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Post N° 37

Post n°37 pubblicato il 13 Maggio 2006 da rossebandiere
 
Tag: Pcus

Il modello di Stalin:  
una società perennemente mobilitata
per uscire dall'arretratezza

di Andrea Catone
«L'ampiezza dell'industrializzazione dell'URSS, nei confronti della stagnazione e del declino di quasi tutto l'universo capitalista, risalta dagli indici globali seguenti [...] Negli ultimi dieci anni (1925-1935), l'industria pesante sovietica ha più che decuplicato la sua produzione. Nel primo anno del primo piano quinquennale [1929] gli investimenti di capitale si elevarono a 5,4 miliardi di rubli, nel 1936, devono essere di 32 miliardi», mentre «la produzione industriale della Germania raggiunge in questo momento il livello del 1929 solo in virtù della febbre del riarmo», la produzione industriale degli USA si è abbassata di circa il 25%, quella della Francia di più del 30%, e quella inglese è cresciuta solo del 3-4% con l'aiuto del protezionismo. «Gli immensi risultati ottenuti dall'industria, l'inizio molto promettente di uno sviluppo dell'agricoltura, lo svilupparsi straordinario delle vecchie città industriali, la creazione di nuove, il rapido aumento del numero degi operai, l'elevamento del livello di vita e dei bisogni, tali sono i risultati incontestabili della rivoluzione d'Ottobre, in cui i profeti del vecchio mondo videro la tomba della civiltà. Non è più il caso di discutere con i signori economisti borghesi: il socialismo ha dimostrato il diritto alla vittoria non nelle pagine del Capitale, ma su un'arena economica che comprende la sesta parte della superficie del globo; non con il linguaggio della dialettica, ma con quello del ferro, del cemento e dell'elettricità. [...] Solo la rivoluzione proletaria ha permesso a un paese arretrato di ottenere in meno di vent'anni risultati senza precedenti nella storia».

   Non è Stalin, né un suo sostenitore a scrivere questo nel 1936, quando è in pieno svolgimento il secondo piano quinquennale e viene varata la nuova Costituzione sovietica, ma il suo più fiero, tenace e preparato oppositore, Lev Trockij (1). La «rivoluzione dall'alto» - industrializzazione a passi da gigante e collettivizzazione forzata delle campagne - lanciata da Stalin nel 1929, appare, anche agli occhi del più attento e severo critico, aver raggiunto nel 1936, nonostante gravi errori, profonde contraddizioni e un prezzo altissimo, il risultato incontrovertibile della rottura del blocco dell'arretratezza.

   Questa industrializzazione accelerata, che fa compiere all'URSS in dieci anni parte del cammino che le altre società borghesi avevano percorso durante secoli, è anche il fattore principale della vittoria dell'URSS nella seconda guerra mondiale contro le armate naziste, il più potente e agguerrito esercito del mondo, che dominava incontrastato su tutto il continente europeo. Sono veramente in pochi a negare che senza Stalingrado le sorti della guerra - e del mondo - sarebbero state profondamente diverse.

   La vittoria sul nazismo consente all'URSS di sedere con pari dignità al tavolo delle grandi potenze mondiali e di poter svolgere - pur tra contraddizioni ed errori - un ruolo fondamentale di sostegno, o quantomeno di retrovia nel complesso affidabile, per i movimenti anticoloniali e antimperialistici e per le rivoluzioni socialiste che si sviluppano nei trent'anni successivi al secondo conflitto mondiale, dalla Cina al Viet-nam, da Cuba al Nicaragua.

   Il «mito» di Stalin e dell'URSS si fondava su dati di fatto oggettivi. La rivoluzione d'Ottobre e il «modello di Stalin», che prende forma e si afferma tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta, hanno rappresentato agli occhi di centinaia di milioni di individui oppressi e diseredati la possibilità di uscire dall'arretratezza attraverso una via non capitalistica di sviluppo, nel momento in cui l'imperialismo generava, nel movimento contraddittorio del capitale, sottosviluppo in vaste aree del globo.

   E proprio dalla questione dell'arretratezza si dovrebbe partire nel delineare un profilo dell'uomo che ha guidato, nel bene e nel male, una delle più grandiose trasformazioni sociali della storia.

