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COME è GIUSTO CHE SIA

Post n°134 pubblicato il 04 Marzo 2009 da libera_voce
 

RACCONTO N° 5

Come è giusto che sia

di  Gianfranco Bussalai

Lo considerano un poco strano, per non dire eccentrico. Percepisce su di sé gli sguardi dei vicini mentre si reca a fare la spesa, o a passeggiare per le vie del centro, e ogni volta si sente di troppo. Forse nel quartiere c’è chi lo considera addirittura uno snob, perché non dà confidenza a nessuno. Eppure un tempo era amato da tutti, al suo paese.

Siede sulla panchina di fronte all’edicola e si stringe dentro al cappotto. La gente passa veloce davanti a lui, spinta dal freddo e dall’urgenza.

Milano inizia ora a svegliarsi e gli sbadiglia sopra, a tratti, i suoi spifferi freddi. La luce è timida e lattiginosa: se guarda in fondo al viale vede il velo della nebbia che ne copre la fine, che gli nasconde il mondo.

Ma Rosario non sembra accorgersene, è perso nei suoi pensieri: ricorda la sua terra. Gli viene in mente la moglie e ancora rimpiange di non essere andato al suo funerale.

Il giudice gli ha augurato buona fortuna e gli ha stretto la mano.

"Lo Stato ha bisogno di gente come lei", ha detto.

Lo Stato.

Quando gli serviva lo Stato, quando gli serviva quel patto di sangue con la giustizia, si era ritrovato solo: come se fosse solo suo l’onere, come se fosse solo suo, quel piatto amaro.

E’ accaduto appena un mese prima e gli sembra sia trascorsa una vita intera. Un mese prima era a Trapani, a un tiro di fiuto dall’Africa, dai suoi deserti di sale. Ora sosta su una panchina fredda di Milano e si sta pisciando addosso.

Eppure è una fuga che non gli viene dalla codardia. Al contrario, è la ribelle testardaggine che gli è nata in cuore, è quella irriducibile volontà, che ha dettato le regole. E’ una fuga che gli viene dal troppo coraggio, alla fine. Dal disperato, eccessivo coraggio.

Fa un cenno di saluto al suo angelo custode, l’unico con cui scambia, a volte, due chiacchiere. E’ un giovane di vent’anni, discreto come sanno esserlo i siciliani. Riguardoso. Sta a distanza e non sembra neppure che stia lì per lui, che stia lavorando.

In Sicilia c’è chi gli sputerebbe in faccia, Rosario lo sa, ma quel giovane poliziotto no, lui lo rispetta.

Alla fine era solo questo che cercava: rispetto. Rispetto per il suo lavoro, per la sua fatica. Rispetto per la sua famiglia, per la sua vita.

Di tutte quelle fasi convulse, della forma disordinata che aveva assunto quel giorno la morte, ricorda solo il suo gesto prima di lasciare il corpo offeso della moglie, con riluttanza, agli infermieri: aveva accarezzato la sua fronte e ordinato come poteva i capelli sparsi. Come se l’amore non potesse essere altro che una questione di ordine. Come se ogni cosa non potesse essere altro che una questione di ordine. Ma forse dire in ordine è solo un altro modo per dire che è giusto.

Con precisione rammenta invece il senso di attesa impotente. Poi, come uno sfondo, l’odore di medicinale e il caldo d’ospedale.

La violacea incandescenza della morte, quella, Rosario non la ricorda, occultata dalla coltre asettica di una normale giornata di lavoro.

Questa è l’immagine della memoria più vicina a quel giorno: la vita del reparto che continuava come sempre. Gli infermieri passavano e sembravano tranquilli, quasi indolenti. Nessun richiamo isterico, nessuna urgenza.

Non è che Rosario si aspettasse un mondo accartocciato su se stesso, affranto e dolorante: in fondo era solo morta sua moglie.

Però quella morte confusa tra tante altre lo feriva, come se tutto il mondo ne fosse un poco colpevole.

Ritorna fiaccamente verso l’appartamento. Arrivano insieme nell’androne buio del palazzo e il poliziotto sale rapido le scale, la mano sul calcio della pistola. Arriva al piano prima di lui, che segue con l’ascensore. Gli apre la porta. "Prego", gli dice. "Grazie", risponde Rosario.

"Devi aiutare le famiglie dei nostri carcerati", gli avevano intimato.

Come se fosse un’opera buona, come se fosse una cosa giusta.

