato pubblicato qualche anno fa su un giornale locale.»
«Lo vede. È già più avanti di me», disse sorridendo e mostrando una fossetta sulla guancia sinistra. «Per me, invece, è il primo romanzo. E non so nemmeno se sarà pubblicato. Si figuri»
«Ma lei lo ha almeno terminato, e le assicuro che posso immaginare la fatica che le sarà costata.» La donna annuì con la testa e passò una mano sui fogli cui erano impressi quegli strani e incomprensibili puntini. «C’è un solo problema», le disse mentre prendeva una sigaretta da un pacchetto che aveva cavato da una tasca della giacca. «Fuma?» le chiese. La donna scosse la testa. «Le dà fastidio se fumo?» le domandò. Lei alzò le spalle dicendo:
«Penso che se accetterà di ribattere il manoscritto, non potrò certamente impedirle di fumare. E dunque … » Luca stirò le labbra. «Ma quale sarebbe il problema dunque?» gli chiese.
«Il problema è che non potremo lavorare durante l’apertura del negozio. Potremo farlo nell’intervallo, o dopo la chiusura serale.»

Il copista di Riccardo Alberto Quattrini – Neftasia Editore, 2012 – pag. 547

Il commento di NICLA MORLETTI

Il trillo di un campanello con il timbro di biglia caduta, una scala a chiocciola, un lungo bancone, risme sullo scaffale e una giovane donna con la sua borsa di cuoio. L’incipit di questo romanzo è senza dubbio accattivante. C’è atmosfera, vibra già qualcosa nell’aria. Ecco, sì, un attimo dopo la canzone alla radio di Robbie Williams. Una ragazza estrae dalla borsa dei fogli scritti in braille, perché è cieca. Qualcuno la osserva: un uomo. La fantasia del lettore galoppa come quella dello scrittore: regna una strana atmosfera nell’aria. Cosa succederà? Chi è il copista? Seguono cinquecentoquarantasette pagine scritte in maniera egregia che hanno ritmo, intreccio, pathos e trama inquietanti, sotto certi aspetti, nello scorrere della storia: la scomparsa di due donne e in concomitanza di due uomini, il ritrovamento di un’auto carbonizzata. Iniziano così le indagini del maresciallo Carmine Bellantonio e dell’ispettore di polizia Fabrizio Messina. Da qui la scoperta di persone coinvolte in vicende di strozzinaggio, sequestro di persona e gioco d’azzardo. E poi c’è Margherita, novella scrittrice, divenuta cieca dopo un incidente stradale… Lascio al lettore la scoperta di pagine dense di suspense e di attesa che rendono “Il copista” “un giallo” di indubbio valore, scritto da una penna duttile e dalla trama perfetta.

© 2012, Blog degli Autori. I diritti di testi relativi ad opere edite ed inedite appartengono ai rispettivi autori.

 
 
 

FENOMENOLOGIA DEL LATO B – Ovvero il posteriore nella storia

Post n°8 pubblicato il 05 Dicembre 2012 da OVIDIOPUBLIO
 

Bronzi di Riace, particolare, dalla Rete.

di Riccardo Alberto Quattrini.

Natiche, glutei, sedere, deretano, c*lo, didietro, posteriore, parte bassa, fondoschiena: nomi e perifrasi certo non mancano a quelle due masse muscolari ricoperte da uno strato di grasso che, tra tutte le parti anatomiche umane, sono da sempre le più controverse.

Jean-Paul Sartre l’aveva capito molti anni fa dicendo: “La patria, l’onore e la libertà non sono niente. L’universo intero gira intorno a un paio di chiappe”. Una delle più grandi passioni di artisti, registi, stilisti e scrittori di fama internazionale. Honoré de Balzac nel 1830 nel suo “Traité de la vie élégante” diceva: “Camminando le donne possono mostrare tutto, senza lasciar vedere nulla”. Brigitte Bardot sussurrava in uno dei suoi film più celebri: “Tu les aimes, mes fesses?” (Tu lo ami, il mio sedere?), mentre Rimbaud e Rubens non si lasciavano sfuggire l’occasione di immortalare il loro amore per la parte posteriore del corpo femminile.

Ma non è stato sempre così.

