POESIE E PENSIERI

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Creato da cineriz il 21/12/2009

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LO SO.....

Post n°169 pubblicato il 14 Luglio 2011 da cineriz

SCRIVO DA DIO

 
 
 

Onore alla saggezza del Sor Arfio

Post n°168 pubblicato il 24 Agosto 2010 da cineriz

Cul che mai vide camicia,

quando la vide.....

ci cacò.

 
 
 

SIAMO ANTICHI

Post n°166 pubblicato il 20 Maggio 2010 da cineriz
Foto di cineriz

Sono gesti lenti i suoi…..

Quando Adanello esce dalla Panda con la mano in tasca e l’immancabile sigaretta al lato della bocca, e ci guarda, con la testa reclinata per non farsi andare il fumo negli occhi…

.” ’namo in cantina?” sarà la frase che seguirà quel suo gesto oramai familiare.

“…eh…’namo…” dirà Alfio Gori con quel suo sorriso che pare un sole da quanto è grande ,quasi

più grande delle sue mani…..”’namo..”dirà Robertino,altrimenti detto Aronne ed in altri mille modi,guardandosi le scarpe ….”’ndiamo!” dirò io con una “d” di più che loro che tradisce il mio essere Fiorentino al cospetto dei Cellesi.

In genere questo accade in Torno al Fosso…quando la serata dovrebbe volgere al termine…quando qualcuno,spesso Aronne ha sentenziato…”io vo  a letto…” ciondolando in attesa che siano gli altri ad andarsene per primi…quando lo sbadiglio è diventato una costante…ed anche la parlantina sciolta e forbita di Alfio comincia a essere meno brillante e costante.

Lenti ci incamminiamo verso la via della Rocca. Quattro tipi diversi in tutto. Nel fisico,nel vestire,nei capelli,nel modo di parlare, nel modo di guardarsi….ma tutti uguali, venuti fuori da quella terra,chi in un modo,chi in un altro….tutti plasmati nella creta spaccata d’agosto e nella neve di gennaio,di quel lembo di Toscana un po’ defilato ma più toscano di tanti altri.

Si cammina piano. Ada e io un passo avanti….nel mezzo sta Alfio e dietro Aronne. Alfio e io parliamo sempre , gli altri ascoltano,Aronne ridacchia sommessamente con lo sguardo di un furetto.

Donne,calcio,caccia e bischerate sono gli argomenti di discussione…non c’e’ posto per altro in cantina.

La strada per la rocca è dopo il Poggetto….d’estate ci godiamo la brezza fresca che viene da là,da occidente,dall’Amiata e da Radicofani…un vento costante, dolce che ci carezza e ci risveglia dal torpore delle lunghe serate estive,in una quiete toscana che ora tutto il mondo pare conoscere, ma noi sappiamo che prima di tutto è roba nostra. D’inverno, quando i turisti non vengono in Val d’Orcia e la ricordano solo come un depliant d’agenzia fatto di casolari e cipressi in mezzo al sole, quella brezza è una tramontana tagliente e bastarda,carica delle nevi del monte,che dopo aver spazzato la rocca di Ghino di Tacco si abbatte su Celle…si infrange sul Poggetto, fa ululare i rami secchi e smunti delle antiche acacie , e si incanala sulla Via di Mezzo come un fiume in piena, per esplodere in Piazza…e nella sua corsa folle e piena di accidenti fa piegare il Cellese che quatto quatto se ne sta andando a farsi un goccio in cantina…in Via della Rocca….e il Cellese in cantina ci va sempre.

“Fammi luce”….dice Adanello  a uno di noi senza specificare chi, appena siamo giunti davanti alla porta della cantina….le porte delle cantine di Celle….un mondo a se…ve ne sono di tutti i tipi…alcune di ferro…alcune rifatte a modo…ma la maggior parte di esse  avranno l’età del palazzo che le sostiene…o forse sono loro che tengono quelle case sprofondate sul tufo friabile del colle….un rabbercio di assi di legno,pezzetti,rattoppi. Dieci mani di vernice sbiadita su di esse, catenacci abbandonati che un tempo hanno chiuso soppiantati da altri non certamente più affidabili…e gangheri storti e bislacchi, toppe di rete da polli, fessure dappertutto….un tappo non una porta. Un tappo con un lucchetto.

“Fammi luce!” dice di nuovo Ada più forte. Nessuno gliela aveva fatta, tutti impegnati a dire bischerate. E alla Rocca la luce è poca….non si trova la toppa della porta senza che qualcuno non ti faccia luce anche con un accendino….

Finalmente Ada trova la toppa e spinge la porta in avanti…che con scricchiolii e lamenti si apre a fatica….l’antro buio si affaccia davanti a noi.

Quindici,forse diciassette ripidi scalini scavati nel tufo,che vanno giù,come se scendessero all’inferno,come se li sotto ci fosse il centro della terra.

Le cantine di Celle….questi budelli del colle scavati dagli uomini nei secoli,che come formiche industriose levavano alla terra il tufo per costruire sopra i loro ricoveri,le loro povere case, ma anche i loro bei palazzi…perché Celle non manca di palazzi feudali e residenze di antichi signori araldati.

E oramai che c’erano quei tunnel perché non servirsene….e così le cantine hanno accolto generazioni di Cellesi in ogni situazione…nelle cantine sono stati combinati matrimoni, fatti affari senza il sensale, fatte forse le corna e le corna scoperte, ci si è amati e ci si è odiati…ci si è nascosti durante l’ ultima guerra per ripararsi dai bombardamenti….e chissà…se anche Lorenzo e Cecco da Celle,fuoriusciti della Repubblica di Siena ,nel 1382, si nascosero nelle cantine di Celle…non si sa cosa avessero fatto per scappare alla macchia e esser banditi….si sa che però un tale Obizzo da Montegarulli  della Garfagnana, Signore di Pievepelago e Roccapelago, capitano di guerra al soldo della Repubblica Senese, per catturarli nell’ottobre del 1382 “cavalca in val d’Orcia e nella montagna, espugna Celle sul Rigo e vi cattura Lorenzo e Cecco di Celle, che sono inviati a Santa Fiora per esservi decapitati. Il paese viene distrutto e non è ricostruito per qualche tempo”così recitano le cronache…altro non ci è dato di sapere….però devono averla fatta grossa…e grossa la fecero i Cellesi a nasconderli….

I quattro scendono le scale….passo sicuro…eh si, nonostante l’umidità che copre le scale incise nel tufo il passo del Cellese in cantina, quando vi scende , è sempre sicuro…forse un po’ meno quando ne esce.

La fioca luce illumina la cavernetta, l’immancabili sigarette in bocca, oramai segno distintivo di noi tutti da quando avevamo  dieci anni,diffondono il loro fumo azzurrognolo,siamo  in piedi…le cantine non hanno sedie o panchetti.Adanello prende il bicchiere dal muretto di tufo ricavato dallo scavo, bordo antico dove si poggiava la botte di legno. Un cittadino inorridirebbe a vedere quel bicchiere…figuriamoci a pensare di berci dentro. Di bicchieri in cantina ce n’è uno. E basta. E l’acqua non c’è. Adanello fa scendere un po di vino nel bicchiere e con due giri di polso lo fa roteare, rovesciandolo . Ed è sciacquato. Così si rigoverna in cantina. Lento e solenne riempie il primo bicchiere…l’ambra del nettare di Bacco colora d’oro il vetro, rilasciando la leggera schiuma che dura un istante in cima … “ toh…” dirà Adanello porgendo il bicchiere senza alzarsi, allungando il braccio…senza fare nomi, al primo che allunga la mano, che berrà di un solo sorso, al massimo due, assaporando il gusto,facendo il suo commento, sempre positivo, non per ruffianeria, ma semplicemente chi ti porta in cantina sa di avere il vino buono, altrimenti non ti ci porta. E dopo aver bevuto lo ripasserà ad Ada , che lo riempirà di nuovo, e si ripeterà la scena, fino a che tutti non avranno bevuto e per ultimo il padrone….che chiederà: “Un altro…” e farà il gesto di rimettere il bicchiere sotto la botte….qualcuno dirà: “Basta…bono,ma so’ a posto..” e altri, “Dammene mezzo” e tutti ne berranno due o tre colmi…

Siamo antichi….in quei gesti siamo antichi….in gesti antichi che facevano i nostri padri,i nostri nonni,i nostri avi….e la cosa che più ci inorgoglisce è che anche Aroldo e Graziano Barba e Piombo e Giovannino,i nostri babbi, forse sono scesi insieme tante volte in cantina…e i loro padri insieme sono scesi in cantina…e anche i loro padri…generazioni di fratelli,paesani, con lo stesso sangue nelle vene, e lo stesso vino in bocca. E questi vecchi Cellesi non avranno fatto gesti diversi dai nostri, le facce erano le stesse, stesse le movenze, stesse le serate, stesse le situazioni…e fuori lo stesso vento di tramontana bastardo e tagliente li avrà ingobbiti o lo stesso sole di rame che brucia le stoppie del grano tagliato e spacca i cretoni li avrà assetati.

Se Cristo riunì gli amici nel momento più maestoso e triste della Sua vita , e offrì loro un bicchiere di vino un motivo ci sarà…in cantina si portano gli amici…gli antichi amici…quelli di sempre…amici di generazioni,fratelli uniti dal sangue , un sangue antico come la terra di Siena, bagnata dal sudore delle fronti dei nostri avi…fuori della cantina il vento infuria….com’è lontana quella fotografia da depliant che fa innamorare milanesi e tedeschi di questa terra arida e inospitale…i cipressi non sono steli eretti verso Dio, ma mostri minacciosi che fanno urlare le loro chiome…ed il vento s’infuria con la loro resistenza e spira fra le loro fitte trame con paurosi sibili da anime dannate. Sono lontane quelle immagini amate dai camperisti di ombrose chiome di quercia ove fare un pic nic in terra Toscana…ora la pioggia mista a neve sferza le pietre antiche delle case levigandole da sempre….ed il Cellese esce di cantina, oggi chiudendosi del giubbotto di piuma d’oca o firmato da qualche stilista del nord, ieri nella giacca cacciatora maremmana, alzandosi il bavero e sibilando “Buonanotte”….

