Creato da OVIDIOPUBLIO il 30/12/2005

CULTURA LIBRI E...

IPAZIA, MALINCONIA, ARTEMISIA

 

NEL RICORDO DI JFK

Post n°19 pubblicato il 22 Novembre 2013 da OVIDIOPUBLIO
 

 

 

NEL RICORDO DI J.F.K

 

A cinquant’anni dalla morte.

 

   Era un venerdì di quel maledettissimo giorno del 22 novembre 1963, quando alle 12:30 tre colpi in rapida sequenza squarciarono l'aria della Dealey Plaza di Dallas, in Texas. Furono sufficienti 8,3 secondi, secondo la maggioranza degli esperti, il tempo che trascorse tra la prima e l'ultima detonazione, sufficiente ad assassinare John Fitzgerald Kennedy il 35° presidente degli Stati Uniti d’America, uno dei presidenti più celebrati nel Novecento, mentre il governatore del Texas John Connally restava gravemente ferito. 

Kennedy aveva solo 46 anni. 

In quegli anni si era nel bel mezzo di una della Guerra fredda, gli americani, per la prima volta, scoprirono di essere una nazione terribilmente vulnerabile. A cinquant’anni da quell’assassinio a Dallas, non è stata ancora raggiunta alcuna certezza sull’autore, o sugli autori. La famosa «Commissione Warren» (dal nome del suo presidente della Corte suprema Earl Warren) che la istituì nel 1964, dichiarò che l’unico colpevole era Lee Harvey Oswald, e che abbia agito da solo utilizzando un vecchio fucile Carcano (per altro arma piuttosto efficiente), comprato per posta. Tutto ciò ha creato infinite teorie del complotto, complotto che le provate e svariate congetture non sono riuscite a comprovare nulla. Da quel momento una miriade di libri di genere letterario-saggistico, di inchieste giudiziarie e indipendenti, di libri, film e fiction televisive in cui sono state avanzate le più varie ipotesi di cospirazione antikennediana, prendendo spunto da fatti reali collegati in maniera tale da formulare un'interpretazione che spiega, con apparente semplicità, eventi complessi. In tutti quegli scritti c’è però un comune denominatore, un elemento veritiero che li accomuna, e cioè la pluralità degli sparatori da luoghi diversi. Era cosa abbastanza nota che l'FBI diretta da Edgar G. Hoover, fosse un nemico acerrimo dei Kennedy. Non da meno era la CIA che si lamentava del presidente, perché non aveva autorizzato l'intervento militare a sostegno dello sbarco anticastrista, fallito alla Baia dei porci di Cuba.

Ma che entrambe le agenzie avessero più volte avuto per le mani il marxista Oswald, e che questi avesse fatto avanti e indietro dall’Urss e che avesse apertamente criticato la politica di Kennedy verso L'Avana, certamente fu un grave errore. Soprattutto non indagarono a fondo il suo viaggio a Città del Messico dove si recò all'ambasciata cubana. Ovviamente dopo la morte del Presidente fecero tutto il possibile per far passare sotto traccia i loro errori. 

L'episodio della Baia dei Porci fu un disastro che creò una frattura tra Kennedy e la CIA. L'operazione, programmata dal direttore della CIA Allen Welsh Dulles, durante l'amministrazione Eisenhower, venne lanciata nell'aprile del 1961, neanche tre mesi dopo l'insediamento di John Kennedy alla presidenza. 

Altre teorie che vedevano Cosa nostra, che aveva più d'una ragione per far fuori John Fitzgerald Kennedy, e bloccare così le inchieste sul crimine organizzato del fratello Robert, ministro della Giustizia, vendicando così il tradimento verso chi aveva contribuito all'elezione del presidente, assoldando Jack Ruby, delinquente di piccolo calibro, per assassinare Lee Harvey Oswald. 

Anche la riduzione delle tariffe sul petrolio e l'acciaio, e il complesso militare-industriale di temere l'abbandono del Vietnam, già annunziato dalla Casa bianca, nonostante le migliaia di consiglieri inviati per pilotare la guerra contro il Nord comunista, avrebbe dato un pretesto di contrastare Kennedy. Le teorie più inquietanti vedono nel vicepresidente Lyndon B. Johnson, il principale burattinaio del complotto in combutta con i segregazionisti del Sud, il motivato era il timore di non essere inserito nel probabili sfidanti alle presidenziale Democratiche del novembre 1964.

L’elenco delle teorie cospirative potrebbe continuare all’infinito senza per questo trovare una verità definitiva sull’uccisione di Kennedy. Quello che si può dire con certezza è che l’elezione di John Fitzgerald Kennedy, se pur sancita da un ristretto margine di voti, fu per l’America un’immagine di grande speranza, di giovinezza e vigore. La sua morte ha indotto molti americani a elevarlo al rango di grandi presidenti come George Washington o Abraham Lincoln. I critici di Kennedy evidenziavano, invece, le sue avventure sessuali a volte sconsiderate, e un continuo rischio per la sicurezza. Le amicizie in odor di mafia, un temibile strumento nelle mani dei rivali. Se l’elezione del presidente Eisenhower (1952-1960) favorì la crescita del benessere delle classi medie, pur caratterizzata da un conformismo sociale. Il suffragio del giovane leader ebbe l'effetto di smuovere i ceti più dinamici della società americana, cosa che turbò molti ambienti conservatori. Nel giugno del 1963 con il Civil Rights Bill favorì l’integrazione razziale, deliberato da suo fratello Bob e da Martin Luther King, questo in tema di politica interna. Nei rapporti internazionali, uno dei risultati più importanti fu la gestione della crisi dei missili di Cuba nel 1962, disinnescando quello che probabilmente poteva essere l’episodio più rischioso per una guerra nucleare. Inoltre il famoso discorso tenuto al Rudolph Wilde Platz il 26 giugno 1963 di fronte al Muro dove pronunciò la celebre frase: “Ich bin ein Berliner” io sono un berlinese, diede prova di fermezza anticomunista. In seguito intensificò i rapporti internazionali tra Est-Ovest ammorbidendo i toni in piena Guerra Fredda, avviando le trattative per la riduzione degli armamenti nucleari.