I glutei, gluotòs dal greco, siano stati spesso considerati degni di biasimo. Le principali religioni hanno fatto delle terga l’oggetto di vari tabù. Uniscono in sé le condizioni di parte posteriore e zona bassa del corpo. Da un punto di vista sessuale, rimandano ai rapporti consumati more ferarum, ossia “alla maniera delle bestie”, senza poter guardare negli occhi il partner. Non offrono nemmeno l’espressività che possiedono altre parti del corpo più “nobili”, quali il viso, le mani gli occhi, localizzate tutte nella parte “alta” dell’uomo e quindi messe in relazione con la sua spiritualità. Il “c*lo”, invece riguarda l’espulsione delle scorie, quindi il lato più animalesco e – per gli antichi – vile della persona. Per l’islam, per esempio, il Corano vieta tassativamente che si entri in contatto con tale parte del corpo, mentre l’ebraismo ordina agli uomini di non spogliarsi voltando la schiena a nord o a sud. E anche l’apostolo Paolo la giudicò la parte più indegna del corpo. E ci si accanì con grande impegno su quella parte, anche fisicamente, facendone uno dei bersagli preferiti delle punizioni corporali: la sculacciata è stata considerata, per secoli, strumento indispensabile nell’educazione, soprattutto in istituti religiosi e nei conventi. In Francia, durante il periodo del Terrore, fu introdotta anche una sorta di “sculacciata rivoluzionaria”; una forma di rito anticlericale pubblico inflitto soprattutto alle suore, non senza un certo piacere voyeuristico da parte delle folle. Del resto, l’erotismo della frusta, ha avuto nei secoli, illustri seguaci: Caterina de’ Medici (1519-1589) riservava alle natiche delle sue dame, forse consenzienti, un personale godimento per questo trattamento. Anche nella Roma di duemila anni fa, le neofite venivano frustate sulle terga, come testimoniano immagini dipinte sui muri di una villa di Pompei.

L’etologo inglese Desmond Morris, come ha spiegato nel corso dei suoi studi, l’appartenenza di questa caratteristica, che: “è prerogativa solo della specie umana”, come disse il naturalista francese George-Louis Leclerc (1707-1788), ha assunto, nel corso dei secoli, anche altri valori simbolici, non sempre negativi. L’aspetto erotico, ad esempio, ha radici molto antiche.

Nel 2009 nella grotta di Hohler Fels, nella Germania Meridionale, è stata scoperta un’immagine umana risalente a un periodo fra i 35 e 40 mila anni fa. Questa figura di donna, intagliata nella pietra, ha fianchi larghi e natiche enormi. Considerando il carattere realistico dell’arte paleolitica, secondo Desmond Morris, queste “pin-up” preistoriche avevano sederi così evidenti perché l’accoppiamento avveniva da tergo, e le femmine con grandi posteriori inviavano segnali sessuali forti. Le misure delle natiche, come nelle statue greche, durante gli anni si fecero via via, più contenute, associate a un ideale estetico, erano considerate degne d’ammirazione e persino di devozione. Una statua di Afrodite Callipigia – letteralmente “dalle belle natiche”-, in questo tipo di scultura la dea è colta nel gesto di alzare il peplo scoprendo un fondoschiena di proporzioni perfette.

Quel rituale, nella cultura mediterranea, si chiamava anasyrma (“denudamento”). Il rito di alzarsi le vesti e mettere a nudo le parti intime, serviva al fine di cacciare le influenze negative e propiziare un buon raccolto, anche le sacerdotesse della divinità Demetra eseguivano tali rituali.

Porgere le natiche era un gesto ricorrente, nel Medioevo, anche nella quotidianità. E persino nelle solennità nell’ambito religioso, quando la contaminazione tra elementi sacri e profani era la norma. Nelle chiese, per esempio, si trovava spesso un piccolo spazio, un capitello di solito scolpito con soggetti dedicati all’irrisione, alla sconcezza, all’umorismo popolare o alle attività più triviali dell’uomo come mangiare, bere, defecare o fornicare.

Ma com’era possibile che nella mentalità dell’uomo medioevale, piena di cristianesimo, il sedere abbia mantenuto quell’antica valenza positiva?