   Arretratezza non significa soltanto aratri di legno trainati da cavalli, povere isbe come abitazione di milioni di contadini, assenza o povertà di una base industriale, primordialità dei rapporti mercantili, ma anche analfabetismo predominante, scarsità di tecnici, visioni del mondo premoderne, mentalità semifeudale, superstizione diffusa, disabitudine alla vita politica, concezione sacrale del potere: insomma, tutto un retaggio storico che la conquista del potere politico da parte di una forza rivoluzionaria non può cancellare con un tratto di penna. E che chiunque voglia seriamente misurarsi con la storia della rivoluzione d'Ottobre non può mettere tra parentesi.

   Il che non vuol dire affatto giustificare «storicisticamente» ogni aberrazione; significa solo non porsi di fronte alle questioni dello «stalinismo» in termini demonizzanti e con l'attitudine di chi, delineando astrattamente un percorso unilineare, disegnato in base a ciò che «si sarebbe dovuto fare», pretende di «mettere le brache» alla storia. La storia, come sapeva Marx, si presenta anche col suo «lato cattivo».

 

   Il trentennio durante il quale Stalin svolge la funzione di segretario generale (Gensek) del partito comunista sovietico (a partire dal 1922) non può essere assunto come un blocco unico, come se l'intero percorso della direzione staliniana, le drammatiche svolte, le oscillazioni, gli irrigidimenti, gli arretramenti, fossero tutti già iscritti nel dirigente bolscevico che, come scrisse Lenin nel «testamento», aveva «concentrato nelle sue mani un immenso potere» (2).

   Nell'autunno del 1926 Gramsci - invitando la maggioranza del partito bolscevico a non «stravincere», a non adottare «misure eccessive» contro il blocco dell'opposizione di sinistra (Trockij, Kamenev, Zinov'ev), che rappresentava «in Russia tutti i vecchi pregiudizi del corporativismo di classe e del sindacalismo» (3)  - osservava che la nuova politica economica (adottata nel '21 per ridare fiato al paese stremato dalla guerra civile) era gravida di acutissime contraddizioni: tra «nepman impellicciato, che ha a sua disposizione tutti i beni della terra» e «operaio mal vestito e mal nutrito»; tra bednjaki, contadini poveri, ridotti a braccianti giornalieri sottopagati e kulaki in posizione dominante; tra città, affamata di pane, con un'industria limitata e scarsamente produttiva, e campagna, riluttante a vendere il grano dal momento che le «forbici» tra prezzi agricoli, bassi, e prezzi industriali, alti, tendevano ad allargarsi (come Trockij osservava già nel 1923).

   Fino alla gravissima crisi degli approvvigionamenti delle città dell'inverno 1927-28, la posizione di Stalin appare notevolmente prudente, volta a salvare - a costo di procedere a piccoli passi e di ampliare le concessioni al settore privato - il nucleo fondamentale della NEP, l'alleanza operai-contadini, mentre l'opposizione di sinistra teorizza, con la Nuova economia di Preobraženskij (1926) la necessità di un'accumulazione originaria socialista attraverso il «pompaggio» (perekačka) dei capitali essenzialmente dall'agricoltura per finanziare la costruzione di un'industria socialista. L'obiettivo politico, in una situazione internazionale in cui la crisi postbellica non si è risolta in una rivoluzione vittoriosa in Occidente, appare, realisticamente, il mantenimento del potere sovietico, evitando rotture traumatiche all'interno di una società fragile e ancora profondamente scossa dai postumi della guerra civile e del «comunismo di guerra», delle requisizioni forzate nelle campagne, della terribile carestia che nel 1921 aveva provocato 5 milioni di morti.

   È essenzialmente su questo terreno politico - di prudenza e realismo - piuttosto che su quello organizzativo dell'abilità manovriera e del controllo dell'apparato del partito dalla sua posizione di Gensek, che Stalin conquista il consenso della maggioranza dei quadri del partito.   

   La «grande svolta» (è il titolo dell'articolo di Stalin sulla Pravda per il 12° anniversario dell'Ottobre), che rivoluzionerà profondamente in pochi anni i rapporti sociali nelle città e nelle campagne e che conferirà al «sistema sovietico» il suo carattere più marcato, matura con la crisi della NEP, determinata dall'arretratezza russa: il ritmo di sviluppo industriale piuttosto lento della Nep non è in grado di sostenere i lavoratori della città, che non ricevono grano dalla campagna, la quale, d'altra parte, polverizzata in 24 milioni di aziende contadine (dopo i primi decreti rivoluzionari di assegnazione e spartizione delle terre risultavano 1/3 in più rispetto ai 16 milioni del 1914) si caratterizzava fondamentalmente per un'economia di autosussistenza: nel 1926-27 i contadini consumavano l'85% della loro produzione (4). Ciò potrebbe minare alla base il potere bolscevico, metterne in discussione la stessa esistenza, in un contesto internazionale che continua ad essere caratterizzato dalla sindrome della «fortezza assediata» che le potenze imperialistiche non hanno rinunciato ad abbattere (nel 1927 l'Inghilterra rompe le relazioni diplomatiche con l'URSS) e dalla «esacerbazione delle contraddizioni capitalistiche» (è l'analisi prodotta dal VI congresso del Komintern, 1928).