Il politologo Joseph Nye sostiene che Kennedy è stato un buon presidente, ma non un grande presidente. Tra i suo meriti annovera non soltanto la sua capacità d’ispirare gli altri, ma la  prudenza mostrata quando si trattava di decisioni di politica estera complesse. È un peccato averlo perso dopo soli mille giorni, conclude Nye. 

Dopo tutte le congetture, sui mille complotti, in questo continuo gioco di luci e ombre, a cinquant’anni dalla sua morte prematura, forse è venuto il momento di riflettere maggiormente su ciò che è stata la presidenza di John Fitzgerald Kennedy nella storia contemporanea. 

 

 

Riccardo Alberto Quattrini

 
 
 

Il sottile fascino del nylon

Post n°18 pubblicato il 07 Novembre 2013 da OVIDIOPUBLIO
 

 

By • 11 September 2013

di Riccardo Alberto Quattrini.

Uno sciroppo colloso, filante come formaggio fuso, questo ciò che apparve agli occhi degli inventori nel 1937 del primo campione di Nylon appena sintetizzato, nei laboratori della Du Pont. Una rivoluzione alla quale certo non pensava il francese studioso di chimica Eleuthère Irènèe Du Pont de Nemours, quando – immigrato nello stato americano del Delaware – nel 1802 aprì un impianto per la produzione di polvere nera. Proprio da quella piccola azienda di tipo familiare nel 1938 uscì il nylon inventato da Wallace Hume Carothers, pioniere della moderna chimica delle “grandi molecole”, morto suicida, pochi mesi dopo, aver ottenuto un enorme successo. La prima fibra sintetica fu definita “resistente come l’acciaio e delicata come una ragnatela”. Che farne, si chiesero gli scopritori di quella strana pasta? La prima idea, le grandi fortune nascono anche così, fu quella di filarla come seta per farne calze da donna. Da quel momento, Nylon e seduzione femminile sono legati da un filo invisibile e ininterrotto.

L’anno successivo le calze di nylon iniziarono a essere vendute in pochi negozi di Wilmington, la cittadina dove aveva sede la Du Pont. Il successo fu immediato e travolgente. Giacché per acquistarle donne e uomini arrivavano persino da New York, la distribuzione fu avviata subito in tutto il Paese americano, sino a raggiungere, dopo il primo anno, la quota di sessantaquattro milioni di paia vendute.

Nel 1940 con l’inizio della Seconda guerra mondiale, la produzione di calze in nylon fu interrotta, le donne finivano col disegnarsi sulle gambe, quella cucitura posteriore che caratterizzava le loro amatissime compagne quotidiane. Durante la guerra, il Nylon svolse un servizio a tutto campo, che dura tuttora: tende, paracaduti, tute militari, cordami, fili da sutura chirurgica, rinforzi per pneumatici. Terminato il conflitto, riapparvero in tutta la loro desiderabilità. E fu subito un delirio: davanti ai negozi si formavano lunghe code di donne (come pure di uomini “incaricati” all’acquisto) e, fra di esse, non mancò nemmeno qualche lite furiosa per l’accaparramento.

Le calze di Nylon sbarcano in Europa con i soldati americani come il chewing gum e la Coca Cola. Il boom continuò per tutti gli anni Cinquanta e raggiunse l’apice negli anni Sessanta: le minigonne di Mary Quant che, con un colpo di forbice, rivoluzionò la moda. Le gonne in similpelle con gli stivali di plastica resero obbligatorio il collant. Scomparvero i reggicalze, torneranno in seguito sul filo di una più sottile seduzione, intanto le fibre sintetiche hanno conquistato tutta la biancheria femminile e gran parte del resto dei capi d’abbigliamento.

Sono anche gli anni della pop art. Andy Warhol, George Segal e gli altri espongono gli oggetti della vita quotidiana, legittimando la presenza dell’arte di ogni materiale non nobile, il Nylon e le altre plastiche in prima fila.

Non poteva, di certo, restarne immune il cinema, al fascino del nylon. Kim Basinger le lanciava in faccia a un Mickey Rourke curioso e divertito. Nella locandina de: “Il laureato” di Mike Nichols, abbiamo un primo piano delle gambe di Anne Bancroft che s’infila il collant davanti a un giovane Dustin Hoffman. E “Bella di giorno”, del 1967 per la regia di Luis Buñuel con Catherine Deneuve, Jean Sorel e Michel Piccoli. Anche i film italiani risentirono di quel richiamo seducente. Sophia Loren le tirava giù lentamente di fronte a un Marcello Mastroianni sussultante e impaziente. Una provocante Silvia Mangano, nel ruolo della mondina, indossava delle lunghe calze nere, nel film “Riso Amaro” di Giuseppe De Santis, con un giovanissimo Vittorio Gassman. Altro film simbolo fu “Malizia”, di Salvatore Samperi, con una giovane e bellissima Laura Antonelli che turba i sogni del giovane Alessandro Momo. Anche Carlo Verdone in “Un sacco bello” nei panni di Enzo il bullo voleva andare a Cracovia con l’amico Sergio, portandosi stilografiche e collant per conquistare le donne polacche, dicendo: “Ognuna di queste è un coito”.

Insomma, che fosse “Ieri, oggi e domani” o “Nove settimane e mezzo”, non c’è stato spogliarello femminile che non abbia avuto nelle calze un ingrediente di seduzione fondamentale. La calza perciò, è da sempre un’arma di seduzione del gentil sesso. E gli uomini lì, inebetiti e avvinti da una trasparenza malandrina e tentatrice, di un pizzo o di un ricamo ammiccante. Ma il menage quotidiano dei nostri tempi impone pragmatismo. Si lavora, si corre, si compete, c’è poco tempo per fare le civette e per giocare alle “sex bomb”. La donna con gli uomini combatte, non amoreggia. Allora ecco il collant: pratico, veloce e resistente, anche se nemico giurato del maschio e barriera, a volte insormontabile, per un improvviso impeto ormonale. La scelta può cadere altrimenti sulla sbarazzina calza di cotone o addirittura sull’orribile gambaletto, autentica tomba dell’eros. Il reggicalze è ormai in soffitta, mentre le gloriose autoreggenti, che pure non tramontano mai, restano lì, nel cassetto, in attesa di momenti speciali sempre più rari.