Sempre secondo l’etologo Desmond Morris, nell’Europa medioevale, attraverso i testi antichi, riapparve l’idea greca dei glutei come attributo umano, che faceva la differenza tra uomini e bestie. Copsì Caesarius di Heisterbach (morto nel 1240), abate tedesco di Colonia, nel suo Dialogus mirac*lorum sentenziò che Satana non possedeva natiche. E’ la prova che si era oramai diffusa l’idea che il diavolo, malgrado la sua capacità di imitare la forma umana, non riuscisse a riprodurre il “lato B”. E che per questo non ne tollerasse la vista, tanto da fuggire immancabilmente di fronte a un paio di natiche nude. Ciò spiegherebbe anche perché qualche secolo più tardi, nel 1532, Martin Lutero, continuamente tentato dal demonio, scrisse di essere riuscito una notte a zittirlo proferendo un sonoro “le*cami il c*lo”.

Le natiche anti-Satana si trovano spesso rappresentate nelle statue che decorano chiese e fortificazioni gotiche: poste vicino all’ingresso, avevano lo scopo di impedire l’accesso agli spiriti maligni. Allo stesso modo, in area germanica, durante i temporali, le donne avevano l’abitudine di esporre il posteriore dalle case, nella convinzione di prevenire danni. Un ritorno in salsa medioevale delle sacerdotesse di Demetra?

Se l’ostentazione femminile delle natiche, collettiva o individuale, è stata a lungo legata alla fertilità e alla fortuna, quella maschile ha assunto nei secoli un carattere aggressivo, legato a contesti militari o alla messa in ridicolo dell’avversario. Nella sua Guerra giudaica lo storico romano Giuseppe Flavio racconta che nell’anno 66 d.C., mentre gli ebrei lanciavano pietre durante la rivolta antiromana, i legionari mostravano le terga. Una scena simile si ripeté, nel Medioevo nel corso della quarta crociata. Durante l’assedio di Costantinopoli, allora capitale bizantina, da parte dei cristiani (1024), gli assediati mostrarono le natiche nude dalle mura dopo aver respinto un attacco. All’epoca era abituale iniziare una battaglia con una serie di oscenità collettive da parte degli eserciti in campo.

E oggi?

Se un tempo toccare le natiche era una passione soprattutto maschile. Adesso lo fanno con gusto anche le donne: una ricerca americana ha rivelato che tra amici di sesso diverso sono le femmine a toccare più di frequente il sedere dei ragazzi. La sessuologa Luisa Rivolta dice che anche per le donne il fondoschiena rappresenta un forte stimolo erotico: “Natiche sode e ben fatte sono legate alla forza e al potere riproduttivo.” I maschi che amano un sedere femminile prosperoso sarebbero buoni organizzatori e padri di famiglia, quelli che preferiscono un sedere piccolo avrebbero un’indole filosofica. E quindi, la parte anatomica più estesa del corpo umano, impossibile da occultare, ai giorni nostri, esibita come maggior richiamo sessuale sotto strettissimi jeans o tanga lillipuziani, la natica rivendica dunque il suo posto e la sua storia in Occidente.

 
 
 

IPAZIA, una martire del paganesimo

Post n°7 pubblicato il 05 Dicembre 2012 da OVIDIOPUBLIO
 

image, la morte di Ipazia di Charles William Mitchell (1854–1903)

di Riccardo Alberto Quattrini.