Mi volto verso il campanile…la torre maestra della medievale cinta muraria…17 metri slanciati verso il cielo da dove i militi della Repubblica Senese controllavano il confine sud…grigia, altera, una sentinella sempre vigile…mi guarda,la guardo…un altro Cellese che se ne va a casa con passo incerto….lei ne ha visti tanti in sette secoli…tutti uguali….non ci fa neanche più caso.

 
 
 

MONOLOGO DINANZI AL COMPAGNO CADUTO IN BATTAGLIA

Post n°165 pubblicato il 18 Maggio 2010 da cineriz

Amico,amico caro,camerata,cos’hai fatto?Perché i tuoi occhi sono spalancati e stupiti come dinanzi ad un miracolo?Perchè la tua bocca è aperta e distorta come se pronta al richiamo o all’imprecazione?Cos’hai amico mio?Perché non rispondi?Eppure fino ad ieri marciavamo accanto l’un l’altro…con l’armi in spalla,cantando canzoni da taverna,ridendo e giocando…e mi ricordo come i nostri piedi  affondavano lenti e pesanti nel fango primaverile,baciati eravamo in fronte dal caldo raggio del sole,e stanche erano le gambe a trascinare i pesi della guerra…cos’hai amico?Parla!Parla  come mi parlavi nelle fredde notti passate sotto la coperta stesa sulla neve,nei momenti prima del meritato e sempre breve riposo,quando mi raccontavi della donna amata…un discorso senza fine,perché il sonno ci assaliva prima della sua conclusione.Che hai fatto amico?Alzati…rispondi!  Non ti ricordi quei campi di grano attraversati d’estate ,nel sole del pomeriggio,e quei silenzi fra noi che valevan più di mille parole,ad ascoltare il canto del fagiano?Perché sei così freddo?Quando nelle trincee invernali,per farci coraggio ci stringevamo fra noi ed il tuo corpo mi riscaldava e mi rinvigoriva,non mi faceva sentire solo nell’attesa del comando a balzar fuori per andar contro il nemico.E ora tu sei freddo.Perché la tua fronte pare un prato?Perché c’è solo quella rosa rossa?Perché il tuo volto e’ rigato di porpora?Gridami il perché del tuo ostinato silenzio!Ti ho forse fatto un torto?Ho forse sputato nella tua gavetta?Noi siamo troppo amici…non potrai mai abbandonarmi…andiamo amico!Ci sono tante terre da viaggiare,tante belle donne da conquistare…non puoi lasciarmi qui da solo,prostrato sul tuo corpo di morto.Morto!Scusa amico,tu non sei morto,tu non puoi essere morto.Tu sei il mio camerata,il mio amico,è troppo presto,sei ancora giovane..perché?Perchè Dio mio tu non rispondi?Perché sei stato rapito così in fretta…te ne sei andato senza darmi il tempo di abbracciarti…cosa farò ora io?A chi racconterò le mie paure?Con chi dividerò il rancio?Signore Iddio,rapisci anche me!E portami con te,con il mio amico,nel tuo regno dove non c’è posto per le armi,dove c’è solo l’amicizia…dove l’uomo non muore per mano di un altro uomo…ma…ma forse,un momento..non è per la guerra che io ho conosciuto un vero amico?Se io non avessi dovuto combattere avrei mai avuto un amico così?E allora…allora se così e’ stato,così sarà.Ti lascio amico mio…continuo per la mia strada…non so quanto lunga sia,può darsi che prima di notte sia di nuovo accanto a te,lontano da questa guerra.E se così non fosse,non ti preoccupare,oramai il tempo per te non esiste,sappimi attendere.Addio…riposati ancora un po’ sulle  foglie autunnali dai mille colori,anch’esse cadute e morte come te,oggi su questo campo,e aspettami,ti racconterò tutto quello che vivrò di questa dannata guerra,di questa avanzata…e ci berremo sopra,forse anche domani…addio..e riposati.

 
 
 

UN PICCOLO RACCONTO - SESTA PARTE

Post n°164 pubblicato il 15 Maggio 2010 da cineriz

Ma, all’improvviso, una voce nel tumulto colpì la sua attenzione, leggera come un cinguettio:

“Franz….Franz Weber….Chi conosce Franz Weber?” ripeteva la vocina.

Dette una spinta al suo camerata e si affacciò al finestrino. Lì sotto..lei..Anna!

“Anna! Sono qua!Anna!”

“Franzi..mio dolce Franzi..amore mio!” Aveva gli occhi pieni di lacrime. Gli protese le piccole mani che lui afferrò e strinse.

“Chi te lo ha detto che partivo oggi?” chiese lui.

“Simon…l’ho pregato tanto, non mi ha resistito, non ha retto alle mie insistenze!:”

“Pazza! Ora saprà! Immaginerà! E tu…qui! Vattene, vai via, fra tutta questa gente ci sarà qualcuno che ti riconoscerà...pensa alla tua reputazione!”

Il treno si muoveva piano.

“Non mi importa nulla, fammelo gridare almeno oggi, alla luce del sole, liberamente e non sommessamente al buio di una camera, lontano da tutto…….ti amo Franz. Ti amo più della mia vita. Era il mio sogno gridarlo in mezzo alla gente, senza freno. Ti amo! Lo capisci?”

Anna non riusciva più a stare al passo col treno che prendeva leggera velocità Era un tumulto di persone, di saluti, di mani…..ma ora erano soli.Il mondo da cui nascondersi non esisteva più.

Anna si fermò vicino ad una colonna, abbandonandosi esausta, piena di lacrime. Lui raccolse tutto il fiato che aveva in gola, si sporse più che poteva e, come tutti, gridò:

“Aspettami! Tornerò! Tornerò!Ti amo!”

La vide lì, piccola e indifesa, con il suo cappellino di paglia, i ciuffi biondi che facevano capolino, il suo vestito bianco leggero con una balza azzurra e la piccola mano che lo salutava. Il treno avanzava, fece una mezza curva e gli ultimi vagoni coprirono la sua vista, coprirono l'immagine di Anna.

 

………………………………………………………………………….

 

La neve copriva oramai ogni cosa a Vienna. Tutto era bianco e ovattato in quel gennaio 1916. Tutto stava diventando triste e malinconico. Erano quasi due anni che l’Austria, la Felix Austria, era in guerra, in quella guerra che era iniziata contro la Serbia, doveva sembrare un’operetta e che ,invece, aveva provocato uno sconquasso generale. Niente andava bene. Anche il Kaiser, il vecchio Franz Joseph, stava invecchiando. Voci altalenanti dalla Hofburg lo volevano ora malato grave, ora in coma, ora morto. Vecchio, solo e morente. Come tutto l’Impero austro-ungarico.

La gente cercava di far finta di niente. Si andava a teatro, ai concerti ma niente era più lo stesso. Ovunque, nei salotti, nelle pasticcerie, nelle taverne, si parlava solo di guerra. Ogni viennese, ormai, aveva un dramma da raccontare, un ragazzo da piangere e tutti, ovunque, lo facevano.

Le voci di gloria, di vittoria, di grandezza dell’impero non coprivano più i pianti e i dolori del popolo austriaco che, alla giustizia della guerra, cominciava a credere sempre meno. E sapeva che non era cosa breve.

Anna uscì dal suo appartamento signorile di Rotenturmstrasse e si avviò verso Kupfgasse. Come ogni mattina, sfidando qualsiasi freddo, andava alla libreria di Simon. Passava, si fermava, senza più neanche guardare i libri né gli spartiti. Entrava in bottega, si sedeva davanti alla scrivania di Simon e parlavano, di tutto ma molto di Franz. Simon aveva scritto ai genitori di Franz e li aveva pregati di tenerlo informato. Ma anche Franz, di tanto in tanto, dava sue notizie al libraio, rassicurandolo che la guerra non era quella bestia che si diceva, che il freddo sulle Alpi c’era, si, ma c’era per tutti, anche per gli Italiani e che non era poi così difficile stare al mondo. Tutto questo Simon lo ripeteva ad Anna, con la sua voce pacata e paterna, mentre lei lo riempiva di domande, seduta sulla sedia, pendendo dalle labbra del vecchio ebreo, dissetando l’ansia con le sue parole. Quella era una mattina come altre. Spinse la porta della libreria, il campanellino tintinnò allegramente. Il solito calore e il profumo di cose vecchie l’avvolse. Simon era seduto al suo scrittoio. Nel vederla entrare respirò profondamente e accennò un sorriso.

“Buongiorno Herr Simon” disse appoggiando la borsetta sul tavolo e sedendosi “sempre più freddo eh?”

“Eh si, Anna, sempre più freddo.” Rispose quasi assente il libraio. Lei lo osservò. Qualcosa non le piaceva oggi in quell’uomo

“Che cosa ha fatto? Si sente poco bene? Cosa è successo? Devo chiamare un medico, Herr Simon?” chiese lei concitata, quasi implorando Dio che la condizione di quell’uomo fosse dovuta alla salute.

“Anna… dammi la mano…” sospirò il libraio “devi essere forte. Stamani mi è arrivata una lettera da parte di Herr Weber, il padre di Franz.”

Non lo lasciò finire di parlare. Nascose il piccolo viso fra le mani esplodendo in un pianto dirotto.

“E’ morto, Herr Simon….è morto!”

“Si, Anna. Un cecchino l’ha colpito sotto la scapola destra. E’ stato istantaneo. Un suo commilitone assicura che non ha sofferto. E’ stato un buon soldato.”

