Creato da fotografo_nudo il 12/05/2006
Fotografie, testimonianze umane e storiche dal passato e dal presente...

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Giovanni Falcone contro la mafia

Post n°25 pubblicato il 23 Maggio 2006 da fotografo_nudo
Foto di fotografo_nudo

Fu Buscetta a dirglielo: "L'avverto, signor giudice. Dopo quest'interrogatorio lei diventerà forse una celebrità, ma la sua vita sarà segnata. Cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. E' sempre del parere di interrogarmi?".

Giovanni Falcone, "Cose di Cosa Nostra" (Rizzoli, 1991): "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande".

 
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La strage di Capaci - 23 maggio 1992

Post n°24 pubblicato il 23 Maggio 2006 da fotografo_nudo
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La Croma marrone è davanti. Guida Vito Schifani, accanto c'è Antonio, dietro Rocco Di Cillo. E corre, la Croma marrone corre seguita da altre due Croma, quella bianca e quella azzurra. Sulla prima c'è il giudice che guida, accanto c'è Francesca Morvillo, sua moglie, anche lei magistrato. Dietro l'autista giudiziario, Giuseppe Costanza, dal 1984 con Falcone, che era solito guidare soltanto quando viaggiava insieme alla moglie. E altri tre sulla Croma azzurra, Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Un minuto, due minuti, la campagna siciliana, l'autostrada, l'aeroporto che si allontana, quattro minuti, cinque minuti.
Ore 17,59, autostrada Trapani-Palermo. Investita dall'esplosione la Croma marrone non c'è più. La Croma bianca è seriamente danneggiata, si salverà Giuseppe Costanza che sedeva sui sedili posteriori. La terza, quella azzurra, è un ammasso di ferri vecchi, ma dentro i tre agenti sono vivi, feriti ma vivi. Feriti come altri venti uomini e donne che erano dentro le auto che passavano in quel momento fra lo svincolo di Capaci e Isola delle Femmine.

 
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La strage di Capaci - 23 maggio 1992

Post n°23 pubblicato il 23 Maggio 2006 da fotografo_nudo
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Sono le 17,48 quando su una pista dell'aeroporto di Punta Raisi atterra un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti partito dall'aeroporto romano di Ciampino alle ore 16,40. Sopra c'è Giovanni Falcone con sua moglie Francesca. E sulla pista ci sono tre auto che lo aspettano. Una Croma marrone, una Croma bianca, una Croma azzurra. E' la sua scorta, erano stati raggruppati dal capo della mobile Arnaldo La Barbera.
Una squadra affiatatissima che aveva il compito di sorvegliare Falcone dopo il fallito attentato del 1989 davanti la villa del magistrato sul litorale dell'Addaura. La solita scorta con Antonio, Antonio Montinaro, agente scelto della squadra mobile che, appena vede il "suo" giudice scendere dalla scaletta, infila la mano destra sotto il giubbotto per controllare la pistola.
Tutto è a posto, non c'è bisogno di sirene, alle 17,50 il corteo blindato che trasporta il direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e giustizia è sull'autostrada che va verso Palermo.
Tutto sembra tranquillo, ma così non è. Qualcuno sa che Falcone è appena sbarcato in Sicilia, qualcuno lo segue, qualcuno sa che dopo otto minuti la sua Croma passerà sopra quel pezzo di autostrada vicino alle cementerie.

 
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La bufala.

Post n°22 pubblicato il 18 Maggio 2006 da fotografo_nudo

AGGREDITO A BERLINO - Il giudice lo smaschera: 'Un'invenzione' 

Il gelataio sardo, che la scorsa settimana ha denunciato un'aggressione con mazze da baseball da parte di un gruppo di naziskin, ha detto una bugia Berlino, 17 maggio 2006 - Ha probabilmente mentito l'italiano che ha raccontato di essere stato aggredito sabato scorso con una mazza da baseball a Berlino da un gruppo di naziskin.

Ne è convinto il magistrato, secondo cui il gelataio sardo trentenne, trasferitosi in Germania, si è procurato le ferite al ginocchio e alla testa cadendo in stato di ubriachezza dalla pensilina della stazione. «Stando agli elementi raccolti finora, la presunta vittima è caduta sui binari perchè in stato di ubriachezza ed è rimasto ferito», si legge in una nota del magistrato inquirente. Adesso è il presunto aggredito a essere indagato.

A fare emergere i primi dubbi sulla versione fornita è stato il fatto che nessun testimone si è fatto avanti per una vicenda cui televisioni e giornali italiani e tedeschi hanno dato molto risalto, soprattutto per i timori di una mobilitazione xenofoba in vista dei mondiali di calcio. Inoltre una telecamera a circuito chiuso ha mostrato l'italiano mentre cadeva sui binari e poi l'arrivo dei soccorsi.

«Quando gli è stata presentata questa prova, l'italiano ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere», ha precisato la nota.

 
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Giochiamo alla strage...

Post n°21 pubblicato il 15 Maggio 2006 da fotografo_nudo
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Tratto da "La Repubblica"

"Super Columbine Massacre": la strage diventa videogame.