 

 
 
 

CAPODOGLIO, o il naufragio della baleniera Essex

Post n°17 pubblicato il 07 Novembre 2013 da OVIDIOPUBLIO
 

CAPODOGLIO, o il naufragio della baleniera Essex

By • 24 October 2013

Essex_photo_03_bdi Riccardo Alberto Quattrini. Grandi, enormi, giganteschi, nuotavano affiancati per qualche braccio di mare per poi tuffarsi nell’oceano e riapparire dopo un tempo interminabile, uscendo dall’acqua con una foga come a vo-ler riprendere fiato, per poi abbattersi con fragore sull’acqua schiumosa, gettando un altissimo spruzzo dallo sfiatatoio che si scorgeva a chilometri di distanza. Questo era ciò che vedevano da anni gli abitanti di Nantucket, un’isola degli Stati Uniti d’America a forma di Mezzaluna, a 48 km a sud di Capo Cod, circondata dalle acque dell’Oceano Atlantico. Per generazioni li avevano osserva-ti mentre si pascevano tranquillamente nell’oceano, e loro a spaccarsi la schiena su una terra erbosa buona solo per l’agricoltura e la pastorizia. Così, complice il troppo e indiscriminato uso della terra, ben presto si esaurì la fertilità del suolo. Verso il 1726, gli uomini di Nantucket gettarono in mare alcune grosse barche e andarono a catturare il loro primo capodoglio, modificando così la loro fonte di profitto. Era iniziata la caccia alle balene a Nantucket: lo sperm whale, così chiamato dagli ingle-si, è l’olio prezioso contenuto nella scatola cranica che servì a illuminare alcune tra le principali ca-pitali europee per oltre un secolo.

Da quel giorno, l’isola non sarebbe stata più quella di un tempo. Se dapprincipio le barche non permettevano di allontanarsi troppo dalle coste, si dovette aspettare fino al XVIII-XIX secolo per vedere le baleniere come molti pittori e scrittori, Melville ne è l’esempio, le avevano immortalate all’apogeo dell’età della caccia. Inizialmente erano imbarcazioni a un solo albero, chiamati sloops, i primi dei quali furono armati nell’isola nel 1715. In seguito si passò a imbarcazioni più imponenti, con tre alberi, con una stazza dalle 250 alle 400 tonnellate. La loro caratteristica era la notevole capacità di stivaggio, di contro la rendeva molto lenta. Ora le ba-leniere si spingevano sempre più lontano, fino nelle zone più remote del Pacifico, il cosiddetto Off-shore Ground. I viaggi potevano durare anche tre o quattro anni.

Le donne di Nantucket, rimaste sole per lunghi periodi, instaurarono un regime di matriarcato spe-culare all’organizzazione sociale dei cetacei, dove il capo è una femmina, e i maschi nuotano di branco in branco per accoppiarsi. Tale comportamento era possibile poiché nella loro corteccia anteriore detta cingolata, i neuroni ve-locizzano la comunicazione tra le aree cerebrali favorendo così il comportamento sociale: creazione di legami duraturi, capacità di provare emozioni, gioie e dolori, inoltre si può pensare che essa serva come una sorta di sistema di allarme silenzioso, una volta riconosciuto il conflitto in essere, attiva tale zona per adeguarne la risposta.

Tale scoperta la dobbiamo a Constantin von Economo, un neuroscienziato austriaco che nel 1929 la scoprì, limitandosi a segnalarne, oltre che nell’uomo, anche in certi primati, negli elefanti asiatici e africani. Molto più recentemente, Patrick Hof ed Estel Van Der Gucht, due scienziati, hanno tra-scorso quindici anni a studiare i cervelli dei grandi cetacei: capodogli, balene e delfini. Oltre a quel-lo che già sapevamo, cioè del loro complesso sistema di comunicazione e della sofferenza che pro-vano quando muore un loro simile, i due scienziati, hanno scoperto che anche le balene provino lo stesso tipo di amore degli esseri umani, e che le cellule fusiformi, in questi cetacei, sono presenti nelle stesse aree del cervello che regolano le emozioni, l’organizzazione sociale, l’empatia e l’intui-zione negli esseri umani. In alcune balene poi, il numero di cellule fusiformi sarebbe addirittura tre volte superiore che nell’uomo. L’evoluzione di tali neuroni, pur procedendo da un comune antenato vissuto novantacinque milioni di anni fa, se pur con percorsi evolutivi indipendenti, fornendo prova di un’evoluzione convergente di specie, hanno sviluppato neuroni di funzione affine dove: trenta milioni di anni per i cetacei, quindici milioni di anni più tardi gli ominidi e i primati. Grazie anche a tali neuroni i grandi cetacei modificano i loro comportamenti, per esempio trovano nuove strategie per cercare di sfuggire alla caccia.

Se dapprincipio nei capodogli e nelle balene, un tempo giganteschi ma miti e fiduciose creature, con la caccia intensiva sempre più diffusa, cominciarono a manifestarsi segni di nervosismo all’avvici-narsi dell’uomo, e reazioni aggressive oltre che di semplice fuga, modificando così i loro compor-tamenti, non riunendosi più in piccoli branchi ma in immense mandrie, trovando nuove strategie e spostandosi sempre più verso sud nell’oceano più profondo.

E’ in questo contesto che nel 1820, una vecchia baleniera chiamata Essex, una tre alberi e un bom-presso, dove a ogni albero erano fissati una moltitudine di elementi di alberatura orizzontali chiama-ti “pennoni”, da cui si spiegavano le vele rettangolari che erano più di venti. Vi era tanto sartiame a sorreggere l’alberatura, che osservandola fermi sul ponte e guardando verso l’alto, pareva di scruta-re la tela di un gigantesco ragno. Lunga circa 26 metri con 238 tonnellate di dislocamento, fu al cen-tro di una storia che pare abbia ispirato, almeno nella prima parte, Herman Melville per il suo Moby Dick.

