Giorgio Amendola dirigente del Pci
Nella rievocazione della figura di Giorgio Amendola e del ruolo da egli svolto come dirigente di
primo piano del Pci, è forte il rischio di cadere in un errore di tipo “prospettico”. Il rilievo assunto
da alcune sue celebri sfide politiche e culturali - prima fra tutte quella contenuta nel famoso articolo
del 1964 in cui veniva proposta la confluenza di Pci e Psi in un nuova formazione non più
comunista - può indurre a caratterizzare la sua esperienza di direzione politica come quella di un
coraggioso innovatore che tuttavia, per le resistenze conservatrici suscitate dalle sue proposte, o per
il carattere eccessivamente anticipatore che queste avrebbero avuto, non riuscì mai ad affrancarsi da
una posizione minoritaria all’interno del suo partito. Amendola sarebbe stato, in altre parole, il
simbolo di come il Pci avrebbe potuto essere ma non fu: l’uomo che cercò senza riuscirci di
imprimere alla storia del comunismo italiano un corso differente, che ne avrebbe consentito con ben
maggiore tempestività e solidità l’evoluzione socialdemocratica e l’approdo a una funzione di
governo. Naturalmente, in questa caratterizzazione vi è molto di vero, e avremo modo nella seconda
parte della nostra relazione di analizzare più da vicino le più significative sfide amendoliane e la
sconfitta a cui buona parte di esse andò incontro2. E tuttavia un approccio di questo tipo sarebbe
parziale, e non consentirebbe di comprendere appieno né il ruolo svolto da Amendola nel suo
partito e nella vita politica italiana, né la funzione assolta dal Pci nella storia del nostro paese.
In realtà Giorgio Amendola può essere considerato, forse più di ogni altro dirigente del Pci, una
figura emblematica del “partito nuovo” edificato da Palmiro Togliatti. Sia in un senso generale, in
quanto egli incarnò a perfezione alcuni dei tratti più peculiari di quella originale formazione
politica, sia in un senso più concreto, perché il suo contributo alla costruzione del “partito nuovo” fu
assolutamente determinante e condizionò in modo assai rilevante non solo l’evoluzione del Pci ma
gli sviluppi dell’intera politica italiana. Allo stesso modo, quando negli anni sessanta si aprì una
nuova stagione nella vita della repubblica ed il sistema politico italiano fu chiamato ad affrontare
sfide alle quali esso era impreparato, Amendola fu il dirigente che in modo più acuto e tempestivo
percepì le aporie e i limiti del suo partito. Ma fu solo all’inizio del decennio successivo, quando
risultò in modo più evidente e definitivo l’impossibilità di tradurre questa percezione di
inadeguatezza in una strategia realistica in grado di aprire la prospettiva del governo, che egli si
isolò gradualmente dal gruppo dirigente, del quale tuttavia non cessò di considerarsi e di essere un
esponente autorevole quanto disciplinato, non mettendo mai in discussione quella identificazione
piena con il Pci che costituisce il tratto più saliente della sua biografia politica.
1. La costruzione del “partito nuovo” nel Mezzogiorno
La profonda sintonia politica tra Giorgio Amendola e Palmiro Togliatti è documentabile già nei
giorni immediatamente successivi alla svolta di Salerno, quando all’interno del “centro” clandestino
del Pci Amendola e Novella furono i dirigenti che con maggiore prontezza compresero il significato
strategico della proposta togliattiana e ne approvarono i contenuti battendosi perché essa venisse
accolta in tutte le sue implicazioni e non solo in modo rituale o strumentale3. Successivamente
Amendola ebbe un ruolo significativo nella lotta di liberazione e nella stagione dei governi di unità
antifascista, ma il suo contributo alla politica del Pci divenne particolarmente incisivo ed allo stesso
tempo assunse un profilo specifico tra il 1947 e il 1954, quando egli fu responsabile della
commissione meridionale del partito rivestendo allo stesso tempo la carica di segretario regionale
della Campania, della Lucania e del Molise.
Furono anni difficili ma assai fecondi per l’Italia. Nonostante le tensioni della guerra fredda e
l’asprezza di divisioni politiche e sociali profonde, che scaturivano dall’arretratezza del paese, la
giovane democrazia italiana seppe crescere e consolidarsi. Da un lato, la Dc di De Gasperi respinse
ogni sollecitazione interna e internazionale alla rottura del patto costituzionale pur nella nettezza
della scelta anticomunista, unificò dietro ad una leadership antifascista e moderatamente riformista
una base sociale assai più conservatrice e condusse il paese sulla strada dell’alleanza atlantica e
dell’integrazione europea, utilizzando in modo sapiente i nuovi vincoli multilaterali per innescare
un poderoso sviluppo economico che avrebbe mutato il volto del paese4. A sua volta il Pci contribuì
in modo determinante a questo processo: non solo governando le spinte più radicali e sovversive e
collocando la propria opposizione sul terreno costituzionale, ma facendo del “partito nuovo” un
poderoso strumento di educazione alla democrazia e di disciplinata emancipazione per enormi
masse di uomini che né l’Italia liberale né quella fascista avevano fino a quel momento saputo
integrare nello stato. Con lo scoppio della guerra fredda la ricca stagione costituente dei governi di
unità antifascista ebbe termine, e il Pci si trovò privo di una proposta di governo e consapevolmente
autorelegato all’opposizione per effetto del legame di ferro con l’Unione Sovietica. E tuttavia la
scelta di collocare la propria opposizione sul terreno dell’attuazione della Costituzione invece che
su quello di una alternativa di sistema lo rese protagonista di una sorta di “riformismo passivo”, che
attraverso l’organizzazione democratica delle lotte, la duttilità dell’azione parlamentare e la capacità
di proposta costituì un poderoso stimolo per le forze riformatrici della compagine di governo e ne
condizionò l’azione e gli equilibri interni5.