Polemiche negli Usa per il gioco scaricabile da internet che si ispira alla tragedia del 1999 che costò la vita a 15 ragazzi in una scuola del Colorado

ROMA - A volte il cinema da un volto ad eroi virtuali, come Lara Croft o Super Mario Bros. Altre volte sono i protagonisti dei film a diventare personaggi di pixel mossi da un joystick, come è stato per King Kong o per le "Casalinghe Disperate". Recentemente piace sempre di più giocare alla vita vera, ai sentimenti, all'attualità. Ma mai nessuno aveva osato tanto come i creatori di "Super Columbine Massacre RPG". Nel videogioco (scaricabile gratuitamente da internet) i protagonisti sono Dylan Klebold e Eric Harris, i due adolescenti che nel 1999 uccisero quindici persone e ne ferirono altre venti sparando all'impazzata all'interno della Columbine High School di Littleton in Colorado. Successivamente si tolsero la vita.

Uno dei più sconvolgenti fatti di cronaca internazionale diventa un videogioco e negli Stati Uniti scoppia un'accesissima polemica. Un'offesa alla nazione per alcuni, un ottimo esempio di interazione per altri.

Fra le molte voci che si sono unite al dibattito spicca quella di Richard Castaldo, da sette anni paralizzato su una sedia a rotelle in seguito alle ferite riportate nella sparatoria della Columbine. Richard ha scaricato il gioco e l'ha voluto provare vestendo i panni di Dylan e Eric: "Ho voluto provare perché mi ha stupito sapere che qualcuno volesse realizzare un videogioco del genere. Le reazioni sono state forti, molti ne sono stati addirittura disgustati, credo però che se ben realizzato il progetto potrebbe funzionare. Il gioco non banalizza gli eventi, anzi deve essere interpretato come una forma d'arte. Ci sono però alcuni aspetti controversi: si è tornato a parlare di Columbine ma il forte contrasto fra fantasia e vita reale ha rischiato di dare un'immagine glamour dell'accaduto. Alcuni studenti si identificano con i killer, li mitizzano come degli eroi popolari e potrebbero rischiare l'emulazione. Dovrebbero ricordare che chi spara su un innocente disarmato non è un eroe."

Ma cos'è che non va nei giovani americani? Cosa spinge dei ragazzi a creare un gioco basato su una strage? Lo abbiamo chiesto a Richard, che ha cercato di spiegare come sono in realtà gli studenti della Columbine: "Come avviene spesso nelle scuole superiori americane anche a Columbine esistono le vittime del bullismo, ragazzi che vengono presi in giro dai più forti solo perché diversi dalla massa. Credo che Dylan e Eric fossero stati oggetto dello scherno dei bulli della scuola. Io non li conoscevo, non ci avevo mai parlato. Credo che come loro sono tanti i giovani americani che vivono una situazione di disagio, una sensazione di rifiuto da parte dei coetanei. C'è quello che si rassegna e accetta di essere preso in giro tutta la vita e chi si rifugia nella violenza. Estrema come quella di Dylan e Eric, o virtuale come quella dei tanti che si sono divertiti a realizzare e a giocare a "Super Columbine". Accettano di fare i killer e immagino che siano anche affascinati dalle loro storie, dai loro corpi insanguinati."

Sulla strage di Columbine si sono interrogati in molti e fu proprio l'apparente mancanza di un movente dichiarato a spingere alcuni registi nella ricostruzione dei fatti. Ci ha provato prima Michel Moore nel 2002 con "'Bowling for Columbine", condannando la legge americana che permette a chiunque di acquistare armi, poi nel 2003 è stato il turno di Gus Van Sant che con "Elephant" ha cercato di mostrare come una quotidianità banale, fatta di violenza e videogiochi, possa portare alla follia. Del 2003 anche "Zero Day" di Ben Coccio, film inedito in Italia che, sotto forma di fake home movie, mostra la preparazione della strage.

Anche i creatori di "Super Columbine Massacre" hanno voluto dare la loro interpretazione dei fatti e, nascondendo le loro identità, hanno lanciano una sfida dal forum del sito: "L'intento del gioco è quello di mostrare la sparatoria da una prospettiva interiorizzata. Colpiti? Confusi? Incuriositi? Annoiati? Parlatene qui". Gli argomenti del forum hanno titoli spesso offensivi e sono tre le tendenze dei giovani commentatori: quelli che mandano all'inferno gli ideatori, quelli che si divertono e quelli che cercano di capire le interazioni fra virtuale e cronaca.

Nel primo gruppo, il più cospicuo, le accuse sono pesanti: il gioco creerà altre stragi, i giocatori non rispettano il dolore delle famiglie delle vittime, ci si diverte con la morte. Gli estimatori sono pochi, per loro vale più l'aspetto formale che quello morale, un videogioco deve essere valutato per la sua funzione e "Super Columbine" non ha niente di diverso dai tanti che mostrano vittime di guerre sanguinose. Nel terzo gruppo ci si interroga sulle reali cause del disagio generato dal gioco: perché "Elephant" non disturba come Super Massacre? Ci indigna di più chi ci gioca o chi lo ha creato?