Sedici secoli ci separano da questa figura di giovane donna, maestra di filosofia neoplatonica, astronoma, inventrice di macchine scientifiche, fulcro di cultura, donna carismatica e popolare, sapiente filosofa, influente politica, sfrontata e carismatica maestra di pensiero e di comportamento. Fu bellissima e amata dai suoi discepoli, pur respingendoli sempre. La sua femminile eminenza fu fonte di scandalo e accese l’invidia. Questa donna, figlia di Teone un filosofo che studiava e insegnava ad Alessandria dedicandosi in particolare alla matematica e all’astronomia si chiamava Ipazia. Essa fu l’ultima predicatrice del neoplatonismo nel mondo che si andava cristianizzando. Ipazia era solita indossare un mantello, usato dai filosofi del tempo, e andare nel centro della città. Lì, per tutti coloro che desiderassero ascoltarla, commentava pubblicamente Platone, Aristotele, o le dottrine di qualche altro filosofo. Oltre alla sua esperienza nell’insegnare riuscì a elevarsi al vertice della virtù civica. La mancanza di ogni suo scritto, rende problematico stabilire il contributo effettivo da lei prodotto al progresso del sapere matematico e astronomico della scuola di Alessandria. E’ dall’allievo Sinesio che possiamo apprendere ciò che, in effetti, fece Ipazia. Ella costruì e perfezionò un astrolabio, già usato da Ipparco e Tolomeo, ma non nel modo teorico e pratico che lei perfezionò. Cercò di misurare il peso dei liquidi, ed ecco inventato un idroscopio, semplice ma ingegnoso. Le fonti antiche le attribuiscono sicuramente un Commentario sull’Aritmetica di Diofanto di Alessandria (padre dell’algebra, vissuto tra il III e il IV secolo d.C.) e un Commentario sulle Coniche di Apollonio di Perga (matematico e astronomo greco antico, famoso per le sue opere sulle sezioni coniche). Inoltre fu proprio Ipazia a curare l’edizione di un’opera di suo padre: “Commentario sull’Almagesto di Tolomeo”.

Era pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente, e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei, come continuava ad avvenire anche ad Atene. […]” Così scriveva Damascio un filosofo neoplatonico dell’Accademia di Atene. Ipazia dunque era una donna amata e rispettata dalla sua gente. E dunque, come fu possibile che essa divenne una martire laica, preda di un agguato e un orribile assassinio infertole a soli 45 anni nel 415 dopo Cristo?

Vediamone dunque le ragioni.

Alla morte dello zio Teofilo, patriarca di Alessandria avvenuta nell’ottobre del 412 salì al trono il nipote Cirillo. Nonostante l’opposizione di molti che lo giudicavano violento e autoritario al pari dello zio, (per non smentirsi fece distruggere la colonia ebraica di Alessandria). Egli si accinse a rendere l’episcopato molto più simile a un dominio, pretendendo di padroneggiare anche la cosa pubblica oltre il limite consentito all’ordine episcopale. Inimicandosi in tal modo il prefetto di Alessandria Oreste, che difendeva le proprie prerogative. Cirillo e i suoi sostenitori, cercarono di occultarne la vera natura, adducendo che si trattava di una questione religiosa, un conflitto tra paganesimo e cristianesimo. Lo storico della Chiesa Socrate Scolastico dice:

“Ipazia s’incontrava alquanto di frequente con Oreste. L’invidia mise in giro una calunnia su di lei presso il popolo della chiesa, e cioè che fosse lei a non permettere che Oreste si riconciliasse con il vescovo.”

Questo fu l’antefatto dal quale scaturì l’omicidio di Ipazia.

Così accadde che un giorno il vescovo Cirillo, passando presso la casa di Ipazia, vide una grande folla di persone, di carri, lettighe, cavalli e guardie nei pressi della sua casa. Alcuni stavano arrivando, alcuni partendo, e altri sostavano.

“Di chi è quella casa?” chiese “Che cosa sta succedendo?”

“È la casa della filosofa Ipazia”, gli rispose uno del seguito “quelli che vedi, sono i curiali del prefetto, lui deve essere venuto con altri a salutarla e ad ascoltarla”.

Il vescovo a tali parole trasalì, una fitta penosa lo penetrò nell’anima. Di sicuro il nome di quella donna, famosa in città, non gli era ignoto. Ignoto invece, fu per lui scoprire che il prefetto si degnasse di farle visita, dopo che aveva rifiutato l’offerta di una riconciliazione, fatta da lui, Cirillo, che era un uomo e un vescovo. Ora, proviamo a immaginare il pensiero che seguì a quell’angoscioso ma umano sentimento: invidia, rabbia, stizza, livore; forse gelosia:

“Ad Alessandria le cose andrebbero meglio se io e il prefetto fossimo amici. Non lo siamo per colpa di Ipazia, che si è messa di mezzo, e ha attirato Oreste nella sua cerchia.”

Esternò convinto Cirillo.