Quindici mesi prima, la mattina del 12 agosto 1819, un giovedì, quando la baleniera Essex lasciava il porto di Nantucket e si dirigeva al largo. La comandava un giovane capitano di ventotto anni, Ge-orge Pollard jr, fresco di nomina. Come un gigantesco anaconda predatore, la baleniera risaliva pigramente la costa occidentale del Sudamerica, serpeggiando su un vivente mare d’olio e di sangue. Perché l’Oceano Atlantico nel 1821 era proprio questo, un immenso campo di depositi di olio a sangue caldo, appartenuto ai capo-dogli. Dopo aver faticosamente doppiato Capo Horn, la baleniera Essex si spinse al largo del Pacifico ver-so rotte inesplorate. Era il 20 novembre 1820 quando, a più di 1500 miglia nautiche a ovest delle Galapagos, dopo aver viaggiato per più di tre mesi, la vedetta gridò a un tratto sopra la coffa: e lo indicò col braccio teso. Era necessaria una vista acuta per notare lo zampillo: una tenue nuvoletta bianca sul lontano orizzonte che durava qualche secondo. Il comandante non aspettava altro. Su suo ordine fece calare subito tre lance che si lanciarono immediatamente all’in-seguimento del branco di capodogli. Lì per lì, un gigantesco capodoglio, che gli uomini giudicarono più lungo di ventisei metri, emerse a un centinaio di metri dalla nave, fu subito preso di mira dagli uomini della Essex, ma questi, inaspettatamente passò sorprendentemente al contrattacco, con la sua coda larga più di sei metri, ribaltò una delle lance. Poi cominciò a muoverla sempre più velocemen-te per acquisire velocità, finché le onde non formarono delle creste attorno alla sua enorme testa ci-lindrica e la coda che martellava l’oceano in una scia impetuosa ampia più di dodici metri. Era di-retto verso la fiancata di babordo dell’Essex. L’orrore dell’equipaggio nel vedere la preda trasfor-marsi in cacciatrice, animata dal desiderio di vendetta, creò uno scompiglio e l’incredulità dei mari-nai che si domandarono come fosse possibile che una creatura innocua e mansueta, esca dal branco, dove sono state colpite le sue compagne e aggredisca intenzionalmente la baleniera, quasi a vendi-carne l’offesa. Eccolo, infatti, un attimo dopo a pochi metri dalla murata, che colpì accanto alla ca-tena dell’ancora di ormeggio, a prua. Dopo la collisione, l’enorme capodoglio passò sotto la nave, colpendo lo scafo con tanta violenza da spaccare la sottochiglia. Virò poi sottovento allontanandosi di circa seicento metri. Poi cominciò ad aprire e serrare di scatto l’enorme mascella e a sferzare l’acqua con la coda. Con l’enorme testa solcata da cicatrici, parzialmente sollevata dall’acqua, con un tremendo scricchiolio di legno che si frantumava, colpì la nave appena sotto l’ancora assicurata al ceppo del babordo prodiero. L’Essex oramai stava affondando inclinata pericolosamente verso dritta. Il gigantesco capodoglio aveva umiliato il suo strano avversario, si districò dalle assi frantu-mate della chiglia rivestita di rame e si allontanò sottovento, sparendo per sempre.

Lo scontro con quel gigantesco cetaceo che aveva affondato la baleniera e decimato l’equipaggio, aveva lasciato solamente ventuno sopravissuti sistemati su tre scialuppe. Invece di andare alla ricer-ca d’isole vicine, forse temendo che fossero abitate da cannibali, si diressero verso le coste del Sud. E’ l’inizio di una terribile odissea, durata settantotto giorni nelle acque dell’oceano. Ridotti allo stremo dalla sete e dalla fame, bianchi o neri, a turno attesero la morte dei compagni per sopravvi-vere, nutrendosi dei loro corpi, iniziando dal cuore: il colore della pelle non aveva più importanza, il gusto delle carni era lo stesso. Erano in ventuno, dopo l’affondamento della nave, su tre scialuppe, alla fine si salvarono in cinque tra cui il capitano Pollard e il primo ufficiale Owen Chase. Questo fu l’unico incidente documentato sul naufragio di navi da parte di balene, ma potrebbe non essere stato l’unico.

Sull’incidente cadde un pietoso silenzio. L’infrazione di un tabù ancestrale per la cultura occidenta-le, così diversa da quella del “cannibale”, causò un grande imbarazzo. “Stato di necessità” fu il ver-detto archiviato dalla legge americana. Ora lo sappiamo, le balene possono comunicare attraverso un ricco repertorio, oltre ad inventarne di nuovi, si alleano e pianificano nuove strategie di caccia che trasmettono ai cuccioli, sono capaci di soffrire, di provare piacere, e forse anche il desiderio di vendetta. Pertanto vengono sempre meno le argomentazioni scientifiche che sostengono che la loro vita vale meno di quella di ciascuno di noi.

BIBLIOGRAFIA:Nathaniel Philbrick “Nel cuore dell’oceano La vera storia della baleniere Essex” Garzanti Libri s.p.a. 2000 ISBN 88-11-66218-4

Featured image, la baleniera Essex in una stampa.
 
 
 

IL TEATRO DI DIONISO, o la democrazia nell’arte

Post n°16 pubblicato il 06 Novembre 2013 da OVIDIOPUBLIO
 

IL TEATRO DI DIONISO, o la democrazia nell’arte.

By • 14 September 2013

Sebastiano_Ricci_-_Dionysus_(1695)

di Riccardo Alberto Quattrini.

Scena, dramma, tragedia, coro, dialogo: sono queste le parole che diedero origine al teatro occidentale derivate e riferibili alle forme drammatiche sorte nell’antica Grecia. La parola “teatro” è connessa al verbo greco “theaomai” guardare. Pertanto il teatro è “il luogo in cui si guarda”.

