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Messaggi del 02/07/2018
Post n°2736 pubblicato il 02 Luglio 2018 da quinoa1977
(Qualcuno volò sul nido del cucùlo) L'istituzione del Santa Maria della Pietà ha origini antiche risalenti al XVI secolo. Fu fondato nel 1548 per volontà e opera del sacerdote sivigliano Ferrante Ruiz e dei due laici Angelo Bruno e il figlio Diego. Dal 1907 la sua amministrazione fu affidata completamente alla Provincia. Nel 1909 per iniziativa del senatore Alberto Cencelli sulla collina di Monte Mario (località S. Onofrio) cominciarono i lavori per il nuovo ospedale psichiatrico progettato da Edgardo Negri e Eugenio Chiesa e denominato Manicomio Provinciale di Santa Maria della Pietà che cominciò a funzionare il 28 luglio 1913 e fu inaugurato ufficialmente da Vittorio Emanuele III il 31 maggio 1914.[1] Il complesso concepito con lo spirito del manicomio-villaggio si estendeva su circa centotrenta ettari e comprendeva quarantuno edifici ospedalieri, di cui ventiquattro erano padiglioni di degenza. Gli edifici, immersi in un grande parco di piante a fusto alto e collegati l'un l'altro da una rete stradale di circa sette chilometri complessivi[1] costituivano così il più grande Ospedale Psichiatrico d'Europa con una capacità di più di mille posti letto.
Il Santa Maria della Pietà si presentava diviso in due sezioni rigidamente separate: l'area maschile e quella femminile che rimarranno ben differenziate nella gestione fino agli anni '70. Era una piccola città dove i servizi interni erano garantiti dalla presenza di un impianto termico centralizzato, la cucina, la dispensa, lavanderia e in seguito anche una piccola sala operatoria. Vi erano inoltre la fagotteria (dove venivano depositati gli effetti personali dei ricoverati), la chiesa, l'alloggio delle suore, i laboratori dei fabbri e dei falegnami. All'epoca la legge prevedeva il ricovero delle persone sulla base di un certificato attestante uno stato di pericolosità per sé o per gli altri o per atteggiamenti di pubblico scandalo[3] e ben presto si giunse ad un sovraffollamento con oltre duemila ricoveri. Nei casi incerti si decideva la dimissione o l'internamento dopo un periodo di osservazione. Ogni padiglione era una realtà a se stante: la ripartizione dei malati non veniva fatta in base alle patologie psichiatriche dei malati stessi, ma esclusivamente in merito al comportamento che questi manifestavano. Il team di infermieri, la suora caporeparto e il medico di ogni padiglione si trovavano così a gestire un insieme disomogeneo di degenti altamente diversi per gravità della patologia, terapia ed età. Comuni erano invece l'inattività, l'abbandono e regressione dei pazienti che sviluppavano di conseguenza un carattere aggressivo. Tra i diversi padiglioni si ricordano: il XVIII dei criminali con mura di cinta di quattro metri; il XIV degli agitati; il XXII dei cronici, il XII dei pericolosi per tentativi di fuga e di suicidio; il VIII e XC dei bambini; il XXX delle lavoratrici e padiglioni specifici per pazienti con TBC, come il XVI. Il padiglione più grande, il XXII, detto il Bisonte, ospitava più di trecentoventi pazienti tra epilettici, dementi senili e schizofrenici. “Non mettermi accanto a chi si lamenta senza mai alzare lo sguardo, a chi non sa dire grazie, a chi non sa accorgersi più di un tramonto. Chiudo gli occhi, mi scosto un passo. Sono altro. Sono altrove.” Alda Merini
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il 13/04/2020 alle 11:18
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il 21/12/2017 alle 21:24