Il vecchio si alzò dalla sua sedia e si avvicinò ad Anna. Si abbracciarono unendosi in un pianto disperato: la fidanzata che non era fidanzata e il padre che non era padre. Si stringevano, piangendo il loro sogno.

Fuori, la neve cadeva. I leggeri fiocchi si posavano senza un suono sul candore compatto che copriva ogni cosa, diventando anch’essi parte dell’insieme e altri, candidi, si sarebbero uniti a loro, perdendosi. Come Franz,  in quel piccolo cimitero di guerra, insieme a tanti altri ragazzi, coperti da quella immacolata neve, che copre tutto.

 
 
 

UN PICCOLO RACCONTO - QUINTA PARTE

Post n°163 pubblicato il 11 Maggio 2010 da cineriz

L’aria fresca del mattino gli riempiva i polmoni. Tornare a Vienna, dopo più di un mese di addestramento, gli dava una sensazione strana. Straniero, ecco come si sentiva, straniero in quella città. Era partito borghese e tornava, con zaino, elmetto e fucile. Era partito solo e tornava inquadrato, insieme ad altri ragazzi come lui, che, per fanatismo o tristezza, avevano deciso di chiudere con la loro vita. Eccoli sui camion, tutti seduti, verso la stazione sud. Buttava gli occhi fuori…posti noti, conosciuti…il ring, l’Urania, il Donau Kanal e , in fondo, il Prater….quante passeggiate con Anna sulla fresca erba del parco. Sentiva ancora la sua mano leggera appoggiata al suo avambraccio e il suo cinguettio, le sue risate argentine…maledetti ricordi…era meglio partire da Linz o da Graz. Era meglio partire e basta.

 Era presto ma il caldo, in quell’agosto viennese, si faceva sentire fin dal mattino.

 Ecco la stazione sud. Partenze per il fronte meridionale. Carinzia, sud Tirolo, Friuli. La guerra da quelle parti infuriava. Erano tre mesi che si combatteva in quei posti. Era da più di un anno che si combatteva in tutta Europa.

I sergenti istruttori cominciarono a urlare a loro ordini. Oramai non ci faceva più caso. Al suo arrivo in caserma, non capiva tutto quell’urlare dei suoi superiori, abituato com’era alla calma serafica di Simon. Poi ci si abituò e gli parve normale. Nella vita ci si abitua a tutto, anche alle situazioni più paradossali.

Il plotone si inquadra sotto gli sguardi fissi degli ufficiali. Tutto perfetto. Perfetti soldati. In un mese avevano fatto di quei ragazzi dei veri uomini. Almeno così credevano tutti. Marciando si entra nella stazione. Le donne salutano e mandano baci, i bambini fanno gesti con le piccole mani, con le loro cuffiette candide, i borghesi gridano:” bravi, bravi!”. Il treno aspetta. Vagoni di terza classe riciclati dall’esercito. Ne partono decine ogni giorno da tutta l’Austria, verso ovest, est e sud. Parte la  migliore gioventù. La macchina sbuffa, pare che respiri, regolare, intermittente. Candido fumo esce dalla sua bocca. Si sale. Le porte delle carrozze sono strette: o si resta incastrati con lo zaino, o con il fucile a spalla. Anche salire sul treno, nell’esercito, è cosa complicata.

Franz riuscì fra spintoni e colpi di zaino a prendere un posto vicino ad un finestrino. Non si voleva perdere l’ unica cosa buona di quella città: vedersi in un sol colpo praticamente tutta l’Austria. Si appoggiò al vetro aperto. Prevedeva un viaggio caldo e massacrante. Guardava i viennesi accorsi a frotte, molti curiosi o sfaccendati perdigiorno, pensionati, falsi intellettuali inebriati di pangermanesimo e di sacri confini della patria che restavano comodamente sui binari o nelle konditorei. E i padri di quei suoi commilitoni  che paventavano fierezza e orgoglio per i loro figli coraggiosi, da immolare sull’altare della gloria, ma con dentro un cuore stretto in una morsa, e una lacrima da ingoiare e da tirare fuori quando nessuno ti vede. E i pianti delle mogli, delle sorelle, delle fidanzate…..e la disperazione o la silente rassegnazione delle madri, le più tristi in questo quadro drammatico di una tragedia umana.

Lui osservava. Nessuno era venuto a salutarlo. Aveva avvertito i sui genitori soltanto due giorni prima, spedendo una lettera. Avrebbero saputo della sua scelta solo dopo che era al fronte …e che forse era già morto. A Simon, in una lettera, aveva esplicitamente chiesto di non venire a salutarlo. Voleva essere ricordato giovane e scanzonato commesso di libreria, non un eroico soldato del Kaiser. Gli amici….ma quali amici? Chi erano gli amici? Quei disperati ragazzi che vagavano da una birreria all’altra? Alcuni di loro erano già partiti. Altri sarebbero partiti di lì a poco. Quanti ne sarebbero tornati?E si sarebbe ricordato di loro? E loro di lui? Era così che aspettava la partenza. Lo sguardo perso fra il via vai della stazione e la testa piena di pensieri seri e futili.

Di lì a poco avrebbe sentito lo strappo della locomotiva, lo stridere del ferro della ruota sul binario, il primo giro dell’ingranaggio, lo sbuffo del vapore e avrebbe visto muovere quel paesaggio statico oltre il finestrino, lasciandoselo alle spalle. Forse per sempre.

Ecco…si parte. Come immaginava, lo scossone per un istante gli dette l’impressione di cadere. Il treno si  mosse, lentamente, quasi impercettibilmente. Fu un rovesciarsi di tutti ai finestrini, fu travolto dai suoi commilitoni, un convulso sporgersi, uno stringere di mani, lacrime e grida, tutti promettevano la stessa cosa: “Tornerò”. Quanti l’avrebbero mantenuta?Era contento di non avere nessuno a salutarlo, a vederlo andare via. Si risparmiava un bel dramma.

 
 
 

UN PICCOLO RACCONTO - QUARTA PARTE

Post n°162 pubblicato il 08 Maggio 2010 da cineriz

Non sapeva quanto tempo era trascorso quando sentì bussare alla porta. Balzò in piedi…Anna…corse a d aprire. Lei sfilò oltre la porta facendo frusciare il vestito sulle sue gambe, senza salutarlo. Si sedette sul letto, senza togliersi il cappello, appoggiando entrambe le mani guantate di pizzo sul manico dell’ombrellino da sole:

“Cosa hai da dirmi Franz Weber?” Lo fissava con quei suoi occhi grandi e verdi, che non riuscivano ad essere duri nonostante i suoi sforzi, e che anzi, si addolcivano ogni istante di più: Franz si accese una sigaretta rimanendo in piedi, ne aspirò una profonda boccata e prese fiato:

“Ci lasciamo, Frau Kaufmann.” Disse con fare deciso.

“Hai deciso tutto tu?” disse lei con voce che voleva essere dura ma che si strozzava in gola.

“Si, Anna, ho deciso. Non abbiamo futuro, stiamo perdendo tempo. Tu non lo lascerai mai, tuo marito, io non sarò mai chi vorresti che fossi….inconciliabile.”

Anna si alzò dal letto, gli occhi pieni di lacrime, si sforzava di sorridere:

“Allora è finita, Franzi…giusto, hai ragione…hai ragione…hai perfettamente ragione.” Si avviò nel corridoio, si fermò alla porta:

“Allora ciao Franz……” disse piangendo, il mento le tremava, il piccolo labbro inferiore era scosso da un fremito, gli occhioni verdi erano velati di lacrime:

“Domani entri alle 9, vero? Come sempre, vero?” disse lei come per far sembrare che niente fosse cambiato o dovesse cambiare.

“No, Annerl.” Sorrise Franz guardandola “No piccina..non vado più a lavorare….mi sono arruolato..fra tre giorni parto..vado in guerra”

Anna rimase di sasso. I suoi occhi verdi erano due pezzi di vetro che trafiggevano il viso di Franz:

“Stai scherzando, vero? Perché lo hai fatto? Perché?…..”

“Và adesso..ti prego…vai….niente scene teatrali…..vai via, ti prego…”. Le aprì la porta e la spinse fuori richiudendola. Vi si appoggiò con le spalle. Sentiva i suoi singhiozzi mentre scendeva le scale. Il suo vestito frusciava alle pareti. Due lacrime rigavano il volto di Franz.

 

……………………………………………………………………….

 

 

L’aria fresca del mattino gli riempiva i polmoni. Tornare a Vienna, dopo più di un mese di addestramento, gli dava una sensazione strana. Straniero, ecco come si sentiva, straniero in quella città. Era partito borghese e tornava, con zaino, elmetto e fucile. Era partito solo e tornava inquadrato, insieme ad altri ragazzi come lui, che, per fanatismo o tristezza, avevano deciso di chiudere con la loro vita. Eccoli sui camion, tutti seduti, verso la stazione sud. Buttava gli occhi fuori…posti noti, conosciuti…il ring, l’Urania, il Donau Kanal e , in fondo, il Prater….quante passeggiate con Anna sulla fresca erba del parco. Sentiva ancora la sua mano leggera appoggiata al suo avambraccio e il suo cinguettio, le sue risate argentine…maledetti ricordi…era meglio partire da Linz o da Graz. Era meglio partire e basta.

 Era presto ma il caldo, in quell’agosto viennese, si faceva sentire fin dal mattino.

 Ecco la stazione sud. Partenze per il fronte meridionale. Carinzia, sud Tirolo, Friuli. La guerra da quelle parti infuriava. Erano tre mesi che si combatteva in quei posti. Era da più di un anno che si combatteva in tutta Europa.

I sergenti istruttori cominciarono a urlare a loro ordini. Oramai non ci faceva più caso. Al suo arrivo in caserma, non capiva tutto quell’urlare dei suoi superiori, abituato com’era alla calma serafica di Simon. Poi ci si abituò e gli parve normale. Nella vita ci si abitua a tutto, anche alle situazioni più paradossali.