I giovani americani vivono il cortocircuito che si è creato fra cinema e videogioco sulla vicenda della Columbine in forma sintomanica, alla cronaca preferiscono il feticismo del reale. Non tutti hanno provato a giocare a "Super Columbine", molti frenati da una grafica, a bassa risoluzione, che se da un lato adotta uno stile primitivo, mostrando i due killer come protagonisti di un cartone animato, dall'altro inserisce scioccanti immagini di repertorio dei telegiornali del 20 aprile 1999. Sarà il virtuale più freddo del reale?

(11 maggio 2006)

 
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Skin Heads.

Post n°20 pubblicato il 15 Maggio 2006 da fotografo_nudo
Foto di fotografo_nudo

Gli Skinheads sono la componente, tra le più violente, dell'estremismo di destra. Le loro origini più lontane affondano nella sottocultura periferica degli anni Cinquanta, nell'East End londinese, dove i "teddy boys", cioè i sottoproletari dei quartieri poveri, si caratterizzano fin dagli inizi per uno stile di vita contrapposto a quello della "beat generation": amano il rock and roll di Elvis Presley, sono aggressivi, vestono un'uniforme che li rende immediatamente riconoscibili.

Periferici e marginali, maturano una forte avversione per lo straniero. Xenofobi e razzisti, si dedicano alla violenza di strada. Ma è da una costola dura della tribù sottoproletaria dei "mods", che raccoglie negli anni Sessanta l'eredità dei "ted", che nel 1969 nascono gli Skinheads.

La musica e il look sono i loro tratti distintivi. Teste rasate, giubbotti gonfiati, stivali militari, gli "anfibi", jeans con bretelle, tatuaggi, l'amore per il calcio. Questi i segni distintivi delle "bande", chiamate"ciurme". Sciovinisti, maschilisti, nazionalisti bianchi e xenoofobi, fanno della difesa e purificazione del territorio, dalla curva dello stadio allo Stato, la loro missione. Gli Skinhead a larga maggioranza simpatizzano per l'estrema destra. Gli Skinhead più politicamente orientati sono i naziskin. Vittime delle loro scorribande: gli stranieri, ma anche bambini e portatori di handicap.

 
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La macchia umana.

Post n°19 pubblicato il 15 Maggio 2006 da fotografo_nudo
Foto di fotografo_nudo

Tratto da "La Repubblica"

BERLINO - Un italiano ultima vittima della follia xenofoba a Berlino. Un gruppo di neonazisti ha aggredito con una mazza da baseball un gelataio sardo di trent'anni. Scheisse Auslaender, stranieri di merda gli gridavano gli aggressori; lo hanno mandato all'ospedale con la testa sanguinante e il ginocchio fratturato. La Polizia cerca tre naziskin, vestiti di nero e con il cranio rasato.

L'episodio, ultimo di una lunga serie di brutali attacchi ai danni di immigrati stranieri, preoccupa le autorità per l'imminente arrivo di tre milioni di tifosi richiamati in Germania dai mondiali di calcio. La Polizia annuncia pugno duro nei confronti dei gruppi di estrema destra.

Gianni Congia abita in Germania da dieci anni; a Berlino è arrivato nel 2003. Lo hanno assalito all'una di notte nel quartiere alternativo di Prenzlauer Berg, la piazza dei giovani. Hanno usato una mazza da baseball e poi son fuggiti. In ospedale, Congia è stato operato al ginocchio. Un funzionario del consolato italiano gli ha fatto visita: dice che non è grave ma per un mese, il povero gelataio non potrà camminare.

"Faremo tutto il possibile per individuare i responsabili del pestaggio", ha detto Erhart Koerting ministro dell'Interno Spd di Berlino. "Vogliamo che gli aggressori ricevano una condanna esemplare. E' un episodio intollerabile che copre di vergogna la capitale".

Sempre nella notte tra sabato e domenica, un tunisino è stato aggredito con le stesse modalità da due naziskin a Eisenach, la città natale di Bach, nel Land orientale della Turingia. A Pasqua c'era stata una gravissima aggressione xenofoba a Potsdam, alle porte di Berlino: un ingegnere con passaporto tedesco di origine etiope era stato picchiato selvaggiamente da un gruppo di naziskin ed era rimasto in coma per 13 giorni.

L'aggressione al gelataio italiano preoccupa in modo particolare le autorità per l'imminenza dei mondiali di calcio. Le organizzazioni neonaziste e razziste hanno annunciato raduni e manifestazioni in varie città con l'obiettivo di cercare visibilità su un palcoscenico internazionale. Le autorità tedesche hanno garantito il pugno duro nei confronti dei gruppi di estrema destra: già vietati i cortei con svastiche e teste rasate lungo le strade delle città sedi delle partite mondiali.

(14 maggio 2006)

 
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Ricordare e dimenticare.

Post n°18 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo

Intervista a Remo Bodei.