   La grande svolta promossa da Stalin coinvolge profondamente l'intero paese: l'agricoltura, con la collettivizzazione «dall'alto», accelerata e fortemente sostenuta con la coercizione (tuttavia, è bene ricordare, non solo di questo si è trattato, ma anche, sebbene non in tutte le zone, di un movimento di massa di contadini poveri contro i kulaki); l'industria, con la creazione, a ritmi frenetici, di immensi complessi per la produzione di mezzi di produzione; la scuola: nella popolazione tra i 9 e i 49 anni di età la percentuale di analfabeti scende dal 43% del 1926 al 13% del 1939; la percentuale di studenti universitari provenienti da famiglie operaie sale dal 30% nel 1928-29 a quasi il doppio nel 1932-33. 17 milioni di contadini tra il 1928 e il 1935 passano dalle campagne nelle città o nei nuovi poli industriali. La disoccupazione operaia fu riassorbita nei primi due anni del primo piano quinquennale (5). In pochissimi anni l'intera società di un enorme paese subisce una trasformazione radicale come mai era avvenuto nella sua storia. La Russia è un immenso cantiere in continuo movimento, dove sono all'opera, animati da passione ed entusiasmo, milioni di «costruttori» del nuovo mondo, di lavoratori che hanno la possibilità, un tempo impensabile, di una grande mobilità sociale verso l'alto. Il consenso di massa che questa politica ottiene non è fittizio, né coatto, poggia su una base sociale reale.

   Ma questo processo di industrializzazione e collettivizzazione iperaccelerata provoca tensioni e contraddizioni acutissime, che il gruppo dirigente staliniano decide di regolare con un ricorso sempre più massiccio alla coercizione e alla repressione. Nelle campagne vengono colpiti pesantemente non solo i kulaki, ma anche i contadini medi.  Dalle statistiche ufficiali sovietiche si evince che circa 1,2 milioni di persone furono deportate (6). La legislazione del lavoro è segnata in questi anni dall'adozione di misure drastiche (passaporto interno; sistema della propiska: registrazione obbligatoria presso la polizia locale; pene severissime per i «reati contro il patrimonio socialista»).

   All'interno del partito comunista prevale la logica militare, di un esercito impegnato in una guerra difficilissima, che non può permettersi tentennamenti, discussioni, critiche. La guerra è lo stato d'eccezione, che richiede la massima centralizzazione delle decisioni e la riduzione a un minimo dello spazio per la politica. In questa logica, la linea di confine tra la critica alla politica del gruppo dirigente e l'azione diretta contro il potere sovietico, il sabotaggio, si fa estremamente esile: la sanzione politica degli oppositori è accompagnata (o spesso preceduta) dall'azione degli organi polizieschi e giudiziari.

   Tuttavia, fino al 1935-36, l'azione repressiva da parte degli organi del ministero degli interni (NKVD) e della magistratura è volta essenzialmente contro gli «specialisti borghesi» e i rappresentanti delle «vecchie classi moribonde»: 1928, denuncia delle operazioni di sabotaggio organizzate da ingegneri borghesi nelle miniere di Šachty; 1928-1931, licenziamento di migliaia di funzionari degli organismi economici per «deviazione di destra» (indulgenza fiscale nei riguardi di kulaki o nepmany); una serie di processi agli specialisti del VSNCh (Consiglio supremo dell'economia nazionale), del «partito contadino del lavoro», del «partito industriale» con l'accusa di sabotaggio e sovversione economica. La repressione poliziesca non investe, se non marginalmente, i quadri e i dirigenti del partito comunista. In una prima fase del dissidio tra maggioranza e opposizione di sinistra, Stalin vota contro i provvedimenti di esclusione degli oppositori dagli organismi dirigenti del partito e del Komintern. Con l'acuirsi dello scontro, tra il 1926 e il 1927, interviene, accanto alla sanzione politica (esclusione dagli organi dirigenti e dal partito), una sanzione poliziesca: nel gennaio 1928 sono allontanati forzatamente da Mosca Trockij, Radek, Preobraženskij ed altri, rei di aver organizzato, in occasione del 10° anniversario dell'Ottobre, manifestazioni di piazza contro la maggioranza del partito. Tuttavia, la repressione verso i dirigenti del partito accusati di «deviazione di destra» o di «destra-sinistra», di complotto antisovietico e di sabotaggio, non giunge all'eliminazione fisica: nel 1932 la maggioranza del Politbjuro si rifiuta di condannare a morte Rjutin, accusato di attentare alla vita di Stalin (7).