Questo fatto fu interpretato calunniosamente dal popolino cristiano che si convinse fosse lei a impedire a Oreste di riconciliarsi con il vescovo.

Fu così che, nel marzo del 415, un gruppo di cristiani fanatici e bigotti, sotto la guida di un lettore chiamato Pietro, sorpresero la filosofa mentre ritornava a casa. La tirarono giù dalla lettiga e la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario. Qui all’interno, le tolsero tutte le vesti e, una volta completamente nuda, la scorticarono fino alle ossa (secondo alcune fonti utilizzando le ostrakois (letteralmente “gusci di ostriche”), ma il termine era usato anche per indicare cocci o pezzi di vetro. Dopo che l’ebbero smembrata, i pezzi del suo corpo li portarono in una località chiamata Cinarone, una specie di discarica, dove vi gettavano materiali di scarto ai quali davano fuoco, lo stesso che usarono ber bruciare quei poveri resti.

Ipazia, dunque, a causa della rivalità tra due uomini Cirillo e Oreste, che rappresentavano l’uno il potere ecclesiastico, l’altro quello imperiale, impedendo loro di trovare un compromesso per una conveniente alleanza, perse la vita.

Dopo l’assassinio di Ipazia i suoi allievi abbandonarono la città. Alessandria perse definitivamente il suo ruolo di centro culturale.

Il fondamentalismo ancora oggi uccide e ci si fa uccidere in nome della religione. Anche nei nostri civili e materialistici paesi industrializzati avvengono assurde manifestazioni di oscurantismo, come in alcuni stati della civilissima America in cui si proibisce di insegnare nelle scuole la teoria dell’evoluzione di Darwin e s’impone l’insegnamento del creazionismo.

 
 
 

Malinconia, ovvero le bufere dell’anima

Post n°6 pubblicato il 05 Dicembre 2012 da OVIDIOPUBLIO
 

Anassagora e Pericle, Augustin-Louis Belle (1757 – 1841)

 

di Riccardo Alberto Quattrini.

All’inizio tutte le cose erano insieme, poi venne la mente e le dispose in ordine.”

Anassagora.

Adagiare sul fondo del bicchiere alcune foglie di menta, aggiungere zucchero e qualche spruzzatina di soda poi, aiutandosi con un cucchiaio da cocktail lungo, sciogliere adagio lo zucchero avendo cura di schiacciare contemporaneamente le foglie di menta, in modo che possano rilasciare tutto il loro aroma. Mescolare l’intruglio con rhum e abbondante succo di limone. Questo drink, apprezzato da uno dei più grandi romanzieri americani, oltre a rendere famosa la Bodeguita del Medio Bar all’Avana, serviva ad attenuare i momenti tristi e sedare le angosce derivanti dalla sua depressione. Si chiamava Mojito, ed era la bevanda preferita da Ernest Hemingway durante il suo soggiorno cubano. Quel “mal di vivere”, mescolandosi col rhum, quasi per incanto esaltava le passioni e sollecitava il celebre scrittore a scrutare in quel vortice di pensieri e di paure da cui estrarre la sua capacità creativa.

“La malinconia è la gioia di sentirsi tristi” diceva Victor Hugo. Malinconia deriva dal greco mélas, mélanos che significa nero, e cholé bile, pertanto bile nera. Il termine fu usato per la prima volta da Ippocrate nel IV secolo a.C.. Egli applicò lo studio della melanconia a un importante teoria definita dottrina degli umori. Tale teoria, assai singolare e fantasiosa, si basava su quattro sostanze presenti nell’organismo umano secondo cui dipendeva lo stato di benessere. Questi fluidi, altrimenti detti umori, ovvero: sangue, bile, atrabile (o bile nera) e flegma (pitùita-muco). Ciascuna sostanza è responsabile di un particolare temperamento: sanguineus, cholericus, phlegmaticus, melancholicus. Malinconia, mestizia, inquietudine. Forse è soltanto uno dei tanti stereotipi privi di reale fondamento, eppure il nesso profondo del letterato introverso, solitario, emarginato da una società frenetica e indifferente alla bellezza, portavoce del disagio d’intere epoche.