Dinanzi a mutamenti improvvisi di regime politico, milioni di uomini sembrano, non solo dimenticare un parte consistente della loro storia, ma trasformarla. Perché accade tutto ciò? Per semplice opportunismo oppure perché la memoria è intrinsecamente fragile e i ricordi sono esposti alla mutilazione e alla cancellazione? Se gettiamo uno sguardo sul passato, vedremo, non senza un sentimento di malinconia, come l'oblio sembri dovunque vittorioso. Il passato è pieno di rovine, non solo di edifici e di città, ma anche di ideologie e di religioni ripudiate, di lingue morte, di esistenze, che di sé non hanno lasciato alcuna traccia, o soltanto segni sbiaditi e indecifrabili. L'oblio del proprio passato modifica l'identità di un individuo o di un popolo, in quanto essa è plasmata non solo dal patrimonio di memorie ereditato, ma anche da quanto si dimentica o si è obbligati a dimenticare. Per comprendere il problema iniziale, bisognerebbe capovolgere la domanda, ossia non domandarsi tanto perché, a livello collettivo, si dimentica, ma perché si ricorda. Si vedrà allora che la memoria pubblica di una nazione è incessantemente promossa da forme di ricordare in comune, da commemorazioni appunto: festività civili e religiose, stesura di libri di testo di storia, diffusione della lingua. Quando un regime cade o per qualsiasi ragione anche fisica, come nel caso di un terremoto o di una invasione straniera, i vecchi criteri con cui si selezionavano le cose da ricordare e da dimenticare, non valgono più. Si scopre allora che la memoria è un campo di battaglia, in cui si lotta per la conquista del passato. Con una specie di oblio verticale, i cristiani costruiscono così le loro chiese, proprio sopra i templi pagani, o coloro, che sono stati considerati traditori, vengono in seguito riabilitati. Il fatto è che memoria e oblio sono inscindibili nel loro avvinghiarsi e che noi abbiamo, in diversa misura, bisogno di entrambi per vivere, in quanto siamo degli emigranti nel tempo, che si servono del ricordo del passato, per andare verso il futuro ignoto, così come gli emigranti, per rendere meno duro l'impatto in terra sconosciuta, chiamavano le nuove città con il nome di quelle vecchie. Sapevano che non erano le stesse, ma in tal modo il transito verso il nuovo era più semplice.

Ho cercato su Internet un po' di cose riguardo alla memoria collettiva e ho trovato un sito che si propone di cercare di ricordare alcuni avvenimenti riguardo Auschwitz e le Fosse Ardeatine. Su Auschwitz, parte parlando del testo di Primo levi Se questo è un uomo, scrive: "Sorgono allora delle domande: perché dobbiamo ricordare e che cosa dobbiamo ricordare? Bisogna ricordare il male nelle sue estreme efferatezze e conoscerlo bene, anche quando si presenta in forme apparentemente innocue. Quando si pensa che uno straniero o uno diverso da noi è un nemico, si pogono le premesse di un catena, al cui termine - scrive Levi - c'è il lager, il campo di sterminio". Poi, dopo, questo sito espone vari percorsi, partendo da delle immagini, ad esempio questa: vi è l'introduzione del testo, del testo di Primo Levi. Andando indietro, ad esempio, qua parla se è giusto che, prima di morire, questa gente abbia cercato di combattere fino in fondo, abbia dato tutto addirittura. Prima di morire queste madri hanno dato da mangiare ai loro bambini, anche se ovviamente questo era inutile, in quanto dopo sarebbero stati uccisi. E io mi chiedevo se questi, questi mezzi di comunicazione possono servire veramente a far riscoprire e a far ricordare delle grandi tragedie come quella di Auschwitz oppure se bisogna ancora utilizzare i vecchi metodi come i libri e la storia, se questi modi moderni coi computer possono essere utili o no.

Io credo che tutte le strade sono buone. Il computer ha questo vantaggio, che ci fa accedere a intere biblioteche e non pesa niente. Non c'è il problema dei vostri zaini pesanti. Il punto che lei ricorda, cioè quello di Auschwitz, oggi è discusso, nel senso che si cerca un contrappeso. C'è stato l'orrore nazista dei campi e ci sono stati i gulag sovietici, oppure in Italia ci sono state le Fosse Ardeatine. Ora questo modo di fare barca pari a me non piace, non perché questi eventi non siano successi, ma perché la somma degli orrori non è che ci concilia, dicendo che tutto è male. Noi dobbiamo ricordare con pari dignità tutti gli orrori e tutte le vittime di questo secolo, però nello stesso tempo dobbiamo tenere divise le nostre memorie. Non c'è niente di male nelle memorie divise: cioè, l'abbracciarsi di un popolo, perché questo popolo ha sofferto come il popolo italiano, e ha sofferto da diverse parti storiche, può essere una specie di consolazione. Ma non si capisce la storia se si equiparano fenomeni completamente diversi. Ripeto: resta l'orrore e deve restare presente al nostro animo quello che Primo Levi ha detto, a proposito dei campi di concentramento, che c'è una zona grigia, cioè che c'è una parte del nostro animo o degli atteggiamenti collettivi che cerca di sfuggire alle responsabilità, di tenere basso il profilo. Così durante le guerre civili o durante i momenti in cui è necessario prendere posizione, c'è gente che, come dire, fa al pari degli struzzi, mette la testa per terra e dimentica. Bisognerebbe tirar fuori la testa dalla sabbia e guardare bene cosa succede.