Il plotone si inquadra sotto gli sguardi fissi degli ufficiali. Tutto perfetto. Perfetti soldati. In un mese avevano fatto di quei ragazzi dei veri uomini. Almeno così credevano tutti. Marciando si entra nella stazione. Le donne salutano e mandano baci, i bambini fanno gesti con le piccole mani, con le loro cuffiette candide, i borghesi gridano:” bravi, bravi!”. Il treno aspetta. Vagoni di terza classe riciclati dall’esercito. Ne partono decine ogni giorno da tutta l’Austria, verso ovest, est e sud. Parte la  migliore gioventù. La macchina sbuffa, pare che respiri, regolare, intermittente. Candido fumo esce dalla sua bocca. Si sale. Le porte delle carrozze sono strette: o si resta incastrati con lo zaino, o con il fucile a spalla. Anche salire sul treno, nell’esercito, è cosa complicata.

Franz riuscì fra spintoni e colpi di zaino a prendere un posto vicino ad un finestrino. Non si voleva perdere l’ unica cosa buona di quella città: vedersi in un sol colpo praticamente tutta l’Austria. Si appoggiò al vetro aperto. Prevedeva un viaggio caldo e massacrante. Guardava i viennesi accorsi a frotte, molti curiosi o sfaccendati perdigiorno, pensionati, falsi intellettuali inebriati di pangermanesimo e di sacri confini della patria che restavano comodamente sui binari o nelle konditorei. E i padri di quei suoi commilitoni  che paventavano fierezza e orgoglio per i loro figli coraggiosi, da immolare sull’altare della gloria, ma con dentro un cuore stretto in una morsa, e una lacrima da ingoiare e da tirare fuori quando nessuno ti vede. E i pianti delle mogli, delle sorelle, delle fidanzate…..e la disperazione o la silente rassegnazione delle madri, le più tristi in questo quadro drammatico di una tragedia umana.

 
 
 

UN PICCOLO RACCONTO - TERZA PARTE

Post n°161 pubblicato il 06 Maggio 2010 da cineriz

“Grazie per la birra, Franz, “ disse alzandosi di scatto “ora devo andare.”

Franz si alzò:

“No aspetta Rudi..!”

“No..ho aspettato troppo…è ora che vada. In bocca al lupo amico mio”.

Si mise il cappello e con passo frettoloso si avviò alla porta. Franz la sentì sbattere dietro le sue spalle. Non si voltò, rimase immobile a fissare quel boccale di birra vuoto dell’amico…. In guerra..pazzo Rudi…ma gliel’ hanno detto che in guerra la vita è dura? Che in guerra si muore? Si muore…e se lui avesse voluto proprio quello? Una morte da eroe?

Lasciò gli spiccioli sul tavolo senza neanche finire la sua birra e se ne tornò a testa bassa e con mille pensieri verso il negozio.

Simon stava spolverando i libri.

Alle 18 scappò di corsa verso casa. Viveva a pochi isolati da lì, in Jacoberg. Arrivò in un istante. Volò, salendo le scale, aprì frettoloso la porta ed entrò in casa. Anna lo aspettava in camera. Lui si gettò fra le sue braccia, dimenticando Simon, Rudi, la guerra e il bene e il male di tutto il mondo. Fecero l’amore come se fosse stata la prima volta, la volta più bella.

“Lo lascerai mai , Annerl, tuo marito?”chiese lui fissando il soffitto, dove si perdeva il fumo della sigaretta, dissolvendosi come i suoi pensieri nel cervello sgombro da ogni dolore.

“Lo farei Franz, lo farei…. Ma tu che fai? Ne abbiamo parlato molte volte lo sai….” Rispose lei, la testa bionda sul suo petto, ad ascoltare quel cuore che solo per lei batteva e gli occhi verdi fissi nel vuoto.

“ Io che faccio….” Sospirò Franz “faccio il commesso nella libreria di un ebreo, pochi studi, pochi soldi, poco futuro, non sono un uomo alla tua altezza, lo so..per te sarebbe un regredire”.

“Non dire così Franzi..lo sai che non è così. Io ho i miei genitori a cui rendere conto, il mio ceto….certo, oramai il divorzio non è uno scandalo. Ma tu….non mi offri niente, sei statico, pigro. Come faccio a presentarti ai miei? A dire che ho lasciato il Dottor Avvocato Sepp Kaufmann per Franz Weber, signor nessuno? Non posso! Datti da fare, fatti una posizione, impegnati. Vienna mi riderebbe dietro!”

“Hai ragione” disse Franz “Non puoi perdere la faccia, onore e privilegi tutti di un colpo. Non ti sto criticando. Ti capisco, davvero. La vita non è una fiaba dei fratelli Grimm”. Si alzò dal letto.

“Vestiti Anna, sono quasi le 8. Kaufmann sta per tornare. Si insospettirà…..vai da tuo marito.”

“Sei ingiusto e cattivo! Vedi le cose solo dal tuo punto di vista! Sei egoista..non mi capisci!”

Anna si rivestì in fretta e si avviò alla porta, tesa come una corda di  violino.

Franz rimase davanti allo specchio. Senza guardarla le parlò:

“Domani non venire in libreria. Ti aspetto alle 18, qui a casa mia. Devo parlarti”:

Anna uscì sbattendo la porta. Franz rimase a guardarsi davanti allo specchio e si accorse che stava sorridendo amaramente.

Il mattino dopo, alle 9 in punto seguì Simon in negozio, come ogni mattino, ma non si tolse il cappello.

“Herr Simon, devo parlarle….”.

Simon lo guardò preoccupato:

“Cosa hai fatto figliolo? Che hai? Cosa c’è che non va?”

“MI licenzio, Herr Simon. Vado ad arruolarmi” disse con voce sommessa Franz abbassando lo sguardo “vado in guerra”.

Il vecchio ebreo diventò in un istante ancora più vecchio, si lasciò cadere sulla sedia di legno con i braccioli, vecchia come lui, si tolse gli occhiali piccoli e tondi:

“Cos’è che ti tormenta figlio mio? Che ti manca? Cosa posso fare per te?”.

“Niente, Herr Simon, Pregare. Faccia questo. Sarà abbastanza”.

Simon aprì un cassetto del suo scrittoio, estrasse un mazzetto di corone e le porse a Franz.

“Tieni, figliolo….ti serviranno. C’è la tua paga e qualcosa in più….dovevi aspettare, io sono vecchio…potevi tenerti la libreria…ti avrei lasciato tutto…”

Franz gettò le braccia al collo del piccolo vecchio, commosso:

“Amico mio, grazie…ma forse non sarebbe bastato neanche questo…forse non basterebbe niente:”.

Uscì. Per l’ultima volta, lasciandosi alle spalle un vecchio solo, una vita e la gioventù.

L’ufficio di leva era uno stanzone asettico. Cinque funzionari militari stavano seduti attorno a un tavolo. Fu il suo turno. Nudo, si presentò davanti a loro. Misurato, pesato, visitato. Abile, arruolato, fanteria. Dopo tre giorni partenza per l’addestramento.

Uscendo, sentiva le insulse chiacchiere dei funzionari militari, intenti ad arruolare tutti, bevendo birra. C’era una guerra e non si andava per il sottile. Sperava di avere la stessa fortuna che aveva avuto Rudi. Incontrare un amico e sentirsi uomo di fronte a lui. Dirgli fiero che andava a difendere la patria. Rendersi utile. Ma non incontrò nessuno. Andò diritto a casa, chiuse le tende, chiuse la vita fuori e si buttò sul letto al buio……pensò alla morte.

 
 
 

UN PICCOLO RACCONTO - SECONDA PARTE

Post n°160 pubblicato il 03 Maggio 2010 da cineriz

“Non è questo il momento di parlarne” sospirò lei guardandosi in giro sospettosa.

“Non lo è..non lo è mai..ma certi pensieri mi uccidono, e in casa mi scoppia la testa..devo uscire, trovare gente, non pensare. Bevo, mi rintontisco con l’alcool, con le voci, con il fumo dei sigari delle birrerie..”.

“Con tutte le donnine allegre di Vienna!” lo interruppe Anna stizzita.

“Amore..” rispose lui con voce rassicurante “ cosa dici..come potrei..io ho solo te in testa, solo te e se vivessi con te le birrerie potrebbero fallire!”

“Basta Franz. Mica mi convinci troppo.” Disse imbronciata lei “vado a casa…vengo da te dopo?” .IL viso di Franz si aprì in un sorriso. Lanciò di sottecchi un’occhiata al vecchio libraio che stava col capo chino su un tomo e le prese la mano:

“Amore..alle 18.10 io sono a casa, ti aspetto.” Si portò alle labbra la piccola mano di lei candida come la neve e la sfiorò con un bacio. Anna si sciolse in un sospiro poi a voce alta disse:

“Bene Herr Franz, prendo questi spartiti italiani..Herr  Simon può segnare sul mio conto? A fine mese mando il nostro amministratore a saldarlo, come sempre.”

Simon sorrise alla signora Kaufmann:

“Mia cara signora, stia tranquilla,  come comanda..arrivederla.”.

Anna uscì, lasciandosi alle spalle un delicato profumo. Il suo abito lungo frusciò attraverso gli scaffali. Franz la seguì con lo sguardo e rimase con gli occhi fissi alla porta, anche dopo che era svanita, ed il campanello sul vetro, che avvisava l’entrata e l’uscita di qualcuno, aveva smesso di tintinnare.

Il libraio lo guardò da sotto i piccoli occhiali tondi:

“Franz, c’è da rimettere a posto quei libri arrivati ieri da Francoforte..”

“Si, Herr Simon. Le dispiace se vado a farmi una birra da Wolfgang? Ci metto un istante..”