In questo quadro, l’azione svolta da Amendola nel Mezzogiorno ebbe un ruolo particolarmente
rilevante. La costruzione del partito nuovo al Sud avvenne intorno alle lotte agrarie, che Amendola
si sforzò di collocare su un terreno unitario più largo di quello caratteristico dell’azione spontanea
dei braccianti, organizzando intorno al Movimento di rinascita del mezzogiorno ed ai suoi diversi
organismi un vasto fronte di forze politiche, sociali e intellettuali6. Ciò ebbe una duplice
conseguenza: in primo luogo il carattere dell’iniziativa meridionalistica e il crescente radicamento
del Pci nel Mezzogiorno rappresentarono una sorta di contrappeso all’organizzativismo, al
classismo ed al primato dei temi di carattere internazionale che caratterizzavano l’azione di Secchia
alla commissione centrale di organizzazione e che trovavano terreno fertile soprattutto nei centri
operai del nord. In secondo luogo l’iniziativa politica e sociale del Pci nel meridione condizionò
notevolmente l’azione della Dc e l’evoluzione più complessiva della politica italiana. Le lotte
agrarie dell’autunno del 1949 contribuirono infatti in misura rilevante a determinare la svolta che
nel gennaio del 1950 portò alla costituzione del VI governo De Gasperi con un programma
riformista incentrato sull’uso produttivistico degli aiuti del Piano Marshall e sul varo della riforma
agraria e della Cassa del Mezzogiorno7. I risultati dell’iniziativa politica comunista furono poi
evidenti alle elezioni amministrative del 1952 e soprattutto a quelle politiche del 1953, il cui
principale tratto distintivo fu appunto il raddoppio dei voti al Pci nel Mezzogiorno (dal 10,9% nel
1946 al 21,2, al quale si contrappose una lieve riduzione dei consensi del partito al nord), che fu
quindi determinante per il fallimento della cosiddetta “legge truffa”. Infine, il successo della
costruzione del “partito nuovo” nelle regioni meridionali fu uno dei fattori che portarono
all’affermazione della “seconda generazione” democratico cristiana raggruppata intorno alla
corrente fanfaniana di Iniziativa democratica. Uno degli elementi caratterizzanti della piattaforma
del nuovo gruppo dirigente fu infatti proprio la constatazione, lucidamente esposta da Emilio
Colombo nel Consiglio nazionale che preparò il congresso di Napoli del 1954, che l’azione politica
comunista nel Mezzogiorno stava riducendo il peso e la forza dei tradizionali legami notabiliari, il
che imponeva alla Dc di respingere ogni ipotesi di alleanza con le destre e di consolidare il proprio
carattere di partito di massa e il proprio orientamento riformatore8.
L’esperienza di direzione politica di Amendola nel Mezzogiorno fu quindi ricca di risultati, e si
ritrovano in essa tutti i motivi più profondi della sua “scelta di vita” e della sua identità di comunista
italiano. L’impianto politico-culturale alla base di quell’azione si fondava infatti sulla acuta
consapevolezza dei limiti del processo di unificazione del paese e della fragilità della borghesia
italiana, che trovavano nella persistente ristrettezza del mercato interno e nella arretratezza
economica, sociale e civile del Mezzogiorno la loro manifestazione più evidente e al tempo stesso il
loro principale presupposto. Di qui l’individuazione di una inedita “funzione nazionale” della classe
operaia, che consisteva nel portare a compimento l’opera interrotta delle classi dirigenti che
avevano guidato il risorgimento. Di qui la considerazione che proprio il fallimento di queste ultime,
testimoniato dall’avvento del fascismo, rendeva il compito di integrare le masse nello stato un
compito rivoluzionario, che solo un partito comunista poteva svolgere e che sarebbe sfociato in una
società socialista attraverso una particolare “via nazionale”. Di qui infine la centralità nel suo
approdo al Pci della consapevolezza della centralità dell’antifascismo e dell’esigenza (variamente
declinata) che esso assumesse una dimensione al tempo stesso popolare, nazionale e democratica9.
Era un impianto che si collocava saldamente nel solco delle riflessioni gramsciane e togliattiane, ed
era ancorato ad una rielaborazione storicista del marxismo che passava per Labriola e per Croce ed
operava sul piano filosofico quella stessa saldatura con le correnti più profonde e originali della
cultura italiana che il partito nuovo intendeva compiere sul terreno storico-politico. Come figlio del
principale esponente dell’antifascismo liberale, come marxista gramsciano e come meridionalista e
costruttore del “partito nuovo”, Giorgio Amendola, incarnava pienamente questa dimensione
peculiare del comunismo italiano, offrendo spessore e credibilità alla sua iniziativa politica ed alle
sue ambizioni egemoniche. In un certo senso, si potrebbe dire che il fatto stesso che un uomo come
Giorgio Amendola per essere antifascista e meridionalista in modo conseguente sia dovuto - ed
abbia potuto - diventare comunista, contribuisce a spiegare meglio di tante analisi perché in Italia lo
spazio politico e la funzione storica della sinistra siano stati “occupati” in misura crescente da un
partito con le caratteristiche del Pci.