La realtà è che l’uomo e la natura stessa sono bipolari, il giorno e la notte, l’estate e l’inverno, l’infanzia e la vecchiaia – scrive lo psichiatra Athanasios Koukopoulos – trascorrono fra infinite variazioni dell’umore, fra grandi gioie ed esaltazioni, grandi dolori e abbattimenti. Ma solo alcune persone predisposte soffrono di depressione e di mania.”Quindi di umori bipolari è fatto l’uomo e se pensiamo che, negli anni bui dell’ultimo conflitto mondiale, tutta l’umanità era affidata nelle mani di cinque capi di Stato più o meno bipolari, ovvero affetti da sindrome maniaco-depressiva: Mussolini, Hitler, Churchill, Stalin e Franklin Delano Roosevelt e Lincoln. Ma la compagnia di tali maniaco-depressivi è lunga; si va dall’imperatore Adriano, a Napoleone e Robespierre. Ai poeti come Byron, Shelley, Whitman, Baudelaire, Tasso, Alfieri e il malinconico per eccellenza: Giacomo Leopardi. Scrittori come Balzac, Hemingway e Gogol. Poi musicisti come Rossini, Mahler e Ciaikovskij, non potevano certamente mancare pittori come Michelangelo, Caravaggio e Van Gogh. Tutti splenetici.

La malinconia o melanconia, nel linguaggio moderno la si usa per indicare indifferentemente cose alquanto diverse tra loro. Nella cultura medica viene indicata come segnale della depressione.

Da cosa deriva quello strano malessere che spesso ci accompagna nella quotidianità. Perché ciò che possediamo non ci rende più felici? Per quale ragione non abbiamo più nessun interesse per qualsiasi cosa? Gli antichi la descrivono come “afflizione dell’anima” affine alla tristezza, ma non così dolorosa, e anche se cupa e profonda porta con se una certa tenerezza e dolcezza. Inoltre, a differenza della tristezza, che sfiora la depressione e non induce alla riflessione, la malinconia si alimenta di un pensiero più intimo forse più a contatto con le “ragioni” del cuore.

Ma la grande tragedia di questo mal-de vivre è, il suicidio. Non si fa che cercare la via migliore per morire: corda, veleno per topi, monossido di carbonio, barbiturici. Questa perdita di ogni speranza, questa sofferenza del vivere, rendono l’idea della morte una liberazione, praticamente, l’unica via.

Scriveva Gustave Flaubert: “La gente si meraviglia che il suicida non consideri il dolore degli altri. Chi pensa questo ignora che, al contrario si crede di fare il bene degli altri.”
Van Gogh prima di morire, scrisse al fratello Theo: “Non soffrire, l’ho fatto perché é meglio per tutti.”

C’è però chi, di fronte a un animo in tumulto, riesce a vederne un lato positivo. Questa è Madre Teresa di Calcutta che dice: “La sofferenza non scomparirà mai del tutto dalla nostra vita. Non abbiate, quindi, paura. Se la sappiamo sfruttare diventa un grande veicolo d’amore.”

Sofferenza?

Che centra ci si chiederà. Stiamo parlando di malinconia e la intendiamo comunemente come una forma di delicata e intima mestizia, un languore, un aleggiante pensiero opprimente, accompagnato da sfiducia e avvilimento. Ma perché, tutto ciò, non comporta una sofferenza? Il termine “sofferenza” non indica forse, la nostra interiorità quando è dilaniata e dibattuta? E questi tormenti intimi, molto spesso, non avvengono per cause inspiegabili, incomprensibili, e giungono quando meno ce li aspettiamo? E dunque ne soffriamo.

Anche un fatto apparentemente banale, momentaneo, all’inizio ci può apparire tanto grave quanto irrisolvibile, basta ad affliggerci, a produrre in noi ansia, mancanza di tranquillità.

C’è un detto americano che interpreta perfettamente quella sofferenza e dice: “Preoccuparsi è come mettere le nubi di domani davanti al sole di oggi”.

 
 
 

ARTEMISIA GENTILESCHI, una femminista ante litteram

Post n°5 pubblicato il 05 Dicembre 2012 da OVIDIOPUBLIO
 

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura, 1638-39, Royal Collection, Windsor.

di Riccardo Alberto Quattrini.