“Va bene ragazzo” disse paternamente il libraio “prenditi un’ora…ma fra un’ora sii qua che ho bisogno di te.”

Franz ringraziò con un sorriso, si infilò il cappello e uscì.

Era già caldo alla fine di giugno di quel 1915 a Vienna. Stare al chiuso faceva soffocare, venire sonno e pensare.

All’angolo con la Schulerstrasse si imbattè in Rudolph, sfaccendato come sempre. Stessa età di Franz, baffi curati, fiore sempre fresco all’occhiello, si dava aria da benestante nonostante la miseria divenuta oramai cronica.

“Mio caro Rudi, che ci fai alle 3 del pomeriggio in giro? Per un signore come te il sole è appena sorto! Sei caduto dal letto?” lo schernì Franz prendendolo sottobraccio e tirandolo in direzione della birreria. L’amico oppose una educata resistenza:

“No Franz, devo andare, non posso venire con te, ho da fare!”

Franz scoppiò in una sonora risata e si piantò davanti all’amico:

“Rudolph Boehm ha da fare? Rifiuta una birra offerta? Oggi è un giorno santo! Ma dico, che hai fatto? Ti sei innamorato?”

“Va bene” disse serio Rudi “una birra la bevo con te… giusto.. ho bisogno di parlarti, ho bisogno di parlare”.

Franz intese nella gravità della sua voce che non stava scherzando.

“Avrà messo incinta la moglie di qualcuno o i creditori gli stanno alle costole davvero stavolta.” Pensò fra se.

Si sedettero. Wolfgang, un omone dalla testa di bue, si avvicinò e, appoggiando le enormi mani sul loro tavolo rise:

“latte per i bambini?”

Aveva due baffoni neri che gli scendevano oltre gli angoli della bocca, una bocca che pareva un palazzo con tante finestre, tanti erano i denti mancanti da tempo immemore. La camicia pareva esplodere da quanto i muscoli delle braccia la tenevano in tensione. Un enorme grembiule lungo fino agli stinchi completava l’affresco di quel gigantesco e buffo essere umano.

“ Latte,Wolf, fresco e con la schiuma!”

L’oste tornò di lì a poco poggiando sul tavolo di quercia due boccali di birra fresca.

“Allora, mi dici cosa hai fatto Rudi?” chiese Franz.

L’altro abbassò gli occhi.Teneva lo sguardo fisso in un punto imprecisato del tavolo. Con il dito giocava a spargere in cerchi concentrici una goccia di schiuma che era caduta.

“Vado via Franz..parto per la guerra….” Disse Rudolph con un filo di voce.

“Cosa? Dove vai?” esclamò sorpreso Franz, stralunando gli occhi. “ma sei impazzito? Ti hanno richiamato?”

“No, mi sono presentato volontario.”rispose l’amico con un sorriso triste “parto dopodomani per l’addestramento”:

Si guardavano negli occhi, in silenzio.

“L’Austria ha bisogno di me. L’Italia è entrata in guerra da un  mese. Al fronte avranno qualcosa da farmi fare. Qui perdo tempo e soldi.” Prese fiato in un sorso di birra. “Ma non mi vedi? Cosa sono? Un ciarlatano, un perdigiorno, un parassita, perso in bordelli, birrerie e mogli altrui…e debiti. Ho bisogno di sentirmi utile almeno per qualcuno…o forse per tutti i miei compatrioti”:

Si attaccò al boccale di birra e lo trangugiò di un fiato.

 
 
 

UN PICCOLO RACCONTO - PRIMA PARTE

Post n°159 pubblicato il 01 Maggio 2010 da cineriz

 

 

Era di nuovo mattina, una nuova mattina, non troppo nuova, non troppo diversa da quelle che l’avevano preceduta. La luce del sole si insinuava fra gli spiragli della tenda in stoffa pesante e invadeva la camera lasciando ampie zone d’ombra. Dai vetri chiusi proveniva il brusio della città che da tempo si era già risvegliata. Le ruote dei carretti sull’acciottolato oramai non lo svegliavano più come i primi tempi, quando, dalla periferia silente e contadina, Franz si era trasferito in centro, lasciandosi alle spalle 25 anni di verde e colline, per respirare l’aria mondana e godereccia della capitale. Ora per svegliarlo ci voleva ben altro.

La sera prima aveva fatto tardi con gli amici di sempre alla taverna di Wolfgang: vino, donne e balli. Si sognava così in campagna pensando a Vienna. Vino, Sliwovitz e birra erano la realtà delle sue serate.

Aprì gli occhi lentamente. Il raggio di sole fendeva la stanza per tutto il suo interno. Il pulviscolo attraversandolo pareva creare un microcosmo. Pensava sempre così quando si svegliava col sole. Le particelle di polvere, che incrociavano la luce nel loro eterno vagare, prendevano forma e si rendevano visibili, almeno per un istante. Cominciava a filosofeggiare, con la testa intontita dal sonno e dall’alcool della sera prima, sul come, anche per un momento, una misera esistenza può salire alla ribalta del mondo. Pochi attimi di questi pensieri. Scaglie di ragionamento senza senso, frutto del  torpore del dormiveglia mattutino.

Con la mano cercò sul comodino l’orologio da taschino che segnava pochi minuti alle 8. Si alzò, guardò la sua immagine allo specchio: un uomo giovane, i lineamenti sottili, piacevole…..ma con le occhiaie, segno di una vita troppo dissoluta.

Con la brocca versò l’acqua nella bacinella e si rinfrescò il viso, si sciacquò la bocca e, insaponatosi, cominciò a radersi. Era il momento più bello del risveglio quello. Gli piaceva guardarsi nello specchio e vedere comparire, mano a mano che il sapone veniva portato via dal rasoio,  un viso rilassato, giovane e per niente male.

“Si Franz..sei un bell’uomo, piaci alle donne” diceva fra sé.

Si sciacquò, si vestì e scese in strada. Non c’era tempo da perdere: alle 9 il Herr Simon infilava la chiave nella serratura ed apriva il negozio. Lui doveva seguirlo di un passo. Così fu.

Il campanone della Franziskanerkirch rintoccò le 9 e Simon spingeva la porta di legno e vetro.

“Buongiorno Herr Simon” disse Franz togliendosi il cappello.

“Buongiorno Franz. Viste molte birrerie ieri sera eh? Hai certi occhi..!” Simon, un piccolo uomo dall’aria dimessa, chiuso nella sua giacca scura da sempre, all’ombra del suo piccolo cappello, bonario, arguto, ebreo, vedovo, solo. Solo con la sua gatta Mizzi e i suoi libri che vendeva nella botteghina in Kumpfgasse da 40 anni. Voleva bene a Franz, a quel giovanottone di campagna arrivato a Vienna con tanti sogni e voglia di vivere. Era il figlio che non aveva mai avuto. Forse un po’ poco colto per essere suo figlio, ma meglio così: se fosse stato troppo colto e bravo, al mattino, non gli avrebbe potuto raccontare le sonore sbronze e i sorrisi delle belle di notte che Simon, per religione e pudore, non aveva mai vissuto.

Passavano così le loro giornate: riordinando libri, spolverando, spettegolando sulle giornate viennesi e parlando delle sbronze di Franz e dei suoi amici. A volte parlavano di religione, ma Simon era troppo ebreo e Franz poco cattolico per instaurare un dialogo costruttivo: così finiva sempre con uno sfondone di Franz e una risatina sommessa accompagnata da uno scuotere di testa del vecchio libraio.

I clienti anziani li curava Simon, i più giovani Franz. Si erano equamente distribuiti i compiti e nessuno se ne lamentava. Franz ci sapeva fare, il sorriso radioso, i modi gentili, un po’ scanzonati ma molto cortesi, piacevano a tutti, specialmente alle signore. Soprattutto ad una, la signora Kaufmann. Ogni giorno veniva in libreria e si documentava sulle nuove uscite, sui saggi stranieri, sugli spartiti appena arrivati. E ne acquistava, per rallegrare il suo salotto con il pianoforte che ella stessa suonava.

Era molto giovane e bella, sposata all’avvocato Kaufmann, molto più anziano di lei, uomo di legge integerrimo, ammirato e invidiato. Anche e soprattutto per il suo denaro e per la signora Kaufmann, elegantissima con i suoi deliziosi cappellini che le incorniciavano il viso di bambina. Quando entrava in libreria, portava una ventata di primavera.

Anche Simon pareva ringiovanire quando la salutava. Ma lei era una cliente di Franz e non aveva occhi che per lui. Erano amanti. Simon sapeva e capiva, ma da vecchio saggio ebreo taceva e faceva finta di non vedere. Vedeva i loro occhi accendersi di gioia quando si incrociavano e lei, che appena appoggiava dalla strada la mano alla maniglia, che con lo sguardo aveva ispezionato tutto il negozio alla ricerca del suo amato bene. Stavano ore a cinguettare, come passerotti, di libri, musica e musicisti. Ogni tanto iniziavano a sussurrare, ma Simon non si distraeva dal suo lavoro. Sapeva che la sua presenza li rassicurava e li copriva da maldicenze. Lui era stimato ma voleva troppo bene a Franz per non aiutarlo.

“Hai di nuovo bevuto ieri sera Franz!” sibilò a denti stretti la signora Kaufmann.

“Tesoro cosa devo fare?” Rispose lui.

“Smetterla di bere e di ubriacarti come un postiglione per esempio!” puntualizzò lei con la voce incrinata da un moto di stizza.

“Annerl..lo sai..di sera la solitudine è una brutta malattia..e il pensiero di lui, con te, che divide la tua vita, il tuo letto..”.

