Cuba 1960

El Curandero.


In tutti gli eserciti, chi ‘marca visita’ è un lazzarone imboscato, così tre giorni di infermeria son già troppi e veniamo dimessi. Siamo in quattro malandati, i sani sono partiti nel pomeriggio precedente ed hanno ricevuto l’attestato che li promuove tra ‘Los que subìron la Sierra’. Noi malati non l’abbiamo avuto ed è ingiusto. In italiano si traduce ‘salirono’, ma Giulio ed io affermeremo poi di essere gli unici che veramente abbiamo ‘subìto la Sierra’. Per scendere passiamo da una mulattiera, la cui esistenza ci era stata nascosta per farci salire per il sentiero dei Barbudos. Ci alterniamo a sostenere quello con la caviglia bendata; per fortuna sbucati dalla selva troviamo passaggi su camion e rientriamo alla Ciudad che è quasi buio.Qualcuno decide di mandarmi a Manzanillo, all’ospedale, dove mi visitano e fanno prelievi. Sono in corsia con altri quattro o cinque degenti; una sera si sente, dal corridoio, un battere di tamburo. “E’ …” - il nome l’ho dimenticato - “un vecchio negro, che dice di essere Curandero, capace di guarire tutti i mali”, mi spiega il vicino di letto, “viene dalla montagna e suona per dire qualcosa ai suoi spiriti che stanno là in cima”. Lo chiama, “vieni qui da noi” e lo sfotte, “Ma che carajo di curandero sei, se stai all’ospedale”. Il vecchio entra nella nostra stanza, portandosi il tamburo; sembra arrabbiato, gli sibila - è senza denti davanti - qualcosa, che non afferro. Dopo nuovi scambi di battute animose - ma gli altri, faccio caso, non lo prendono in giro - il mio vicino gli dice che sono straniero, che ho subìto la Sierra e che sto male. El Curandero si avvicina; è vecchio e secco, ha i capelli e la barba non rasata grigi, mentre le sopracciglia sembrano cespugli bianchi. Posa a fianco del letto il tamburo (timbal, o tambòr, mi confondo sul nome di questi strumenti) che non è colorato e laccato come quelli delle orchestre, sul legno vecchio, lucido dall’uso sono tracciati filetti, stelle, altri segni.Mi stringe la mano – ma in un modo strano, non solo come segno di saluto – trattenendola poi un momento, anche con le dita della sinistra. Mi fa un discorso che non capisco, non sembrano parole di castillano, però il tono – dopo quello astioso col vicino – è dolce, da amico. Si siede in fondo al letto, mette il tamburo tra le ginocchia e comincia a batterlo lievemente, quasi accarezzandolo. Muove la testa, pian piano, a ritmo, quando la gira verso di me accenna un sorriso senza denti; ogni tanto, guardandomi, socchiude gli occhi a fessura e alza i ciuffi bianchi delle sopracciglia. Me lo sento amico, un vecchio assennato e fidato, mi arriva in testa “ci penso io, tranquillo”. E continua a battere il tamburo, come sottovoce.La testa mi pesa e non mi sento per niente bene; percepisco volentieri il ritmo disteso. Chiudo gli occhi; non so dopo quanto tempo ho l’impressione che il suono si allontani, ma sento il peso del Curandero sul lenzuolo, non si è mosso. Mi addormento e sogno che il tamburo se ne sta andando da solo; vola lieve, alto sulla selva, in montagna, torna dai suoi spiriti.Il giorno dopo mi dimettono. Mai saputo la diagnosi, ma mi sento molto meglio.