Artemisia Gentileschi, nasce a Roma l’8 luglio 1593, pittrice intensa e tragica del Seicento italiano, tutti squarci caravaggeschi e nudi sodi. La sua storia di donna, che per ciò che l’è capitato avrebbe potuto soccombere e privarci per sempre di questa grande e geniale pittrice; invece essa col suo grande carisma e dono, non soltanto fu capace di diventata una grande e sconfinata pittrice, ma divenne l’eterno simbolo di una emancipazione che anticipava tutti i tempi di allora. Inoltre superbamente intelligente, bella ed elegante, epicurea e terribilmente sensuale, aveva tutte le caratteristiche per intraprendere una strada luminosa, anche se complessa e piena di ostacoli, per una donna di quei tempi decisa come mai altre si videro. Rimase orfana della madre, Prudenzia Montone a soli dodici anni. A diciassette, il 6 maggio 1611, fu stuprata nella casa di via della Croce da un amico del padre, il pittore Agostino Tassi. Artemisia aveva capelli ricci, castani tendenti al rosso, fronte altissima, naso diritto, labbra piccole e ben disegnate. Nel milleseicento essere una bella ragazza e volersi affermare come una brava pittrice, era cosa assai più complicata di oggi. Una ragazza non poteva entrare in una scuola di pittura o decidere di fare carriera, una giovane donna non poteva pensare di sopravvivere ai pettegolezzi, alla cattiva fama, ai pregiudizi, una figlia non poteva ribellarsi al destino scelto per lei dal padre, il pittore Orazio Gentileschi che, pur amandola morbosamente e riconoscendone il talento, le impediva perfino di affacciarsi alla finestra, e non poteva decidere lei la propria vita sentimentale. Artemisia si ribellò a tutto questo. Artemisia era una donna che lottava per affermare se stessa.

<<Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne.>>

E’ ciò che disse Artemisia Gentileschi nel 1612, quando si trovò nella corte di giustizia del papa, davanti a uno squadrone di giudici, che parlano in latino e l’avevano anche sottoposta a una tortura chiamata Sibilla che consisteva nel stringerle i pollici in modo da farla indurre a dire la verità, metodo che avrebbe potuto impedirle di usare le dita per sempre; per una pittrice del suo talento sarebbe stata una perdita inimmaginabile. Quel processo avvenne molti mesi dopo lo stupro subito. Il Tassi, infatti, dopo averla aggredita, le assicurò il suo amore e le promise di sposarla per rimediare al disonore. Ma non le disse che egli teneva una moglie a Livorno e che manteneva un’altra relazione con la sorella della moglie, la cognata, cosa all’epoca considerata incestuosa. Artemisia decise così di portare avanti la relazione con l’Agostino. Finché non scoprì come stavano veramente le cose e raccontò tutto al padre Orazio che pensò, a questo punto, di denunciare l’amico indegno. Il processo iniziato a marzo si protrasse fino al 27 novembre 1612 dove l’Agostino Tassi fu condannato per la deflorazione di Artemisia Gentileschi, corruzione dei testimoni e la diffamazione di Orazio Gentileschi. Il giudice Gerolamo Felice gli impose di scegliere tra cinque anni di lavori forzati e l’esilio da Roma. Il giorno seguente Tassi prese la propria decisione e scelse l’esilio, aiutato dal capitano Pietro Paolo Arcamanni che garantì per lui.

Non potendo il Tassi sposarla, il padre Orazio le rimediò un marito per ripulire l’onta, certo Pierantonio Stiattesi, un mediocre pittore e nuova città, Firenze. Ma il suo destino era già segnato da qualche tempo. Per chi, come lei, a sei anni giocava con i colori del padre, e per il quale posava, il destino si era già dipinto, con la forza dirompente dei chiaro-scuri e delle torsioni plastiche caravaggesche e col coraggio di soggetti forti, sangue e cupidigia maschile.