 
 
 

LA STELLA IN TRINCEA - SECONDA PARTE

Post n°158 pubblicato il 29 Aprile 2010 da cineriz

Hannes sapeva un po’ di italiano, aveva viaggiato l’Italia per i suoi studi. Si sentiva un po’ Goethe, non odiava gli italiani, non ci riusciva. Pensava fra sé: “Se esco vivo da questa storia li ringrazio! Gli urlo grazie! Se esco vivo….”.

Gunther dalla trincea non  gli staccava gli occhi di dosso. Tremava, sudava.

 Da un momento all’altro si aspettava di udire il secco crac dello sparo, e di vedere il camerata piegarsi, cadere, riempirsi di sangue come tante volte aveva visto. Ma niente. Tutto taceva e Hannes continuava ad avanzare verso il reticolato, allo scoperto. Follia.

“Che fa Antonio?” chiese Giovanni al compagno.

”Zitto Giovanni…zitto…viene avanti..la prende…se la prende e se la berrà con i suoi amici..!”.  Antonio, lacero inzuppato e infreddolito come Gunther e tutti gli altri, stessi occhi, stessa età, nato a Napoli dove il mare e il sole gli avevano da sempre insegnato l’allegria e la voglia di vivere.

.Giovanni, grosso, pacioso, bonario, semplice ma con la stessa arguzia dei ragazzi di 23 anni nel 1916. Un veterano di guerra, non più di sale da ballo o di bordelli. Il  suo accento veneto gli addolciva il vocione da orco rendendoglielo quasi gentile.

”Se lo sa il capitano che fraternizziamo col nemico ci punisce Toni…”.

 “E che ci fa? Ci manda a casa? Se e’ così mi bacio in bocca Cecco Beppe in persona!”.

Il fante italiano guardava l’austriaco con curiosità. Lo osservava nei movimenti, nel lento e cauto incedere, nell’avvicinarsi guardingo. Si sentiva un po’ come al serraglio quando si può vedere un animale esotico da vicino e lo si osserva nei minimi particolari, consci che non è roba del nostro mondo.

Hannes nel frattempo era giunto alla borraccia. Senza abbassare lo sguardo si chinò per raccoglierla…guardando fisso nel buio in direzione della trincea italiana.

”Io esco! “ disse risoluto Antonio balzando sulla scaletta.

 “Fermo Toni! Se si impaurisce ti spara! Stai qua! Abbiamo scherzato anche troppo!” aggiunse Giovanni quasi tremante.

”No Giovanni…vado. Voglio giocarla fino in fondo questa partita. Tu stai qui e tienilo sotto tiro. Se mi fa fuori mandalo diretto con me! Glielo dirò all’inferno che non ha capito niente!”. Detto questo il fante balzò fuori dalla trincea. Non lo sapeva ma stava vivendo le stesse sensazioni di Hannes. Quel senso di assurdo e incredibile che dava fare un gesto così normale nella vita di tutti i giorni: camminare a testa alta.

Hannes vide l’italiano avvicinarsi. Capì  all’istante che stava accadendo qualcosa di unico, insperato, fiabesco.

La borraccia era a due metri. Il nemico, un uomo, un ragazzo come lui, a dieci. Come spinto da un istinto, da un messaggio mentale, Hannes raccolse la fiaschetta e attese l’italiano che guardingo si avvicinava. Si trovarono davanti. Si guardarono in faccia. Nessuno dei due aveva mai visto da vicino il nemico, i suoi occhi accesi, senza paura o odio.

Si abbozzarono un sorriso fra l’imbarazzato ed il bambinesco. Erano confusi, increduli, impacciati. Non sapevano come comportarsi, come una debuttante al suo primo ballo di gala.

Antonio fece cenno ad Hannes  di sedersi su un masso che occhieggiava dal candore della neve e lo imitò. L’austriaco stappò la borraccia e la passò al fante in grigioverde che la prese…ne bevve…gliela porse di nuovo. Bevvero insieme. Lo stesso cuore, lo stesso animo, lo stesso sapore in bocca. Tutto intorno silenzio.

Nelle loro trincee Giovanni e Gunther avevano allentato la tensione. E ora, posato il fucile, guardavano la scena incredibile che si svolgeva dinanzi ai loro occhi: una scena normale, due ragazzi che, sedutisi,  bevono insieme ma in mezzo all’irrealtà umana. Loro erano la cosa più normale del mondo. Era il mondo che li rendeva inconcepibili.

Hannes tirò fuori una sigaretta. La spezzò. Ne offrì mezza ad Antonio…c’era qualcosa di sacro in quella sigaretta…come sacro fu quel pane che un uomo, un ragazzo come loro, prossimo alla morte come forse lo erano loro, spezzò e divise con i suoi amici che lui chiamava fratelli, e con quel pane li unì a Lui indissolubilmente. Accesero. Nessuno sparo. Fumarono in silenzio. Era freddo. Ma nessuno dei due ci faceva caso. C’era il calore di casa, di taverna, di amici in mezzo a quel campo di battaglia. E fra amici si può stare anche in silenzio, quando si sa che le sensazioni sono le stesse.

Un altro sorso di grappa...

”Auguri italiano…io sono Hannes…in italiano e’ come Giovanni…”.

 “Auguri…” rimase sorpreso Antonio nel sentire parlare il nemico la sua lingua. Tutto era irreale. Si stava facendo chiaro. I sogni all’alba devono svanire, devono lasciare posto alla realtà.

”Io sono Antonio…Giovanni…ti chiami come il mio amico che mi aspetta in trincea!” . Fecero a metà della grappa rimasta per portarla ai loro camerati.

”Anche io ho un amico che mi aspetta, si  chiama Gunther…sarà contento di farsi un sorso alla tua salute…ascoltami…non lo trovi strano tutto questo?”

 “Tutto questo cosa?” chiese Antonio.

 “Sì…” riprese Hannes ”io e te…qui a bere.. adesso…”.

 Antonio sospirò profondamente e alzando gli occhi verso il cielo:

”Strano caro austriaco è quello che c’è intorno a noi. Io sento di vivere l’unica cosa normale che sta accadendo al mondo in questo istante, dove ovunque regna l’assurdità.”

 “Hai ragione nemico. Niente di più sensato.” Dicendo questo, Hannes si alzò dal sasso su cui era seduto e porse la mano al fante italiano. Antonio contraccambiò, stringendogliela forte, guardandolo dritto negli occhi.

”Crucco io non ti ammazzo. Se cadi, ti giuro, non sono stato io a spararti. Piuttosto sparo al mio capitano!” .

Hannes sentiva delle punture agli occhi. Non era il freddo, ma bruciavano come se gli ci avessero tirato il sale. Si accorse che erano lacrime. Si accorse che, nonostante tutto, sapeva ancora commuoversi.

”Non ti sparo, Antonio, io non ti sparo! Io non posso spararti….”

Fu istintivo buttarsi le braccia al collo e stringersi, fino a farsi male, con gli occhi pieni di lacrime, consapevoli di vivere un momento unico, incredibile. Consci di essere uomini, di essere rimasti tali. Si regalarono un ultimo sguardo, un ultimo sorriso, e poi via, verso le proprie linee, verso i propri commilitoni, verso la guerra. Di nuovo. Senza voltarsi indietro.

Fu proprio quando erano sul punto di calarsi ognuno nella propria trincea che un boato li fece sobbalzare. Istintivamente si gettarono giù, faccia a terra, come oramai era la regola insindacabile per salvare la pelle. Ma, da lontano, videro che quel colpo non era stato un messaggio di morte. Un artigliere, senza divisa né bandiera, aveva sparato al cielo, senza puntare sul nemico. Il proiettile stava illuminando il campo di battaglia e saliva su, nel cielo, sfogando la sua rabbia e la sua violenza distruttrice verso il nulla, verso l’infinito dove l’uomo non può capire, per poi forse ricadere poco più la come polvere innocua, come pioggia di stelle.

Alzandosi, si lasciava dietro una scia luminosa che tingeva d ‘oro tutta la notte. Era bello guardarla. Sapere che quell’oggetto nato per uccidere non avrebbe mai nuociuto a nessuno…e la sua coda si stagliava nella notte…in quella notte.

“Hannes! E’ la cometa di noi soldati! Non siamo i soli a festeggiare lo vedi?” gridò con quanto fiato aveva in gola Antonio dalla sua trincea. L’austriaco non rispose, ma si sentì di nuovo scendere sulle guance il calore delle sue lacrime commosse, e si accorse che stava stingendo forte al petto la borraccia del suo amico italiano.

La stella si era  spenta. L’alba  spandeva il suo roseo alone in tutto l’orizzonte. Tre soldati della sussistenza correvano curvi e riparati nei camminamenti portando il caffè alle sentinelle che avevano passato la notte al freddo .

Hannes si asciugò le lacrime e sorrise.

Pensò  ai tre Re Magi con i loro doni .

Era veramente l’Epifania. Non mancava davvero niente adesso.

 
 
 

LA STELLA IN TRINCEA -PRIMA PARTE

Post n°155 pubblicato il 25 Aprile 2010 da cineriz

La sciarpa non gli copriva più quasi il viso dai buchi che aveva, ed i guanti erano solo una parvenza di quello che erano stati all’origine quando,in quella mattina del marzo del ’15 , il sergente Kruger gli consegnò il suo equipaggiamento.

”Fallo durare ragazzo…Franz Joseph non ama chi spreca i doni dell’esercito…”.

 Bel dono…I piedi affogati nella neve, la divisa inzuppata, il gelo che  si formava sulle sopraciglia, il dito indice oramai divenuto tutt’uno con l’acciaio gelato del grilletto del suo fucile poggiato per ore sulla spalla, e gli occhi, uno sguardo insinuato fra i sacchi di sabbia ed il reticolato, puntato come quel suo fucile, sul settore assegnatogli.

”Appena un maccarone alza la testa gliela porto via di netto..” sospirò Gunther. Soldato dell’impero Austro Ungarico, figlio di una mamma che, da più di un anno, lo aspettava in un villaggio della Carinzia non troppo lontano dalle sue spalle, non molto diverso da quei villaggi ,là,  intorno alla sua trincea, villaggi pieni di nemici  non troppo diversi da lui.