La leggenda attribuisce le prime forme di teatro al musico Tespi.

Ci narra Plutarco nella Vita di Solone che, (in un anno che le cronache ateniesi fissavano tra il 535 e il 532 a.C.) Solone, il saggio legislatore di Atene, fosse lì quando Tespi mise in scena il primo spettacolo teatrale della storia dell’umanità. Solone, sempre curioso di apprendere cose nuove e amante dei divertimenti, fosse andato di buon grado a vedere lo spettacolo del musico. Ma più il dramma procedeva e più Solone s’infuriava. L’attore, uno solo, come si usava all’inizio, dialogava con il coro rappresentando una vicenda del mito. Fingeva di essere chi non era, di incarnare un eroe o un dio. E questo a Solone non piacque. Alla fine dello spettacolo, affrontò Tespi con durezza, agitandogli il bastone sotto il naso. “Non ti vergogni di raccontare tutte queste fandonie davanti a così tanta gente? Che ne sarà della nostra città se simili divertimenti vi prendono piede?”. Questo rappresenta ciò che ricorre, invariabilmente, ogniqualvolta si affaccia un nuovo mezzo di comunicazione.

La sorte del teatro, infatti, anticipava quella del cinema, della televisione, di internet. Chi è abituato alle forme tradizionali della comunicazione, come Solone, che era anche un grande poeta lirico, vede nelle novità un segno di crisi e decadenza.

Come aveva insegnato il sommo Omero, le storie degli dei e degli eroi dovevano essere cantate dai poeti, come sempre si era fatto. Che un uomo indossando una maschera, pretendesse invece di essere lui stesso un dio o un eroe era una bestialità. Ma questa era l’essenza e la straordinaria novità del teatro. La finzione, l’invenzione di un mondo altro da quello quotidiano. Oggi può sembrarci banale, ma 2500 anni fa era rivoluzionario.

Solone, come molti di coloro ostili al cambiamento, perse la sua battaglia. Bastarono pochi decenni affinché il teatro divenisse una delle forme d’arte più importanti della città di Atene. In seguito all’ellenizzazione di tutto il Mediterraneo orientale da parte di Alessandro Magno, non c’era città degna di questo nome che, accanto alle terme e ai ginnasi, non vantasse anche un teatro.

Il teatro, per gli Ateniesi del V secolo a.C., era dunque un grande spettacolo popolare, nella cornice di una festa religiosa dedicata a Dioniso. Un’occasione in cui tutta la città si ritrovava riunita, come in un’assemblea, per rimettere in discussione i suoi valori essenziali e i fondamenti stessi della vita associata. Le opere dei grandi drammaturghi greci, che ancora oggi sono annoverati, a ragione, tra i capolavori supremi dell’ingegno umano come: Eschilo, Sofocle ed Euripide per la tragedia; Aristofane e Menandro per la commedia. Non erano, come quelli dei tempi moderni letterati o intellettuali, ma semplicemente uomini di teatro: registi, musicisti, coreografi, e in origine attori essi stessi dei loro drammi.

Tutto, dunque, ebbe inizio con Tespi, personaggio semileggendario, giunto ad Atene dall’Icaria, verso la metà del VI secolo. Si narrava che il suo carro trasportasse i primi attrezzi di scena, arredi scenografici, costumi e maschere teatrali.

Per l’evoluzione del genere comico, fondamentali furono i Phlyakes (Fliaci). I Fliaci, erano attori professionisti con un carattere nomade, provenienti dalla Sicilia, erano soliti muoversi su carri che fungevano anche da spazio scenico. Gli attori portavano maschere molto espressive, una stretta camicia e rigonfiamenti posticci, il costume prevedeva anche un grande fallo, esibito o coperto dalla calzamaglia.

Se da sempre l’origine del teatro aveva affascinato filosofi e storici di allora come Aristotele, il quale sosteneva che il teatro derivava da rituali e canti dionisiaci che prevedevano la partecipazione di un coro. Anche i moderni non furono da meno se consideriamo il celebre saggio che Friedrich Nietzsche, allora professore di filosofia classica a Basilea, pubblicò nel 1872 dal titolo: La nascita della tragedia.

Il coro o specificamente “coro greco” è un elemento fondamentale del teatro dell’antica Grecia. Il coro costituisce, fino alla nascita della tragedia, l’avvenimento principale delle dionisie, le festività annuali in onore del dio Dioniso. I coreuti, originariamente dodici, portati quindici da Sofocle, eseguivano passi di danza cantando o recitando ditirambi (canti corali in onore di Dioniso), dapprima frutto di un’improvvisazione poi, nel VI secolo a.C. organizzati in una forma narrativa. In seguito, il capo del coro, si sarebbe progressivamente ritagliato il ruolo di prim’attore dove, in seguito, se ne sarebbero aggiunti anche altri. Ma, secondo una ferrea convenzione, mai più di tre, cui il teatro greco tenne sempre fede. E tutti sempre e soltanto maschi: come accadrà ancora, secoli dopo, nel teatro elisabettiano, le donne non potevano recitare.

Fu il teatro greco a inventare intorno al V e IV secolo a.C., la mecchanè, una sorta di gru composta da bracci di legno e da un sistema di pulegge, esso serviva per sollevare una persone, che veniva calata in mezzo al coro per simulare l’intervento di un dio sulla scena, da cui deriva l’espressione latina Deus ex machina. I’accezione di tale espressione si è poi ampliato nel tempo, andando ad indicare qualsiasi soluzione di una storia che non presti il dovuto riguardo alla logica interna della storia stessa, era una sorta di soccorso, un aiutino, a favore dell’autore quando non sapeva come concludere la storia nel modo voluto. Euripide nella Medea nel 431 a.C., è un notevole esempio dell’uso di questo marchingegno da parte di un personaggio non divino.