Secondo Lei non c'è il rischio che la memoria storica finisca per costruire dei miti che in realtà non esistono?

La memoria storica contiene in sé la possibilità dei miti, ma contiene in sé anche l'antidoto, cioè, in fondo la storia è nata proprio contro le deformazioni della memoria. E' il concetto stesso di verità in greco, visto che siete in un liceo classico, alteseia - Lete è il fiume delle dimenticanza -, la memoria è il non dimenticare. La verità in Grecia coincideva inizialmente col non dimenticare quello che è successo. Erodoto scrive appunto la sua Storia per dire che vuol ricordare le gesta tanto dei Greci quanto dei Barbari. Soltanto che la storia, come potete vedere da quella stampa che rappresenta il Foro Romano, la nostra storia è piena di rovine. Sono più le lingue morte, le fedi ripudiate, le religioni e le forme politiche dimenticate di quanto non siano le lingue vive e le forme politiche e religiose esistenti. Quindi il mito è la possibilità, di tipo strumentale, che un certo gruppo si attribuisce per legittimarsi. Cioè io, ad esempio, se mi dichiaro discendente di un certo popolo, che è stato glorioso ai suoi tempi, posso crearmi un'identità. Ecco un esempio, fra i tanti, di miti: la processione che si fa, in occasione dell' incoronazione della regina, a Westminster, che uno pensa sia del Medioevo, in realtà è soltanto dell'Ottocento. Lo storico ha appunto il compito di distinguere quella che è la verità, nei limiti in cui è accertabile, da quelli che sono i miti, che possono essere miti molto pericolosi, come il mito, ad esempio, della razza ariana, che nobilitava tutti i tedeschi, faceva dimenticare i conflitti all'interno della nazione tedesca e poneva le basi per uno sterminio.

Professore, nonostante per noi ricordare sia soprattutto ricordare delle tragedie, secondo Lei la nostra cultura, al giorno d'oggi, invidia qualcosa al passato?

La nostra cultura invidia, come tutte le culture, qualcosa al passato, perché il presente senza il passato e senza la prospettiva del futuro sarebbe una ben misera cosa, diciamo uno strato molto sottile. Noi non dobbiamo confondere l'idea del presente con l'attimo fuggente. Il presente in fondo è una dimensione da cui non ci spostiamo mai. Mentre io parlo sono sempre nel presente come lo ero prima e mi ricordo di ciò che ho detto, probabilmente, e lo sarò anche dopo come anticipazione. Quindi in realtà il nostro presente è tridimensionale: cioè è il presente del presente, il presente del passato, in quanto ricordo, e il presente del futuro, in quanto attesa. Quindi ogni civiltà, diciamo, non considerando il presente come attimo fuggente, ma come il nostro orizzonte, vive dentro un passato, ma vive anche dentro le aspettazioni del futuro. Cioè noi non possiamo ridurre il presente alla piattezza bidimensionale, cioè il presente che ha bisogno di un passato. C'è, per così dire, un passato irredento, che è come una molla compressa. Il futuro che, appunto, è paradossalmente contenuto nel passato, nel senso che il passato ci spinge per realizzare qualche cosa. E' proprio come una molla compressa. Il futuro sta nel passato come la molla, quando ci teniamo le mani sopra, e, se noi la lascialmo andare, questi desideri del passato si proiettano verso il futuro. Detto in termini più semplici, noi non dobbiamo mai appiattire il tempo a una sola dimensione. La pienezza della nostra vita, la gioia anche, non soltanto la tragedia del passato, consiste nel rendere il passato fruttuoso per il nostro presente e nel considerarlo come "il sogno di una cosa", avrebbe detto Marx, come l'aspettativa racchiusa nel passato, che ci apre le porte verso il futuro. Noi dobbiamo, cioè, vivere il passato non come semplicemente un magazzino in cui i nostri ricordi stanno nel tempo. Noi passiamo continuamente dalla dimensione di ciò che è stato a quella di ciò che sarà. Abbiamo bisogno nello stesso tempo di memoria e di oblio, perché dobbiamo ricordare il passato, se no non avremo identità, e dimenticarlo, se no non avremo apertura al nuovo.

LEGGI L'INTERVISTA INTEGRALE

 
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Gli eroi di New York.

Post n°17 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo
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La sindrome dell'11 settembre è un'ombra lunga che cala sul Fire Department di New York e i pompieri, un anno dopo, assomigliano sempre più a veterani di guerra segnati per sempre. Mentre l'America e il mondo celebrano il loro sacrificio, i vigili del fuoco guardano le analisi mediche sui loro polmoni e rabbrividiscono. Almeno 500 degli 11.500 pompieri di New York rischiano di dover anticipare il pensionamento per seri problemi respiratori, provocati dalla polvere tossica e dai gas respirati l'11 settembre e nei giorni successivi di lavoro tra le macerie dell'ex World Trade Center. Negli alveoli polmonari degli eroi, ammettono ora i medici del Fire Department, si nascondono nemici insidiosi e microscopici, fibre velenose e detriti irritanti che possono provocare malattie polmonari e tumori.