Un suo primo dipinto, Susanna e i vecchioni, che è datato 1610. Nel quadro gli uomini che spiano Susanna non sono i vecchi che narra la Bibbia, perché uno di loro esibisce una capigliatura corvina, mentre il più anziano ha le caratteristiche di un uomo sì maturo, ma non certamente vecchio. In questo capolavoro non c’è la violenza che si può riscontrare nei quadri successivi, ma la gestualità della ragazza insidiata rileva un fastidio, come a voler scacciare insetti ronzanti, più che un’indignazione. Se, come sostiene qualcuno, i due personaggi suggeriscono un Agostino Tassi e suo padre Orazio, morbosamente attaccato alla figlia; forse giacché più di una volta l’aveva usata come modella, dipingendola nuda, alcune voci vogliono che il rapporto fra i due sia segnato dall’incesto. Pertanto amici e sodali al punto che, per risolvere le loro questioni private, esposero la giovane pittrice al pubblico ludibrio, allora quest’opera è altamente simbolica. Potrebbe essere stata una sorta di premonizione se la data, ancora in discussione, fosse quella del 1610, oppure se l’opera, come sembra, si dovesse postdatare, saremmo di fronte a un autentico sfogo catartico.

Mentre svezza i figlioli: Giovanni Battista, Cristofano, Prudenzia e Lisabella. Artemisia riprende a dipingere ed elabora così una propria tecnica: s’ispira a quella del Caravaggio, molte volte giunto nella bottega del padre a chiedere in prestito colori e pennelli, e del padre Orazio, suo maestro. Predilige per le tinte più violente con le quali crea i suoi magistrali giochi di luce ed ombre tendenti a risaltare qualsiasi particolare, come stoffe e drappeggi. I suoi personaggi sono caratterizzati da un maggiore realismo dovuto alla forte tensione che, inconsciamente, attraversa la sua figura di donna. I suoi dipinti risentono della violenza subita ed è come se solo così potesse liberarsi della rabbia. Soprattutto è la serie dedicata a Giuditta che decapita Oloferne a colpire l’attenzione. Infatti, non viene rappresentato solo l’atto dell’assassinio, ma anche ciò che accade dopo ovvero i momenti prima della fuga. Lavora per la corte medicea e per diverse committenze private: Artemisia pitturessa tra gli artisti salariati dal granduca. Nel 1616 è la prima donna a essere iscritta all’Accademia del Disegno di Firenze. E’ lì, che Artemisia incontra Francesco Maria Maringhi, un gentiluomo fiorentino, suo coetaneo; tra i due inizia un’intensa relazione amorosa. Quando Artemisia e il marito lasciano improvvisamente Firenze nel 1620 per sfuggire ai debiti e si rifugiano a Roma, la donna inizia un serrato carteggio d’amore e d’interesse con l’amante Maringhi.

A Roma Artemisia vive nel quartiere di Santa Maria del Popolo e s’inserisce presto nel giro della comunità artistica romana. Il Maringhi la raggiunge, mentre Stiattesi lascia il tetto coniugale e scompare dalla sua vita. Tra il 1627 e il 1630 numerose testimonianze certificano un’intermittente presenza della Gentileschi a Venezia. Al suo soggiorno lagunare si fa risalire la sua ricca attività come pittrice di fiori e di nature morte. Artemisia in seguito, si trasferisce a Napoli dove spesso è vista in compagnia del Maringhi. Apprezzatissima dall’aristocrazia e dalla comunità artistica partenopea, Artemisia esegue ritratti, dipinti devozionali, grandi quadri da camera con soggetti tratti dalle Sacre Scritture e dalla storia antica.

La fama di Artemisia corre oramai per tutta l’Europa. Nel 1638 Artemisia raggiunge il padre a Londra, dove Orazio ci viveva già dal 1626 e la promuove presso la corte degli Stuart, tanto che Carlo I d’Inghilterra acquista alcune opere della pittrice. Dopo la morte del padre avvenuta nel 1639 Artemisia torna a Napoli, dove lo studio della pittrice è diventato una sorta di accademia: numerosi giovani pittori entusiasti, compartecipano alle sue commissioni. La Gentileschi oramai affermata e apprezzata, oltre che come pittrice, anche come donna di grande intelligenza e cultura, ha contatti epistolari con Galileo Galilei, col duca di Modena e il granduca di Toscana.

La data della morte di Artemisia non è stabilita con certezza, forse nel 1656. Sepolta nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Napoli sotto una lapide (oggi perduta) che recitava così: heic artimisia.

 
 
 

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