Anche allora iniziarono a diffondersi i concorsi meglio conosciuti come agoni, in cui era messo in palio un premio per il miglior poeta. Gli Ateniesi presero sul serio tali gare, creando delle vere tifoserie. L’arconte eponimo, massima autorità politica di Atene, una sorta di presidente della Repubblica, aveva il compito di vigilare sulla regolarità di tali agoni. Spettava a lui decidere, ogni anno, gli autori che venivano ammessi alle gare. Compito dei giurati era quello di determinarne il vincitore. Essi in numero di dieci, venivano estratti a sorte da alcune urne custodite sull’Acropoli fino al giorno delle gare. Ogni spettacolo era sponsorizzato da un ricco personaggio che si chiamava corego, egli si
assumeva l’onere di tutte le spese necessarie (costumi e vitto per la compagnia teatrale, scenografie etc.). Essere corego di un dramma di successo poteva comportare un non indifferente prestigio politico. Troppo alta era dunque la posta in gioco, pur se era prevista la pena di morte a chiunque manomettesse le urne, per impedire casi di brogli e minacce ai danni dei giurati, per assicurare la vittoria a un’opera piuttosto che a un’altra.

Basti pensare che, tra i coreghi, figuravano i più grandi uomini politici ateniesi. Temistocle, il vincitore della battaglia navale di Salamina (480) a.C.), che spezzò il sogno persiano di conquistare la Grecia, sponsorizzò una tragedia del poeta Frinico che metteva in scena proprio quella battaglia.

Lo stesso fece Pericle, allora giovanissimo, quando nel 472 a.C. si assunse le spese della tragedia dei Persiani di Eschilo, ancora una volta incentrata sulle guerre persiane e sull’episodio di Salamina. Eschilo stesso aveva partecipato alle guerre contro l’invasore persiano: era in prima fila, nella fanteria pesante degli opliti, nella piana di Maratona (490 a.C.), stringendo lo scudo rotondo nella sinistra e la lunga lancia nella destra, ed era anche lui andato all’attacco delle navi nemiche ormeggiate sulla spiaggia.

 

I Persiani di Eschilo, rappresentata per la prima volta nel 472 ad Atene, è in assoluto la più antica tragedia che ci sia pervenuta integra. La tragedia è ambientata a Susa, la residenza del re di Persia, dove Atossa, madre del regnante Serse, e i dignitari di corte attendono con ansia l’esito della battaglia di Salamina. La battaglia di Salamina fu una battaglia navale che ebbe luogo verso la fine di settembre del 480 a.C., quando la flotta greca, guidata da Temistocle e Euribiade di Sparta, sconfisse la flotta persiana nello stretto che collega il golfo Saronico alla baia di Eleusi.

In un’atmosfera cupa e luttuosa, colma di presagi funesti, che induce a non gioire per una vittoria, ma a meditare sul dolore e sulla precarietà che accomuna tutti gli esseri umani, la regina racconta un sogno angoscioso fatto quella notte. Poco dopo arriva un messaggero, che porta l’annuncio della totale disfatta dei Persiani. La battaglia viene raccontata accuratamente, dapprima con la descrizione delle flotte, poi con l’analisi delle fasi dello scontro e infine il quadro desolante delle navi distrutte in mare e dei soldati superstiti privi di aiuto.

Lamenti e pianti riempiono la scena fino alla comparsa del defunto padre di Serse, Dario, marito di Atossa. Lo spettro dà una spiegazione etica alla disfatta militare, giudicando la giusta punizione per la tracotanza di cui si è macchiato il figlio, nell’aver osato cercare di conquistare il Mar Egeo con la sua flotta.

Arriva infine il diretto interessato, lo stesso re Serse, sconfitto e distrutto, che unisce il proprio lamento di disperazione a quello del coro, in un canto luttuoso che chiude la tragedia.

Era comune, nei primi decenni della storia del teatro, che i drammi narrassero vicende contemporanee, mentre solo in seguito l’argomento della tragedia divennero le storie dei grandi eroi e delle grandi eroine (Agamennone, Edipo, Antigone, Eracle, Medea etc.) tratte dal vasto patrimonio mitologico dei greci. Non bisogna pensare, tuttavia, che drammi come i Persiani fossero banali celebrazioni patriottiche. Eschilo, che nelle guerre persiane aveva combattuto, perdendo anche un fratello morto sul campo, e davanti a persone che avevano sofferto duramente la violenza degli invasori, vedendo le loro case incendiate e i loro parenti uccisi; come Frinico, prima di lui, racconta le guerre persiane dal punto di vista del nemico. Sarebbe come se, per commemorare le vittime delle Torri Gemelle, un presidente degli Stati Uniti facesse trasmettere a Times Square un film che partecipa al dolore dei parenti di Bin Laden per la morte del leader di Al-Qaeda. Oggi impensabile. Onore, dignità, correttezza, era ciò che provavano i soldati allora impegnanti nelle battaglie, anche le più cruente.

Era ciò che il teatro permetteva allora: una zona franca, in cui si poteva dire tutto ciò che era impossibile dire dalla tribuna dell’assemblea. Le critiche, anche le più feroci, alla democrazia ateniese, erano ammesse, come quelle che Euripide fa pronunciare all’araldo nella sua tragedia Le Supplici. Il sistema patriarcale e maschilista su cui si reggeva la società ateniese poteva essere messo in discussione nelle tragedie in cui i personaggi femminili come Clitennestra o Medea rifiutavano il loro ruolo subordinato e prevalevano sui maschi. O nelle commedie, in cui, come nella Lisistrata o nelle Donne nell’assemblea (Ekklesiazousai) di Aristofane, le donne prendevano il potere e deliberavano persino sulla guerra. Quello del teatro era davvero un altro mondo. Per questo le rappresentazioni avevano bisogno di uno spazio tutto loro, uno spazio sacro a Dioniso, signore dei travestimenti e degli inganni.