 
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Cosa resta dell' uomo...

Post n°16 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo
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A Chinatown i vecchi non hanno abbandonato le interminabili
partite a dama cinese sui tavolini di Columbus Park.
Nella vicina Little Italy, invece, gli operai hanno interrotto la
costruzione degli stand per l'annuale sfilata di San Gennaro:
doveva essere domani, ma nessuno ha voglia di festeggiare. I
padri francescani del convento di Mulberry street hanno tolto i
festoni e si sono ritirati a pregare. I ristoranti del distretto
italiano sono tutti chiusi, eccetto il 'Napoli', dove una decina di
clienti si godono gli spaghetti all'aperto, sotto gli sguardi
perplessi e pieni di rimprovero dei passanti.

Soho e il Greenwich Village sono spettrali, con i locali chiusi
e le ambulanze dovunque. Il ponte di Brooklyn e' rimasto aperto
solo per i pedoni e centinaia di persone si recano dall'altra
parte del fiume, per guardare in silenzio, attoniti, lo
spettacolo della sconfitta di New York.

 
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Macerie.

Post n°15 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo
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A City Hall, il municipio a pochi passi dalle torri gemelle la
polizia blocca tutti, giornalisti compresi. Per decine di isolati,
l'area e' coperta da un denso strato di polvere. I giardini intorno
a City Hall appaiono come in una cartolina natalizia, con le
piante imbiancate da una 'neve' sporca. Anche i celebri
scoiattoli del parco del sindaco Rudolph Giuliani si aggirano
impauriti e polverosi.
Il vento rende l'aria irrespirabile, sollevando nuvole di polvere e
costringendo poliziotti stanchi e vigili del fuoco esausti ad
indossare perennemente le mascherine.
I marciapiedi e le strade di tutto il distretto finanziario sono
costellate di fogli: atti giuridici, contratti, proiezioni di mercato.
Dalle migliaia di uffici del World Trade Center sono piovute su
New York le reliquie di una giornata di lavoro che non ha avuto
il tempo di cominciare. 'Travel destination' recita un foglio
stampato dal sito internet di Yahoo: vi si descrivono le
meraviglie dell'India, una destinazione che forse lo
sconosciuto che ha raccolto i dati non vedra' mai.

 
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Macerie.

Post n°14 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo
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(ANSA) - NEW YORK, 11 SET - Dopo le grida, la paura la
fuga, il silenzio domina ora una Manhattan sconfitta e surreale.
La citta' 'che non dorme mai' e' diventata per meta' un'enorme
area pedonale, per l'altra meta' un ingorgo inestricabile di auto.
A sud della 23/a strada, scendendo verso la ferita fumante
rimasta dove fino a stamani sorgevano le torri gemelle, gli unici
veicoli in circolazione sono quelli dei soccorsi e della
polizia.

Centinaia di migliaia di persone camminano, con lo sguardo
rivolto al cielo, in strade che mai, nella storia di New York,
erano rimaste senza i tradizionali taxi gialli e il consueto
traffico privato. In una splendida giornata di sole, la nube
grigio-biancha che si leva dal World Trade Center crea uno
strano effetto di luce sulla citta', come quello di una eclisse.
L'area a sud della 23/a strada, l'intera Lower Manhattan e'
suddivisa da posti di blocco successivi: pochi sono autorizzati
a scendere oltre Houston street, pochissimi ad andare piu' a
sud di Canal street.

 
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"Non ci sono più, non ci sono più..."

Post n°13 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo
Foto di fotografo_nudo

La gente si e' messa in coda ai telefoni a moneta per
avvertire i parenti, mentre i cellulari erano ko. Un esercito
spettrale di sopravvissuti si e' avviato a piedi verso la parte
nord della citta', mentre Wall Street si e' arresa al disastro.
Le grandi banche d'affari hanno cominciato la ricerca dei
loro impiegati: centinaia di uffici finanziari e governativi
erano ospitati nelle Torri Gemelle. La sola Morgan Stanley
possedeva 50 piani.
''Non ci sono piu', non ci sono piu'...'': ripete ora un uomo
fermo di fronte alle macerie fumanti delle Torri Gemelle. Con i
due simboli di New York e con le sue vittime, se n'e' andata
anche la voglia di vivere di una citta' che stava attraversando
una delle sue fasi storiche piu' straordinarie

 
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Storia umana.