”Gli stacchi la testa anche stasera Gunther?” sibilò Hannes che, seduto ai suoi piedi, cercava un pò di tabacco in un mozzicone di sigaretta.

”E che c’è stasera di diverso?Si firma l’armistizio?” lo schernì l’amico.

”Magari…è solo che è il 5 gennaio…hai perso il conto? E’ passato il Natale…il Capodanno…e stanotte è l’Epifania…Dovrebbe essere una notte di pace, di speranza…senza morti né teste staccate!”

”Ah”  lo derise il cecchino  ”non fare il sentimentale…!A Natale il pacco di mia madre se lo sono fatto fuori quelli del servizio postale…a Capodanno non solo nessuno mi ha regalato il maialetto di coccio…ma neanche un morso di stinco arrosto mi e’ stato passato…croste di pane e formaggio erano i miei pranzi di festa…E oggi che è l’Epifania che dovrei fare? Regalare oro, incenso e mirra agli Italiani? Io gli spedisco più piombo possibile nelle loro carcasse, più ne ammazzo e prima la guerra finisce e prima torno a casa da mia madre!”.

Mentre diceva così stringeva i denti per sentirsi più cattivo. Ma no, non ci credeva neanche lui a quel che gli usciva dalla bocca. Doveva pensarla così perché era un soldato, oramai un veterano. 23 anni di vita che valevano i 60 di un tranquillo borghese per quante la guerra gliene aveva fatte fare e vedere. Troppo sangue aveva visto colare, troppi amici aveva visto morire. Oramai gli erano più familiari gli occhi spenti che i sorrisi.

Gli pareva regolare quella vita. La sua esistenza civile e pacifica era come un ricordo ancestrale. Sentiva come se quella situazione fosse stata sua da sempre, nato in divisa, con un fucile in mano, a dare e ricevere morte.

Ma quando parlava da soldato, a voce alta, si ascoltava. E non si credeva.

”Va bene soldato” riprese Hannes “spara ai maccaroni, uccidili tutti e chiudiamo in fretta la faccenda. Ma non sprecare colpi: stanotte le luci potrebbero non essere fiammiferi ma la cometa! E se sprechi piombo al cielo il capitano ti punisce!”.

“E che mi fa…?” ghignò Gunther ”mi manda a casa?…Cristo…come sono vicini gli Italiani…a volte quando si placa il vento pare di sentirli sussurrare…a cosa penseranno Hannes? Che cosa si diranno?” .

 Hannes, un po’ più vecchio, viso esile da studente tisico e saccente, una smorfia divenuta amara dai segni della guerra sotto due baffetti rossicci, un elmetto troppo grande per quel viso di bambino slavato…

”Quel che pensi tu, idiota di un soldato del Kaiser…operai, contadini, studenti…tutti disperati, affamati , pieni di freddo, pulci e paura come noi. Parlano una lingua diversa…sono il nemico…ma il sangue marcio sulle divise dei loro morti puzza come il nostro.” 

Gunther sembrava totalmente assorto nella sua mansione di cecchino, ma aveva assorbito ogni sillaba dell’amico, e ora, con gli occhi puntati alla trincea nemica, ripensava a quelle parole. Gli rimbombavano nel cervello, gli martellavano le tempie, gli scuotevano l’anima…

”Maledetta notte Cristiana di bontà e speranza…Proprio tu dovevi arrivare per farmi pensare?”  digrignava nella mente il soldato che per un istante tornava uomo.

 “Che fanno di là?”  chiese Hannes

“Fumano…”

 “Hanno acceso le sigarette?”

“Si..”

“E non gli hai sparato?”

“No..”

”E perché?”

“Perché i tuoi maledetti discorsi disfattisti mi hanno distratto cretino!” mentì risentito Gunther.”

“Che fanno?” insistette Hannes.

 “Canticchiano…parlano..ridono…sembra quasi che festeggino..”

“Cosa dicono?”

 “Vedrai che festeggiano l’Epifania…ma tu, se alzano la testa ,sparagli!”

 “Non lo farei … accidenti a te…mi hai fatto pensare “ sospirò Gunther.Hannes. Si alzò e si avvicinò al camerata. Tenendo la testa ben nascosta, scrutò oltre il reticolato di filo spinato, verso le trincee nemiche:

”Parleranno di madri…di mogli..di figli piccoli..di campi coltivati e balconi fioriti..come noi…” sospirò il soldato con la faccia di studente.

”Prendi il rum,  Hannes ,e brindiamo alla fine di questa pagliacciata putrida di carne marcia”.

 In quel mentre dalle linee italiane venne lanciato qualcosa. Cadde con un suono ovattato sulla neve a pochi metri dalla trincea austriaca.

 “Copriti Hannes! Quei bastardi non festeggiano! Tirano granate!”.

 I due ragazzi si assottigliarono alle pareti di fango della trincea come a fare una cosa sola con la terra, cercando di coprirsi il volto con le mani per pararsi dalle schegge e dai sassi sbalzati dallo scoppio.

Passarono interminabili quei secondi in attesa dell’esplosione ma non ci fu niente.  Dall’altra parte una voce urlò in pessimo tedesco:

”Trink Fritz!Trink bitte!”

“Cosa dicono?” chiese Gunther

“Bere…ma cosa ci hanno tirato?” si chiese Hannes “Stai a vedere che era una borraccia!”

 “Non ci posso credere…”

 “Ti dico di si…e infatti l’ho intravista quando è caduta…era troppo grossa per essere una granata italiana! Vado a prenderla!” cosi dicendo Hannes fece il gesto di saltar fuori dalla trincea.

 “Tu sei pazzo da legare!” urlò Gunther afferrandolo per la cintura  ”Quelli appena alzi la testa ti sparano! E’un maledetto trucco!”.

 Hannes si riebbe dall’euforia dell’imprevisto alle parole dell’amico.

 “Cristo…forse hai ragione…con questi giochetti ne sono morti già troppi…aspetta però…fammi provare!”  Si tolse l’elmetto,  lo infilò sulla canna del moschetto e lentamente lo alzò sopra i sacchi di sabbia. Dall’altra parte si udirono risate e la stessa voce di prima gridò:

”Bum…bum…trink Fritz,trink!”

Hannes ritirò il fucile, si calzò l’elmetto deciso:

”Esco! Vado a prendere la borraccia, ci voglio credere! E’ una notte di pace questa, per tutti!”.

 “Vai pure Hannes…dammi portafoglio, orologio e documenti che li porto a Graz a tua madre alla fine della guerra!” disse Gunther con un ghigno.

”Glieli porto io, bue menagramo della Carinzia!”.

Alzò la testa. Erano mesi che non lo faceva. Hannes guardò l’orizzonte a testa alta, con il collo oltre i sacchi di sabbia. Nessuno lo aveva mai fatto. Almeno di quelli  che ancora erano vivi. Niente. Si issò sulla scaletta. Si inginocchiò sul bordo della trincea. Niente. Si alzò timidamente in piedi, scrollandosi la neve dalle gambe. Niente. A passi lenti, timorosi, si avvicinò al reticolato. Intravedeva la sagoma scura della borraccia sulla neve bianca

 
 
 

A NADIA

Post n°147 pubblicato il 17 Aprile 2010 da cineriz

Minsk 1 novembre 1888

 

Nadia,dolcissimo fiore,fresco bucaneve,timido occhio della primavera nella steppa,è il tuo Sacha che ti scrive.Questa lettera parte dalla mia penna e dal mio cuore nel primo giorno di vero inverno della nostra amata madre Russia.Sai Nadia,oggi a Minsk ha nevicato,non molto,ma già le strade sono spruzzate di bianco,sembra un dolcissimo bonbon coperto di zucchero.Già l’atmosfera si fa ovattata,i suoni si fanno più sordi ,i cerchi ferrati delle carrozze fanno fatica a girare e fra pochi giorni dovranno lasciare il posto alle slitte delle trojke . E sparirà  del tutto l’allegro ciottolare degli zoccoli dei cavalli sul porfido delle vie,ma al suo posto potrò ascoltare il tintinnare dei campanelli sulle fruste dei cocchieri. Nadia,mia Nadia,come siamo distanti…quanta steppa ci divide Nadia?Quanti abeti dovrei contare sulla strada di San Pietroburgo…fra me e te.La steppa,fra un po’ diventerà un enorme tappeto bianco…i miei occhi si perdono sulla pelliccia d’orso ai piedi del camino,mi ricorda la steppa…la morte si impossesserà di lei.

 
 
 

PIANTO SEGRETO

Post n°146 pubblicato il 16 Aprile 2010 da cineriz

Amor perduto,amore mio trovato ed eternamente sfuggito,amore rincorso con affanno fra le strade di un’antica città,amore scomparso agli occhi dietro un angolo,oltre un muro,in fondo ad un viale.Amore cercato nella notte,nel buio più buio,nella solitudine più disperata,scomparso nell’angoscia di un incubo,in un grido strozzato in gola al repentino risveglio,amore scomparso,sparito,ingoiato dalle tenebre…amore urlato al cielo,bramato,amato,baciato,amore odiato e maledetto,amore falsamente rinnegato,taciuto,sofferto,come una vergogna,tu unico male della mia vita,unica causa della mia tristezza,unico motivo delle mie imprecazioni al cielo,unica mia dannazione eterna,unico fuoco nelle notti d’inverno,unica brezza nell’afa estiva,vita della mia vita,cuore del mio cuore,luce dei miei occhi.Amore venerato,amore redarguente,unico mio appiglio,scialuppa di salvataggio dell’anima mia,unica spinta alla pace divina,unica forza capace di farmi  inginocchiare sulle panche di una cattedrale,al misero calore di una candela,all’immensa luce di Dio.Amore misterioso,vigliacco,falso,ti credo debole,flebile come una fiammella in una tempesta,e ti scopro forte,rabbioso,devastante come un’apocalisse.Amore…amore intenso a vero come un abbraccio alla stazione,come una dichiarazione d’amore in punto di morte,come una lacrima sulla bara di un padre,amore sincero come il sorriso di un bimbo,come un soldato che giura di tornare dalla guerra al suo amore…amore forte e carico di speranza come un raggio di sole prorompente e chiaro che si fa largo fra le nubi cupe del cielo,amore dolce e rassicurante come il pallido chiarore della luna che rischiara il cammino di chi viaggia nella notte. Amore,unico mio senso di vita,unico mio scopo di esistenza,mia secolare chimera,terra per le mie radici,strada per i miei piedi,cibo per la mia bocca,amore per il mio cuore…amore unico…unico amore mio.