E’ solo nel 487 che la commedia entra ufficialmente negli agoni teatrali. Ha il suo massimo esponente in Aristofane, vissuto a cavallo tra il V e il IV secolo a.C. Le sue opere sono di un’eccezionale e straordinaria fantasia. Una comicità sbrigliata, oscena, incredibilmente creativa sul piano del linguaggio e delle trame, che non risparmia nessuno degli uomini in vista nell’Atene di quel tempo. Se fuori dal teatro nessuno avrebbe tollerato simili insulti, tutto ciò era possibile sulla scena. I personaggi di Aristofane potevano impunemente additare al ludibrio i maggiorenti della città. Potevano dire che Cleone, il leader politico più influente dopo la morte di Pericle nella peste del 430 a.C., era un rozzo criminale, ladro e guerrafondaio. Potevano trattare Socrate, il sommo tra i filosofi, come un ridicolo ciarlatano che misura le zampe delle pulci e studia i peti delle zanzare. Potevano aggredire verbalmente tutti i poeti rivali di Aristofane, compreso il grande Euripide, nella realtà aristocratico e poeta raffinatissimo, ma sulla scena comica figlio di un’ortolana che scrive versi privi di senso. Il pubblico, peraltro, non restava indifferente a tutte queste provocazioni. Non dobbiamo immaginarci un teatro antico alla stregua di quelli moderni, dove tutti stanno seduti compunti. Il teatro di Dioniso ad Atene, per esempio, doveva essere una bolgia infernale. Gli spettacoli duravano giorni, in una non-stop che andava dall’alba al tramonto. Gli spettatori bivaccavano in teatro, mangiavano fichi secchi e bevevano vino a volontà, tiravano ortaggi agli attori che non fossero di loro gradimento. Un allievo di Aristotele, il grande scienziato Teofrasto, nella sua deliziosa operetta intitolata I caratteri, ci parla del tipo d’uomo disgustoso che, in teatro, applaude quando gli altri non lo fanno e fischia quando tutti approvano; e che, quando c’è un momento di silenzio, si alza e fa un rutto perché tutti si voltino. Meglio allora il tipo dello Sciocco, che si limita a dormire durante le rappresentazioni e non si sveglia neppure quando tutti sono usciti. Del resto, a teatro, allora, non c’erano le cortesi signorine che ti accompagnavano al tuo posto numerato. C’era invece un corpo speciale di energumeni che era incaricato di mantenere l’ordine e portava il nome significativo di rabdouchoi, mazzieri. E’ necessario tenere presente il fermento culturale che caratterizzava l’Atene di quegli anni. Filosofi e pensatori stavano dando vita ad una rivoluzione del pensiero che sarebbe stata alla base della cultura europea nei secoli e nei millenni successivi, ma che veniva vista, come tutte le novità, con sospetto dagli ambienti più conservatori della città, i quali vedevano minacciati la religione ufficiale ed i valori tradizionali.

E dunque, dalla culla di Atene, il teatro si diffuse in tutto il mondo antico. Cambiò natura, e divenne meno anarchico e meno violento, ma anche meno politicamente rilevante, di quanto fosse all’inizio. Anche gli imperatori romani lo amarono: ma il teatro non fu mai più, ciò che fu 2500 anni prima ad Atene.

Featured image, Zeus e Semele, dipinto di Sebastiano Ricci, 1695 ca, Firenze, Uffizi.

 
 
 

2012 LA PROFEZIA MAYA

Post n°15 pubblicato il 06 Dicembre 2012 da OVIDIOPUBLIO
 

 

 La piramide di Comalcalco

 Di Riccardo Alberto Quattrini

  "Vi sarà una grande tribolazione, quale non fu mai vista dall'inizio del mondo fino adesso, e mai più lo sarà..." Matteo, 24:21

    Hunab Ku è da questo Supremo dio Creatore che si deve partire per una nuova profezia sulla fine del mondo prevista per il 21 dicembre 2012 secondo il calendario gregoriano. Come altre religioni fatte di miti e dei, anche la religione maya è quell'insieme di credenze politeiste. Il sole, la luna e l’acqua erano riferimenti alla natura cui davano tanta importanza. Il concetto dei maya è una storia che ha più di 3000 anni, ed è una complessa forma di politeismo basata sul concetto di dualità: la vita e la morte, il giorno e la notte, il maschio e la femmina.

Quella della fine del mondo è una vera e propria ossessione che da sempre assilla il genere umano. Gli Egizi 3000 anni prima di Cristo, veniva prefigurata una imminente fine del mondo con l’arrivo di un soprannaturale salvatore. Anche gli Assiro-Babilonesi e Zarathustra, non erano da meno, profetizzando l’avvento del regno di Dio. Questi miti finirono per confluire nella bibbia. La tradizione ebraica più antica, proclama attraverso i profeti: “la fede nella prossima fine del mondo” con l’arrivo del salvatore della stirpe di Davide. Anche gli Esseni due secoli prima di Cristo, aspettavano la fine del mondo. Stessa profezia fece Gesù dove nei vangeli profetizza agli apostoli il suo imminente ritorno non privo di prossimi sconvolgimenti cosmici, prima ancora che avesse fine quella stessa generazione: “in verità vi dico che questa generazione non passerà prima che tutta queste cose siano avvenute” (Marco 13,30). Altro panico generale tra i fedeli alla vigilia dell’anno 1000 dove la fine dei tempi sarebbe dovuta arrivare esattamente il 31 dicembre del 999 esattamente mille anni dopo la nascita di Cristo. Secondo il vangelo di Giovanni l’angelo di Dio aveva incatenato il drago, cioè satana solo per una durata pari proprio a mille anni. Molti devoti vendettero addirittura i propri beni per andare in pellegrinaggio nella speranza di salvarsi l’anima. Nonostante le evidenti previsioni sbagliate, i successivi mille anni di storia hanno visto nascere nuovamente tutta una serie di profezie  e previsioni sulla fine del mondo.

Sono esattamente settanta le previsioni fino ad ora effettuate, tutte corredate di data. Elencarle tutte sarebbe decisamente dispersivo oltre che noioso.

Eccone quindi alcune iniziando dalla più antica quella del profeta Bernardo di Turingia che ipotizzò la fine del mondo, fissandola precisamente nell'anno 992. Nel 1186 l’astrologo Giovanni di Toledo calcolò un apocalittico allineamento dei pianeti, (l’allineamento dei pianeti è una vera e propria fissazione per prevedere sconvolgimenti catastrofici) e di conseguenza la fine del mondo.