Lui aveva capito subito che non ce l’avrebbe fatta. Sentiva quell’imposizione premergli addosso come un panno bagnato.

Non era una grande somma, quella che gli chiedevano: solo l’umiliazione era grande.

Aveva deciso da subito di non cedere al loro ricatto e si sentiva dentro una mola che frantumava ogni altra strada.

Non rispose che non aveva soldi, non disse che chiedevano troppo. Li guardò in viso e disse loro che non avrebbe pagato.

L’altro poliziotto ha preparato la pasta al tonno. Siedono per mangiare e lo lasciano a capotavola.

"Tra qualche giorno potrà deporre dal giudice", dice l’altro, con il tono di chi vuole consolare. Ma Rosario percepisce il vuoto, oltre il punto preciso di quell’appuntamento. Come una caduta che toglie il fiato e il pensiero. Come un precipizio che inizia nel punto esatto in cui finisce la terra.

Non risponde e si china sul piatto: a che serve tutto questo? Quel che è accaduto nulla lo cambia e gli assassini si sono presi il suo futuro. Al suo posto: un buco nero e un plotone schierato di giorni sempre uguali.

La prima volta trovò una lattina vuota di benzina e una scatola di cerini. Li portò in questura e qualcuno disse: "non significa niente".

La volta dopo lasciarono due proiettili. Li gettò via e si disse che due erano troppi, in fondo, per un uomo solo.

Il suo vicino di negozio gli diceva che era matto, che era meglio non immischiarsi: come se si fosse mischiato lui, con quella feccia!

Alla moglie non disse nulla, ma la baciò spesso e fu molto tenero.

Lei lo guardava con sospetto e quasi credeva che avesse l’amante.

Il poliziotto giovane gli versa un liquore, "lo ha fatto mia madre", dice.

Rosario pensa che vorrebbe lontano da sé quel calice, tornare un mese indietro e pagare il conto. Però dice "molto buono", e il poliziotto giovane sorride d’orgoglio.

"Lo ha fatto mia madre", ripete, e i suoi vent’anni gli illuminano il sorriso.

Quando accadde lui temette, a ragione, per sua moglie. Spararono sull’auto da lontano, con un fucile caricato a pallettoni. Lui accelerò e sentì la morte che lo inseguiva, che rimaneva indietro. Poi si voltò verso la moglie e scoprì che la morte gli era, invece, accanto.

Saluta e si ritira.

Troppe cose gli sembrano fuori posto, in quella stanza: come se vivere sia soltanto una questione di ordine.

Si siede sul letto, poggia le mani sul viso, come a pregare, e chiude gli occhi.

Alla fine sa che lo farà, prendendo il peso sulle sue spalle, bevendo da quel calice. In una giornata qualunque entrerà in un’aula fredda e triste e dirà tutta la verità, nient’altro che la verità.

Non si sentirà diverso, non cambierà quel plotone di giorni solitari che l’attendono schierati nel futuro. Ma qualcosa sarà andato al suo posto, un poco d’ordine, finalmente, nel disordine insulso della vita.

Come è giusto che sia.

 

 

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Commenti al Post:
yonizu
yonizu il 05/03/09 alle 17:33 via WEB
Bellissimo! "La bacio spesso e fu molto tenero"
 
bobboti1
bobboti1 il 06/03/09 alle 19:25 via WEB
bellissimo. il liquore "antico" e il giovane sorriso del poliziotto sono la lama che squarcia il velo di nebbia. e per questo, come è giusto che sia, filtra una luce. complimenti.
 
bettinadecarli
bettinadecarli il 07/03/09 alle 00:35 via WEB
ti ringrazio, un racconto molto bello, colmo di realismo e impegno civile, emozionante e non mieloso, forte ma non demagogico E poi scritto bene.. davvero complimenti
 
hpven21
hpven21 il 07/03/09 alle 15:38 via WEB
Davvero bello! Lore
 
moonbossa
moonbossa il 07/03/09 alle 23:16 via WEB
mi piace moltissimo come scrivi, mi auguro che ti venga voglia di scrivere un romanzo, e poi un altro e un altro ancora.....
 
trotuladeruggero
trotuladeruggero il 08/03/09 alle 20:22 via WEB
Racconto scritto in bianco e nero, come un film neorealista.. ..la ribelle testardaggine come reazione alla solitudine e alla sofferenza. Mi ricorda Englaro. Complimenti.
 
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