Post n°12 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo
Foto di fotografo_nudo

Ma alle 8:45 e' cominciato l'impensabile. ''Ero con il mio
capo al 103/mo piano, ci siamo girati e abbiamo visto arrivare
l'aereo'', racconta un uomo fuggito in tempo, ancora senza fiato
per la corsa lungo 100 piani di scale. E' iniziata una delle
piu' vaste evacuazioni della storia, ma sono molti quelli che
non ce l'hanno fatta. ''C'era gente bloccata negli ascensori'',
racconta William Rodriguez, addetto alla manutenzione.
A gruppi e da soli, in migliaia hanno lasciato i due
giganteschi edifici, in buona parte con calma e senza scene di
panico. Ma dopo che il secondo aereo si e' schiantato contro il
palazzo, l'angoscia della fuga e' cresciuta. Le autorita' non
sono in grado di stabilire quanta gente fosse ancora all'interno
quando le torri, una dopo l'altra, sono collassate.
L'intera area intorno al World Trade Center, dopo il crollo,
ha cominciato ad assomigliare ad uno scenario urbano colpito
dall'eruzione di un vulcano. Le strade fino al Greenwich Village
si sono ricoperte di un fitto strato di polvere, con migliaia di
carte che volavano nell'aria, misti a detriti e pezzi di vetro.
La polvere ha attraversato anche la baia, depositandosi sulle
strade di Brooklyn.

 
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Fantasmi di polvere...

Post n°11 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo
Foto di fotografo_nudo

(ANSA) - NEW YORK, 11 SET - Fantasmi bianchi di polvere,
in lacrime, si aggirano nelle strade del cuore finanziario del
mondo. Alle loro spalle, il fumo copre la ferita piu' profonda
che New York potesse subire: le Torri Gemelle non esistono
piu', sono divenute un enorme tomba di metallo, detriti e vetro
sotto al quale sono sepolte centinaia, forse migliaia di vittime.
Grida, pianti, fughe, sirene, panico generale: la parte
meridionale di Manhattan e' ridotta come neppure i piu'
catastrofici tra gli scrittori e gli sceneggiatori di Hollywood
erano mai riusciti a immaginarla.
''Ho visto corpi che volavano giu' dalle torri, mentre la
gente urlava'', dice tremando un impiegato, John Axisa. In tanti
descrivono la stessa scena, quella delle persone che volano
dalle finestre e cadono al suolo, tra le urla dei presenti.
I paragoni per cercare di descrivere l'effetto delle
esplosioni si moltiplicano. C'e' chi parla di una scena analoga
a quella di un tornado, chi evoca il terremoto. Solo l'orrore
della carneficina di Pearl Harbor sembra riuscire a rendere
l'idea delle emozioni e del terrore che ha colpito Manhattan,
all'inizio di una giornata di lavoro come le altre.
Ogni giorno 50.000 persone andavano al lavoro nelle Torri del
World Trade Center. Altre migliaia di turisti le prendevano d'
assalto, per recarsi al ristorante panoramico e soprattutto sul
grande terrazzo che dominava la baia. Anche oggi i turisti erano
gia' in fila alle casse dell'osservatorio amato dai bambini: un
biglietto, una corsa sui velocissimi ascensori, su verso 'il
tetto del mondo', come era battezzata una delle attrazioni piu'
celebri di New York.

 
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Perchè le torri sono cadute. 

Post n°10 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo
Foto di fotografo_nudo

Nello scrivere questo lavoro, chiedo un’indagine seria sull’ipotesi che il WTC 7 e le Torri Gemelle furono abbattuti non tanto per i danni e gli incendi, ma tramite l’uso di esplosivi precedentemente posizionati.

Prendo in considerazione i rapporti ufficiali di FEMA, NIST e Commissione 11 Settembre secondo i quali i danni degli incendi più il danno in sé causarono il crollo completo di tutti e tre gli edifici. E porto le prove per la teoria della demolizione con esplosivi, che è suggerita dai dati disponibili, verificabile e confutabile e che ancora non è stata presa in seria considerazione in nessuno degli studi finanziati dal governo USA.

LEGGI IL RAPPORTO COMPLETO

 
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Osama Bin Laden.

Post n°9 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo
Foto di fotografo_nudo

Nato nel 1957, diciassettesimo dei 52 figli del piu' ricco costruttore dell'Arabia Saudita, avrebbe scoperto la propria intensa religiosità dopo essere rimasto folgorato dai luoghi santi islamici della Mecca e di Medina.

Comincia a formare la sua rete terroristica fin dal 1979. In quell'anno, dopo essersi laureato in ingegneria all'università di Gedda, si unisce alle truppe della resistenza afgana, i mujahedin, per combattere le truppe sovietiche che occupano l'Afghanistan. Nel 1980, infatti, decide di lasciare la casa paterna per prendere parte alla Jihad afghana contro l'Unione Sovietica, trasformandosi in un eroe nella regione. Un'esperienza che lo porta a radicalizzare il suo odio nei confronti degli Stati Uniti ma anche a prendere le distanza dal paese di origine, l'Arabia Saudita, la cui famiglia regnante viene considerata ''troppo poco islamica''.

Terminata l'esperienza di guerra contro i sovietici, torna in Arabia Saudita, dove comincia a lavorare per l'azienda di costruzioni di famiglia, il "Saidi Binladen Group". Tuttavia, a scapito della pacifica esistenza che si andava profilando, sembra divorato da un'irrefrenabilmente attrazione per le situazioni conflittuali. Ecco allora che si attiva sui fronti caldi del momento e si unisce alle forze che si oppongono alla monarchia regnante, la famiglia Fahd, tanto che di lì a poco viene espulso dal Paese, spogliato della cittadinanza saudita.