   Al XVII congresso, il «congresso dei vincitori» (gennaio-febbraio 1934), che si lascia alle spalle la fase più drammatica della «grande svolta» e che sembra puntare ad una politica di stabilizzazione (8), tra i 1966 delegati sono presenti, salvo Trockij, anche i maggiori rappresentanti delle opposizioni di destra e di sinistra (Bucharin, Tomskij, Rykov, Zinov'ev, Kamenev, Radek, Pjatakov, Preobraženskij).

   Le cose cambiano radicalmente in seguito all'assassinio (1° dicembre 1934) di Kirov, membro del Politbjuro, segretario dell'organizzazione di Leningrado, dotato di carisma e capace di riscuotere consensi all'interno del partito. La nuova documentazione, disponibile in seguito alla recente apertura degli archivi sovietici, distrugge la credibilità dell'accusa lanciata da Chruščev: allo stato attuale della documentazione nulla prova che Stalin abbia ordinato l'assassinio di Kirov, che non era peraltro un «moderato» (9). Si scatena una repressione violentissima che ha per oggetto anche i principali membri del partito. È il periodo dei grandi processi dimostrativi di Mosca e del «Grande Terrore» (1936-1938), che coinvolge gran parte della «vecchia guardia» bolscevica (Zinov'ev, Kamenev, Pjatakov, Radek, Bucharin, Rykov, Rakovskij, per citare i più noti), condannati alla pena capitale con l'accusa non solo di fomentare la controrivoluzione, ma anche di tradire la patria in combutta con servizi segreti tedeschi, giapponesi o inglesi. Con imputazioni simili viene decapitato anche il vertice delle forze armate (il comandante in capo dell'esercito Tuchačevskij e altri altissimi ufficiali), nonché gli stessi dirigenti della polizia politica, Jagoda e Ežov. Centinaia di migliaia vengono deportati nei campi di lavoro.

   Recenti studi sulla base delle nuove fonti d'archivio smentiscono le esagerazioni di R. Conquest (10), correggendo al ribasso il numero delle vittime della repressione degli anni Trenta (11). Ma la revisione delle cifre non sposta la questione del «grande terrore», che rimane la pagina più oscura e più tragica della storia sovietica, per molti versi ancora inspiegata. Perché, dopo un congresso che sancisce la vittoria della linea staliniana e che pone le premesse per la stesura della costituzione del 1936, destinata a sancire, ex post, la «vittoria del socialismo», si scatena una repressione che falcidia senza pietà buona parte dei vecchi dirigenti e quadri del partito?

   Sono poco convincenti le spiegazioni demonizzanti che attribuiscono alla sete di potere (e di vendetta) di Stalin l'eliminazione dei vecchi bolscevichi per avere completamente campo libero: il potere, anche il più autocratico, non si regge mai su se stesso, rappresenta, pur se in modo abnorme, una base sociale. O le spiegazioni che vedono nel «grande terrore» il punto culminante e inevitabile del percorso «di violenze e sopraffazioni» del comunismo e del bolscevismo a partire dalla presa del Palazzo d'Inverno e dallo scioglimento dell'Assemblea Costituente, fino alla lotta contro i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, alla repressione delle rivolte di Tambov e Kronštadt nei primi anni Venti e via discorrendo (12).    

     Ma è anche poco convincente la tesi del grande terrore come apice di una «controrivoluzione staliniana», che affermerebbe il potere della burocrazia contro il potere del proletariato. Il terrore della seconda metà degli anni Trenta sembra rivolto proprio contro i dirigenti del partito e dello Stato, contro i quadri, contro i funzionari, al punto che nessuno possa sentirsi veramente al sicuro, nessuna carriera al di sopra di ogni sospetto. Il terrore sembra rivolto ad evitare la cristallizzazione e il consolidamento di una qualche burocrazia. Stalin fa appello alle masse dei semplici e onesti contro i dirigenti corrotti e deviati e su questa base ottiene consenso. L'aberrazione tragica di una rivoluzione che divora i suoi figli non può essere iscritta nella categoria della controrivoluzione.