Nel 1198 Lotario dei Conti di Segni dal nome pontificale attribuitogli dal cardinale Graziano di Papa Innocenzo III, si spinse a predire la fine del mondo facendo un semplice ragionamento che consisteva nel ritenere che la fede nell'Islam fosse iniziata nel 618, considerando ragionevole che tale periodo potesse durare un numero di anni pari al numero attribuito al Diavolo cioè 666, sommò le due cifre e ottenne 1284, in quella data fissò la fine del mondo. Semplice, no? Ed eccoci a un altro preveggente con le idee poco chiare, parliamo di William Miller, fondatore della Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno. Egli, in base ai suoi studi sulle Sacre Scritture, sosteneva che, esattamente il 3 aprile 1843 Gesù avrebbe richiamato in Cielo i fedeli. Quando la fine del mondo non arrivò la nuova data fu fissata per il 7 luglio 1843, poi per il 21 marzo 1844 e, infine, per il 22 ottobre 1844. Quando si dice la coerenza.

Non solo bibliofili hanno previsto la fine del mondo, ci si sono messi anche dei pediatri. Secondo il dottor Elio Bianco pediatra appunto, la fine del mondo sarebbe avvenuta il 14 luglio 1960 per colpa di un’arma segreta americana. Fu per tale motivo che, con l’aiuto di 45 persone, costruì un'arca da 15 stanze direttamente sul Monte Bianco.

Edgar Whisenant ex ingegnere della NASA, studioso della Bibbia, annunciò al mondo intero il ritorno di Gesù sulla terra tra l’11 e il 13 settembre 1988. (non poteva prevedere la distruzioni delle World Trade Center solo tredici anni dopo?). Poteva mancare Nostradamus il quale previde che nel 1999 un grande re del terrore sarebbe calato dal cielo e avrebbe distrutto la terra. Nuovamente Nostradamus con la frase: “mille non più mille”, riaccese la fantasia degli esperti in vista dell’arrivo dell’anno 2000 dove, come ricordiamo non successe nulla.

Passiamo ora a date più recenti.

Nel 2005, Roderick C. Meredith, capo della Chiesa vivente di Dio, ha scritto in una rivista della sua chiesa che la fine del mondo era vicina, giacché gli eventi profetizzati nella Bibbia erano sempre più prossimi, nell’arco di tempo compreso dal 2010 al 2020. E’ stato largo per sicurezza.

Nel 2011 Harold Egbert Camping, un predicatore, presidente dell’American Christian radio, predisse per il 21 ottobre, la fine del mondo. Ci aveva già provato nel 1994. Ma non successe nulla. Erano finiti invece i Nirvana con la morte del loro leader Kurt Cobain, ma il mondo è sopravvissuto. Così aveva rifatto i calcoli e, questa volta sicurissimo, aveva detto che ci sarebbe stata per il 21 maggio dello stesso anno. E invece nulla. Così questo profeta strabico dell'Apocalisse provò a ipotizzarla per il 21 ottobre del 2011, ma anche quell’anno non successe nulla.

Ed eccoci al fatidico 21 dicembre 2012, per molti la data della fine del mondo, basata sui movimenti di Venere che causerà terribili terremoti, inondazioni e incendi. Non mancando altri catastrofisti i quali hanno aggiunto il ritorno del fantomatico Pianeta X o Nibiru, presunto pianeta, descritto sulla base di una personale interpretazione delle scritture babilonesi, dallo scrittore Zecharia Sitchin nell'ambito della sua teoria che vorrebbe all'origine della vita sulla Terra ci sia stata una presunta civiltà extraterreste. Infine dei ricercatori, non potevano di certo mancare, hanno previsto che ci sarà uno spostamento dell’asse del pianeta che causerà un’inversione del campo magnetico terrestre, con conseguenti catastrofi, oltre al rallentamento della rotazione terreste e il suo blocco per tre giorni, uno sciopero della terra, insomma.

Potevano mai i profeti e catastrofisti, visto che la bufala del 2012 è alle porte, non prevederne un altra - hai visto mai che abbiamo toppato anche questa - per il 13 aprile 2036? Ma cosa c’è di tanto catastrofico in quell’anno da far prevedere una nuova fine per l’umanità? Un asteroide, dal nome di Apophis, preso dalla mitologia egizia, esso rappresentava il buio e il Caos; spesso raffigurato con le sembianze di un cobra. Classificato come near-Earth o semplicemente NEA. Cioè quegli asteroidi che transiteranno “vicini” alla Terra. Anche se tutti i dati scientifici smentiscono qualsiasi pericolosità di questo evento, c’è da scommetterci che i soliti profeti ci soffieranno sopra, alimentando nuove paure.

Anche Newton è stato coinvolto in visioni apocalittiche, attribuendogli la fine del mondo intorno all’anno 2060. Tutto nasce da interpretazioni errate, scritte dallo scienziato, su dei foglietti non destinati alla pubblicazione e di nessun contenuto scientifico.

A questo punto c’è da chiedersi come sia possibile che un’infinità di persone, hanno da sempre creduto alla fine del mondo, o a catastrofismi immani capaci di cancellare l’umanità intera. L’unica risposta possibile è che a tutti questi faccia difetto la memoria.

 

 
 
 
Successivi »
 

AREA PERSONALE

 

TAG

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Luglio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

FACEBOOK

 
 

I MIEI BLOG AMICI

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Luglio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

CONTATTA L'AUTORE

Nickname: OVIDIOPUBLIO
Se copi, violi le regole della Community Sesso: M
Etą: 76
Prov: MI
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 

ULTIME VISITE AL BLOG

lu_54mariannasemeraromirco87costcappabianca.marcocladivolIOeMR.PARKINSONrosa512OVIDIOPUBLIOemmabiemilani.luciaandreapintus1948mariagraziasemprebonpersoledonne82GiadaMoneyTreeLaura446
 
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963