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                  FAUVES

Post n°83 pubblicato il 13 Gennaio 2006 da PUNCTUM_staff
Foto di PUNCTUM_staff

La fotografia psichiatrica nasce intorno alla metà del XIX secolo come strumento di identificazione del malato. La sua immagine va a costituire l’archivio per la documentazione della varietà della follia e delle malattie mentali e serve a documentare l’espressione della follia, della diversità, della criminalità. Il procedimento di identificazione mediante la fotografia segnaletica costruisce l’immagine dell’individuo folle.

L’immagine del pazzo viene elaborata dalla fotografia psichiatrica attraverso discipline quali la fisiognomica, che si sviluppa in Italia con le teorie di Paolo Mantegazza, e l’antropologia criminale di Cesare Lombroso. Queste teorie trovano terreno fertile nella concezione positiva della scienza, che persegue la "riproduzione oggettiva e scientifica della natura."

La tematica della realtà dei manicomi italiani viene affrontata da diversi fotografi italiani, il primo che se ne occupa è Luciano D’Alessandro nel 1965 che collabora con lo psichiatra Sergio Piro nella realizzazione de Gli esclusi, lavoro pubblicato nel 1967. D’Alessandro nel suo lavoro "cerca di cogliere la solitudine del malato mentale, rispetto al suo mondo di provenienza, rispetto agli altri, una solitudine che nasce dalla malattia." Secondo D’Alessandro la solitudine umana è attribuibile alla malattia, Sergio Piro sottolinea invece che quella solitudine ha un altro significato: non è altro che la testimonianza diretta della violenza. D’Alessandro inizia questa esperienza nel 1965, nel pieno del dibattito critico volto a ristrutturare il "sistema clinica" che muove dalle ricerche di Laing e Cooper contro la segregazione manicomiale, fino ad arrivare al movimento di psichiatria democratica con Sergio Piro e alla riforma di Franco Basaglia.

Nel 1968, in pieno clima di riforma, i fotografi Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati sono interpellati da Franco Basaglia per realizzare un reportage sulla condizione dei manicomi italiani. Il tema era già stato affrontato alla fine degli anni ’60 da altri fotografi come Paola Mattioli, Uliano Lucas, Butturini, Giacomelli; ma per quanto riguarda la fotografia di denuncia sociale, il primo ad agire in realtà è appunto Luciano D’Alessandro nel 1965, che pubblica nel 1969 per le edizioni Il Diaframma, Gli esclusi. Tutto nasce quando lo psichiatra Sergio Piro, fautore del movimento di psichiatria democratica, apre le porte dell’ospedale Mater Domini di Nocera Superiore, diretto dal lui stesso. In questo istituto era in corso un processo di "liberalizzazione", cioè l’eliminazione dei mezzi di contenzione, le camicie di forza; con la possibilità per i malati di riunirsi per discutere, dipingere e recitare. Piro apre anche le porte alla fotografia che diventa uno strumento di denuncia e di cambiamento.

Vengono così ribaltate le funzioni della tradizionale fotografia manicomiale che veniva utilizzata come strumento di riconoscimento e controllo del paziente, attraverso il ritratto diagnostico-fisiognomico, denunciando apertamente le condizioni in cui vivevano all’epoca i malati mentali rinchiusi negli ospedali psichiatrici dove questi autori hanno il permesso di entrare e fotografare. Prima di allora non era possibile farlo per non "ledere" la dignità dei malati. E’ grazie a questo lavoro che si arriverà nel 1978 alla promulgazione della Legge Basaglia o Legge 180, che prevedeva l’abolizione degli ospedali psichiatrici e l’istituzione di strutture interne territoriali.

Vengono spalancate le porte sulla dura realtà: si vedono donne e uomini prigionieri, legati e puniti; le immagini ci mostrano il degrado degli ambienti, l’abbrutimento e l’annientamento di questi malati, prodotto più dalla violenza degli Istituti, che dalla malattia in se. Le fotografie infatti sono state fatte per denunciare, per rendere noto a tutti lo stato di arretratezza dei manicomi, le violenze fisiche che vi si perpetrano, lo stato di abbandono in cui sono lasciati vegetare i ricoverati.

Il taglio delle immagini nasce da una precisa metodologia di lavoro. L’autore non riprende se prima non ha discusso con i malati, non ha affrontato i problemi, e quando scatta, privilegia l’ottica del ricoverato. Per questo motivo il fotografo punta l’obiettivo sui particolari, con un avvicinamento insistito per denunciare la situazione individuando in maniera dettagliata i segni della emarginazione e della diversità, come i legacci che tengono costretto il malato al letto, le sbarre, il mazzo di chiavi, le camicie di forza, trascritti con minuzia analitica. La stesura fotografica che  scelgono è sgranata in modo da rendere uniforme le strutture, le pareti, in modo che i malati diventino parte di un arredo. I modelli che vengono tenuti  presente sono da una parte quello della funzione del vuoto, dello spazio, dall’altro quello della figura del malato, non gli interessano tuttavia i personaggi ma la situazione, i gesti e il rapporto con il sistema della istituzione totale ed è per questo che sceglie questo tipo di scrittura. La scelta del linguaggio è apparentemente "realistica": intorno alle figure è lasciato un grande spazio che incombe sul malato,  emerge in tale modo l’assenza di umanità intorno a queste figure ridotte a oggetto. L’iconologia dei manicomi, in quanto istituzioni totali è quella delle carceri o dei campi di concentramento, i volti dei malati sono stati cancellati dalla durata della detenzione, sono volti assenti o corpi chiusi dentro le camicie di forza, senza volto.

 Il problema viene affrontato nei termini dell’analisi di classe. Gli autori decidono di effettuare il reportage senza distinzione d’autore, firmandolo entrambi come lavoro collettivo; il sistema è analizzato nella sua totalità ed egregiamente si accostano al "problema" fornendoci un documento unitario di lettura, e mostrando a chi non ha veduto, cosa significa segregazione.

 "Abbiamo cercato il più possibile di rendere la situazione – racconta lo stesso Berengo Gardin – del malato di mente, piuttosto che puntare sulla espressività che era invece la cosa più facile da fotografare, ma era anche quella che non avrebbe certamente aiutato il malato". E ancora: "ho cercato di fotografare più la situazione del manicomio che il malato in se stesso. Abbiamo sempre cercato di non fare un’ulteriore violenza al malato."

 
 
 
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