   D'altra parte, non è suffragata dai documenti d'archivio la tesi di un meccanismo poliziesco «impazzito» e autonomizzatosi dagli stessi massimi dirigenti e dal Gensek, la firma dei quali figura in calce alle liste dei repressi.

   Alla spiegazione del terrore potrebbe contribuire, ma solo parzialmente, la tesi della mai sopita sindrome della «fortezza assediata», alimentata dall'ascesa del nazismo in Germania, col suo dichiarato intento di distruggere il bolscevismo e di conquistare spazi vitali a est, e dall'aggressione giapponese in Cina e in Manciuria.

   Una spiegazione strutturale plausibile sostiene che il meccanismo del terrore diviene necessario per mantenere il clima di mobilitazione generale e di stato d'emergenza richiesto dalle esigenze di un'industrializzazione accelerata (13).

   Contrariamente alle aspettative di Hitler, il paese dei Soviet che i nazisti attaccano nel 1941 non si sfalda al primo colpo e non si rivolta contro il suo governo. Nonostante gravi incertezze ed errori iniziali (che Stalin ammette apertamente nel suo Brindisi al popolo russo del 24 maggio 1945), il sistema sovietico si dimostra vitale e capace di reagire vittoriosamente (come si dimostrerà vitale nella rapida ricostruzione postbellica). Nella lotta antinazista Stalin sa essere col suo popolo. Il 18 dicembre del 1941, quando i tedeschi giungono a minacciare Mosca e il governo evacua la capitale, Stalin non abbandona la città. Un altro dicembre di 50 anni dopo, all'annuncio del colpo di Stato di Brest (8.12.1991) che dichiara disciolta l'URSS, il presidente dell'Unione, Gorbace^v, «ne prende atto» e si ritira, senza opporre resistenza alcuna.

 

NOTE

   1. Cfr. L. Trockij, La rivoluzione tradita, Samonà e Savelli, Roma, 1972, pp. 6-8. Evidenziazioni mie, A. C.

   2. Cfr. V. I. Lenin, Opere complete, vol. 36, Editori Riuniti, Roma, p. 429.

   3. Cfr A. Gramsci, La costruzione del partito comunista, Einaudi, Torino, 1971, pp. 130-136.

   4. Cfr. N. Werth, Storia dell'Unione sovietica, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 223.

   5. Cfr. A. Agosti, Stalin, Editori Riuniti, Roma, 1983, pp. 71-72.

   6. Secondo altre ricerche il numero dei contadini colpiti dalla «dekulakizzazione» è ben più alto, cfr. N. Werth, op. cit., p. 265.

   7. Per uno studio del funzionamento e del dibattito in seno al Politbjuro, cfr. la recente raccolta documentaria Stalinskoe Politbjuro v 30-e gody (Il Politbjuro staliniano negli anni Trenta), a cura di O. Chlevnjuk, A. Kvašonkin, L. Košeleva, L. Rogovaja, edizioni «AIRO-XX», Mosca, 1995. Sui processi politici degli anni 1930-50, cfr. Reabilitacija. Političeskie processy 30-50-ch godov, Mosca, 1991.

   8. Cfr. F. Benvenuti, «"Rivoluzione dall'alto" e "Grande ritirata" nel primo stalinismo (1928-1941)», in L'età dello stalinismo, a cura di A. Natoli e S. Pons, Editori Riuniti, Roma, 1991. Cfr. anche F. Benvenuti, S. Pons, Il sistema di potere dello stalinismo, F. Angeli, Milano, 1988.

   9. Cfr. A. Kirilina, L'assassinat de Kirov. Destin d'un stalinien, 1888-1934, Seuil, Paris, 1995.

   10. Cfr. R. Conquest, Il Grande terrore, Milano, 1970.

   11. Cfr. A. Blum, «Éléments sur l'histoire de la population de la Russie», in Retour sur l'URSS. Economie, société, histoire, a cura di J. Sapir, L'Harmattan, Parigi, 1997.

   12. Tale logica guida il recentissimo Le livre noir du communisme, di S. Courtois et alii, R. Laffont ed., Parigi, 1997.

   13. Cfr. M. Lewin, Storia sociale dello stalinismo, Einaudi, Torino, 1988.


(in : La transizione bloccata, Laboratorio Politico, Napoli. 1998)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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