Nel 1996 lancia il primo "fatwah", editto religioso in cui invita i musulmani a uccidere i soldati americani stazionati in Arabia Saudita e Somali. A questo ne segue un secondo, nel 1998. Nel mirino di bin Laden, stavolta, ci sono anche i civili statunitensi.

Secondo gli investigatori bin Laden è al centro di una coalizione terroristica islamica che vanta numerosi alleati, dall'egiziana al Jihad, agli Hezbollah iranani, al fronte nazionale islamico sudanese, ai gruppi della jihad in Yemen, Arabia Saudita e Somalia.

Nell'ottobre 1993, 18 militari statunitensi impegnati nell'operazione umanitaria in Somalia vengono uccisi nel corso di un'operazione a Mogadishu. Bin Laden viene condannato nel 1996 con l'accusa di aver addestrato i responsabili dell'attacco. Nell'intervista rilasciata a CNN nel 1997, ammette che a uccidere i soldati americani sono stati i suoi seguaci, insieme a un gruppo di musulmani locali.

Il 7 agosto 1998, otto anni dopo il dispiegamento delle truppe americane in Arabia Saudita, l'esplosione di alcune autobombe fa saltare in aria le ambasciate americane a Nairobi, in Kenya e a Dar es Salaam, in Tanzania, uccidendo centinaia di persone.

Bin Laden ha smentito il proprio coinvolgimento in questi episodi, ma secondo gli inquirenti la sua responsabilità è del tutto evidente dai fax inviati dalla sua cellula londinese ad almeno tre organizzazioni giornalistiche.

Due settimane più tardi, l'allora presidente Usa Bill Clinton (al centro in quel momento dello scandalo Lewinsky), ordina un attacco missilistico contro alcuni campi di addestramento in Afghanistan e un impianto farmaceutico a Kartoum, in Sudan.

Bin Laden sopravvive agli attacchi e viene accusato dalle Nazioni Unite di aver organizzato gli attentati del 1998.

Il 29 maggio 2001 quattro suoi collaboratori vengono condannati al carcere a vita. Diversi altri sospetti rimangono in attesa di processo.

Tra questi, Ahmed Ressam, reo confesso di aver partecipato al piano fallito di far esplodere l'aeroporto internazionale di Los Angeles durante i festeggiamenti del capodanno 2000. Ressam ha detto di aver imparato a maneggiare pistole e fucili in un campo di addestramento in Afghanistan, il Paese che ospita il miliardario saudita.

Il resto è storia recente. Dopo il tragico attentato alle Torri Gemelle di New York, bin Laden è diventato il pericolo numero uno per gli Stati Uniti, che hanno unito le loro forze, insieme a numerosi alleati internazionali, per dare la caccia a quello che è ormai considerato a tutti gli effetti (anche grazie ad alcuni video che lo vedono "dissertare" sulla riuscita dell'attentato), il responsabile morale e materiale della strage newyorchese.

 
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Attacco alle torri gemelle.

Post n°8 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo
Foto di fotografo_nudo

ore 8.10 a.m.
Decolla dall'aeroporto newyorkese di Newark il volo 93 della United Airlines con 45 persone a bordo.Destinazione San Francisco
ore 8.30 a.m.
Da Washington parte il volo 77 dell' American Airlines con 64 persone a bordo diretto a Los Angeles
ore 8.45 a.m.
Il boeig 767 (volo 11 A.A.) si schianta contro l' 80° piano della torre nord del World Trade Center
ore 9.03 a.m.
18 minuti dopo il primo impatto un altro Boeig 767 (volo 175 U.A.) si schianta contro la torre sud del WTC all'altezza del 47° piano circa

 
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Attacco alle torri gemelle.

Post n°7 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo
Foto di fotografo_nudo

Ad ogni considerazione, che nulla aggiungerebbe a quanto già detto da molti,  preferiamo, in questa sede,  l' esposizione dei fatti:

ore 7.48 a.m.
Il volo 11 dell' American Airlines decolla dall'aeroporto di Boston diretto a Los Angeles con a bordo 81 passeggeri, 2 piloti e 9 membri dell'equipaggio
ore 8.00 a.m.
Il volo 175 della United Airlines decolla da Boston diretto a Los Angeles con 56 passeggeri, 2 piloti e 7 assistenti di volo a bordo

 
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Attacco alle torri gemelle.

Post n°6 pubblicato il 12 Maggio 2006 da fotografo_nudo
Foto di fotografo_nudo

L' 11 settembre del 2001, il terribile attacco alle "Torri gemelle " di  Manhattan risvegliò ancora una volta, nelle nostre coscienze,  l' incubo del terrorismo. A distanza di qualche anno, molte sono ancora le ferite non rimarginate, e non solo di tipo fisico.
A partire da quel giorno maledetto, infatti, tutti fummo costretti ad abbandonare il senso di assoluta sicurezza che pensavamo offrissero le società occidentali, super industrializzate e  super vigilate e ad accettare la convivenza col senso di pericolo imminente e la minaccia rappresentata da aberranti estremismi ideologici.
Nell' attentato delle Twin Towers perirono 2817 persone.

 
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