 
 
 

INVOCAZIONE DI MORTE DI UN CAVALIERE

Post n°145 pubblicato il 14 Aprile 2010 da cineriz

I RICORDI

 

Ricordo la mia infanzia con un gusto dolce d’averti conosciuto,piccola come una bambola.Non conoscevo ancora il sapore dell’amore,ma il piccolo cuore pensava già a te.Piccolo com’ero non conoscevo il mare né le grandi navi che lo potevano solcare.Ma passarono gli anni,e  venne la primavera di giovane brezza spirata.Gli occhi tuoi non erano andati persi nei meandri del tempo.ma il mare e le navi erano gli stessi ed il mio cuore scoppiava per te.La guerra mi rapì da te,dolce amica,e tu vivesti com’ogni donna vive.Mille e mille ostacoli dovetti superare e con tanto sudore da  paggio a cavaliere diventai.

Tante battaglie dovetti vincere,tanti duelli dovetti affrontare. E quando,eroe,riposi l’arme e mi recai da te,trovai la prima sconfitta.Fui il cavaliere che dopo la crociata riprese il mare per tornare dall’amata.Ma un cavaliere nascosto mi aveva battuto,un nemico vile e coperto mi aveva ucciso.E dir che tanti valorosi mi avevano oltraggiato ed erano  caduti sotto la mia spada,ma uno solo,senza armi ne corazza,m’aveva colpito al cuore,e solo ora mi accorsi di non aver con lui ingaggiato alcun  duello.A cosa era servito  spargere tanto sangue  nemico?A cosa era servito vincere tante battaglie?A cosa era servito umiliare lo sconfitto quando il perdente nella guerra dell’amore ero io?Ma da cavaliere qual’io fui riconobbi il gusto amaro della sconfitta che mi impastava la bocca.Sfoderai la fede da sempre celata come un’ignominia,ed abbracciai l’elsa della spada  nel nodo ove si forma la macchina di morte di Nostro Signore e andai da solo sulla spiaggia,guardando il mare,piangendo e pregando come un folle,perché morte mi rapisse.

 

SULLA SPIAGGIA

 

Oh Signore,Signore mio Dio Altissimo!Io che ho sempre combattuto nel tuo eccelso nome,io che ho sventrato il nemico per la Tua grandezza,fa un segno al tuo servo fedele!Scatena la tua ira in questa notte di tempesta,mostrati potente e inarrestabile su questo corpo mio,umile e indifeso!

Onde!Onde nere del burrascoso mare che avanzate minacciose e schiumanti,urlando come fiere affamate!Venite a me,prendetemi!Trascinatemi nei gorghi,che l’acqua mi riempia i polmoni,che soffochi questa bocca in tal maniera ch’io non muoia col suo nome sulle labbra,quel nome tanto ardentemente pronunciato nelle lontane notti di luna,sperse al di là del mare!

Mare!Mare che minaccioso tuoni ma non t’avvicini!Hai forse paura di me?Della mia spada?E se tu non sei degno di far finire la mia gloriosa vita,allora s’infuri il vento su di me!

Vento che sibili a me intorno…vento che ogni tuo vagito sembra il ripetersi di quel nome dettato dal cuore nelle giornate noiose e lunghe della vita…e tanto piacevolmente ascoltato come un lamento antico di un grido innamorato.

Oh tu possente vento…prendi questo misero mio corpo,strappalo alla terra e sollevalo in aria e turbina su di lui fino a schiantarlo sulle rocce che nessun osso resti intero..prendimi!Non avrò l’ardire di sguainar l’arme per difendermi dalla tua potenza invisibile…ma forse mi temi anche tu,quando soffiavi sui campi di battaglia e facevi stormir le foglie sulle teste mozze dei miei nemici..mi hai visto combattere…e ora mi temi!

Fuggi vigliacco fuggi,lontano,passa sull’uomo,felice o disperato,com’è da sempre il tuo destino!

E se né vento né mare posson fare di me un uomo morto,possa il fuoco del fulmine fare di me cenere!

Saetta di questa notte paurosa,che dalle nubi cadi sul mare,tronca il ferro della spada,che impugno facendomi bruciare come una quercia  che a mille temporali ha resistito e un misero acquazzone d’estate può farne legna arsa.Colpisci però poco sotto l’elsa e tronca la mia spada in modo che resti una croce nelle mie mani,come ultimo desiderio di un uomo che con onore ha combattuto tanto da non trovar equo levarsi la vita…ma lo chiedo a Te mio Signore!Fulmina le mie membra ma in pugno lasciami il tuo simbolo…io che per Te ho combattuto,per Te ho lottato,per Te ho ucciso…o forse no?Forse  mi facevo scudo del Tuo nome celando la mia arroganza e la mia sete di potere?Forse invocando la Tua gloria dichiaravo alle genti quant’io fossi forte?Forse io ho ucciso per te?Forse tu me lo hai chiesto come ora io ti chiedo di rapirmi dalla vita?No…io l’ho voluto,ho usato il Tuo nome solo per la mia gloria e la mia fama!Come posso meritare di morire con in mano il simbolo del Tuo martirio?Come posso meritare di morire per Tua mano?Troppi peccati di vanità devo espiare ancora!E tu non puoi lasciarmi morire in gloria,nel Tuo nome.Forse io ho già espiato,perdendo quella donna per cui darei la vita e per cui io forse sono già morto.

Ma  per Te no,sono ancora vegeto .Getterò lontano la lama della mia spada,terrò soltanto l’elsa a mo’ di croce.E questa terra non m’avrà ancora come cenere inattiva,ma mi vedrà come uomo espiante il suo peccato e carico della sua pena. Vagherò nel Tuo nome pentendomi della mia superbia,piangendo sangue,per la donna persa.

Vento,mare,terra e fulmini…abbracciate il mio umile cammino…con voi griderò la grandezza del Signore e la Sua immensa pietà.

 

 
 
 

PICCOLA COLOMBA

Post n°144 pubblicato il 09 Aprile 2010 da cineriz

Stringiti a me piccola colomba

Lascia che le mie mani

Possano toccarti

E sfiorare la tua pelle e la tua anima

 

Fa che la mia primavera

Possa fiorire sulle tua pelle

Che ogni lembo

Si copra di petali

 

Che i tuoi occhi

Si illuminino di gioia

Così voluta e cercata

Di un amore creduto perso

 

Che il tuo sguardo

Mi irradi di luce

Come una stella

In una notte scura

 

Lasciati stupire piccolo fiore

Da un uomo distante

Come una stazione dimenticata

Ma che ama solo amarti.

 

 

 

 
 
 

17 Marzo

Post n°143 pubblicato il 09 Aprile 2010 da cineriz

Era  sole sulle strade

era tintinnio di tazze

era lento il cameriere

erano dolci i tuoi baci sulle mie mani

erano lunghi e pieni di cose i tuoi silenzi.

Le mie labbra sulle tue

le tue mani fra le mie

i tuoi occhi dentro i miei.

Tutto correva lento intorno

e la mia anima stringeva la tua

in un tramonto di marzo.

 

 
 
 

DEDICATO AD UN ANIMA GENTILE

Post n°142 pubblicato il 09 Aprile 2010 da cineriz

Aria...e voce...e sensi...

questo tu sei.

 

L'anima mia rapita

ti cerca nella notte.

 

Non conosco il tuo sguardo

ne' il calore delle tue mani....

 

ma conosco le note

che sai suonare

per far danzare il mio cuore.

 
 
 

UN OLIVO

Post n°141 pubblicato il 09 Aprile 2010 da cineriz

Ricordo un olivo

che viveva una terra

che non era sua.

 

Non conosceva quel sole,

non gustava quell'aria,

non trovava creta per le sue radici.

 

Guardava solo innanzi

ma non scorgeva

i colli di Toscana.

 

L'argentee sue foglie

vibrava a un vento

troppo sconosciuto.

 

Ma cresceva egualmente fiero,

andava incontro alla sua lunga vita,

fatta di mille e mille stagioni.

 

Era l'amore che lo nutriva

e lo rendeva vivo e forte

e col suo calore l'accudiva.

 

Ora volgo lo sguardo

ai colli verdi e viola

della terra mia

 

E olivi di chiome fresche

si staglian sui pendii

dolci e vellutati.

 

Ma lui, l'albero amico mio,

che radica in terra lontana,

lui non lo veggo.

 

E più non sento

la mano innamorata

che lo cresceva.

 
 
 

Il tuo viso

Post n°140 pubblicato il 09 Aprile 2010 da cineriz

Ricordo il tuo viso

e l'ombra del tuo seno sulla parete

il tuo sorriso che faceva luce

e tutto intorno il mondo era viola

ricordo il sospiro innamorato

il gemito di passione

le carezze ardenti

ricordo il tuo profilo armonioso

le mie mani sui tuoi fianchi

e il tuo sguardo che mi trafiggeva

                                     ricordo...vivro' di esso....amandoti,amandolo.    

 
 
 
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